Premessa
Che nella collana Campi del sapere dell’editore Feltrinelli trovi spazio un testo della profondità e complessità concettuale come Il canone minore di Rocco Ronchi è, senza alcun dubbio, una buona notizia per chiunque sia interessato alla filosofia. Il libro di Ronchi, infatti, non è un saggio di ermeneutica filosofica o di discussione intorno ad una porzione di storia della filosofia, è piuttosto un saggio di filosofia. Un testo che dà voce ad una prospettiva filosofica concreta, in un certo senso rivoluzionaria. Ronchi ne Il canone minore annoda tutti i fili delle varie operazioni filosofiche che fin qui ha prodotto. Infatti, chi conosce i precedenti lavori di Rocco Ronchi troverà qui molte delle idee già discusse, o almeno accennate. Penso a Filosofia della comunicazione, all’ultimo volume su Deleuze (uscito sempre per Feltrinelli e qui recensito da chi scrive), alle introduzioni ai vari testi di Bergson. La sistematizzazione che però nel Canone si rintraccia è frutto di un lavoro che dura da anni, da una costante messa a tema della storia della filosofia nel suo continuo cominciare.
Rischio calcolato
La tesi che sta alla base (quindi allo “start”) di questo volume è che esistano due linee del pensiero, una egemone (maggiore), capace di rivendicare a sé – in modo pressoché esclusivo – la facoltà di essere filosofia; l’altra, la linea minore, è invece un fil rouge nascosto, un fiume carsico che nella storia della filosofia è emerso ogni tanto, per poi occultarsi nuovamente e riemergere. Dello statuto di questa seconda Rocco Ronchi ci consegna le linee guida, il tracciato minimo. Ma prima di affrontare questo percorso è bene dire che, con Il canone minore, Ronchi ha voluto correre un grande rischio: quello di attirarsi critiche, anche se superficiali e per lo più formali, legate alla rivendicazione della minorità del canone da lui descritto e abbracciato.
Anche se questa minorità rivendicata fosse soltanto una particolare forma di subordinazione (per motivi extra-filosofici) ad un canone egemonico, tuttavia, l’operazione di Ronchi rimane legittima e – per quanto ci riguarda, come si diceva – rivoluzionaria. Non si rintraccia né astio né una vuota volontà di polemica quando Ronchi scrive, nelle prime pagine del testo, che assumendo il punto di vista teoretico (e non storiografico) «la filosofia cessa di designare il tutto di cui le due linee sarebbero parti. La filosofia – scrive ancora – sta infatti da una parte sola. Essa scorre sulla linea che abbiamo chiamato minore» (p. 15). Vi è piuttosto piena consapevolezza che è oramai necessario rovesciare realmente la cifra essenziale del filosofare moderno che, da Kant (e in parte da Cartesio) fino ai nostri tempi, si è occupato del pensiero filosofico a partire da una mancanza, da un nulla, dalla congenita finitezza dell’umano e quindi dalla sua eccezionalità.
Il “pensiero” non è la filosofia
Tale rovesciamento è operato da Ronchi anche grazie alle intuizioni dei maggiori rappresentanti della linea minore, e su tutti, Bergson, Whitehead, Deleuze, James e Gentile. Gli empiristi radicali, come li chiama l’autore, coloro i quali hanno tentato di liberare l’esperienza dalla connaturata deficienza che il pensiero moderno le ha consegnato. Empiristi radicali che hanno dato vita ad un monismo integrale che Ronchi chiama immanenza assoluta, attraverso il quale non si cerca di dare un “nome” all’unità del molteplice (sintesi), ma si tenta di descrivere «un Uno che è immediatamente molteplice e un molteplice che è immediatamente Uno» (pp. 15-16).
La filosofia, allora, è più del semplice pensiero che “unisce” i puntini dell’esperienza sensibile, fallace e limitata. Così come è più di quel pensiero che rivendica la propria impossibilità a raggiungere ciò che sta “oltre” l’esperienza del fenomenico. Questa, sostiene Ronchi a chiare lettere, è una vera e propria dismissione del filosofico, un suo scadere a chiacchiera antropologica del pensiero. La filosofia dell’immanenza assoluta, al contrario, applica il vero copernicanesimo rigettando la centralità del soggetto finito per dare voce e visibilità alla mostruosità del vivente che scuoteva già il giovane Socrate nel Parmenide. Essa tende, come dice il sottotitolo, a strutturare una filosofia della natura, un’ontologia del vivente. Detto in maniera più chiara e trasversale: la filosofia dell’immanenza assoluta stabilisce un quadro concettuale utile alla scienza della natura che, per suo statuto, non può essere filosofia – perché non pensa l’assoluto, ed è malgrado ciò scienza delle relazioni, delle leggi che attraversano e governano la vita.
Ma potremmo chiederci, quasi retoricamente, il compito della filosofia – nella sua forma originaria, che è pensiero emancipato dalla superstizione mitica, quindi nella sua versione ionica – non è proprio quello di pensare la Physis?
Tuttavia, a parte i nomi citati – ed altri che Ronchi tira in ballo come assimilabili alla linea minore –, in tutto il testo aleggia silenzioso lo spettro del più puro fra i monisti (il «filosofo minore per eccellenza» (p. 92), il filosofo con cui tutti quelli che l’autore inserisce nel canone minore hanno intrattenuto un rapporto di amore e odio, quello che anche Ronchi chiama «il maestro», per il quale – a differenza che per ogni filosofia che si è fatta antropologia – c’è «solo Dio e Dio è immediatamente il mondo»: Baruch Spinoza (p. 219).
Contingenza, finitezza e intenzionalità
Contingenza, finitezza e intenzionalità sono i tre concetti che determinano quello che Ronchi chiama il periplo metafisico della modernità. La persuasione umana nei confronti della contingenza – smontata anche attraverso l’ausilio di una coppia filosofica strepitosa: Bergson e Severino – è infatti un’induzione, scrive Ronchi. Essa deriva da uno stato di eccezionalità umana nata, a sua volta, dalla silente (ma non troppo) operatività costante del nulla alla base di ogni esperienza. Per il pensiero moderno, infatti, si dà essere nella misura in cui vi è un nulla che lo rende possibile. Si dà umanità poiché se ne dà la sua eccezionalità, il suo passo nel nulla costituisce una soggettività e – al contempo – il disvelarsi dell’ente (cfr. pp. 67 – 112).
L’idea di finitezza, allo stesso modo che per ciò che concerne l’idea di contingenza, impedisce alla filosofia di tendere realmente ad un’esperienza assoluta, infinita. Se la modernità ha fatto dell’uomo, del soggetto, «l’orizzonte intrascendibile di ogni sapere e fare del mondo un mondo “umano” e “storico”» (p. 117), allora mai saremo capaci di avventurarci nell’infinità di un assoluto che prescinde le nostre determinazioni, anzi: ogni determinazione. Se l’abisso fra finito e infinito è una costante spada di damocle che pende sulla possibilità stessa del pensiero filosofico, mai si potrà varcare la soglia e l’uomo sarà costretto a rimanere sempre dentro il suo orizzonte d’angoscia e finitezza intenzionale.
Intenzionale perché ha arrogato a sé, attraverso un falso copernicanesimo (la modernità è tolemaica!), una coscienza che è sempre coscienza di qualcosa. Nella linea maggiore del pensiero moderno non c’è mai una esperienza che non sia l’esperienza di qualcuno riferita a qualcosa. Tutto è delimitato dal potere (e dal potere-di-non) del soggetto, così come dell’ontologia di riferimento che non riesce mai ad uscire dal primo grande dispositivo attraverso cui si è cercato di spiegare efficacemente il movimento: la nozione aristotelica di potenza/atto.
Il divenire, si affanna a ripetere Ronchi, è sempre interpretato come il divenire di qualcosa che sta fermo, di un sostrato che in parte cambia e in parte rimane sempre lo stesso. Il mondo – per tirare l’idea all’eccesso –, secondo la linea maggiore, è quindi, come si dice nel Timeo, un’immagine mobile dell’eternità, copia degenerata di un’essenza immobile, splendente e che – teoricamente – potrebbe rimanere anche nella sua monastica solitudine, senza necessità di generare il mondo. Quest’ultimo è dunque finito, mai realmente salvo e colmo di anime che sperano nella bontà di un Dio che le possa accogliere nella sua grazia eterna.
Se queste, come detto, sono esagerazioni che non trovano un totale riscontro in molti filosofi della linea maggiore, tuttavia – sottolinea Ronchi – hanno lasciato una traccia sostanziale nella filosofia moderna. L’alternativa è dunque un pieno ribaltamento di questo piano e, in definitiva, una riprogrammazione del rapporto Uno-Molti.
La filosofia del processo
È dunque la filosofia del processo ciò che può offrirci la linea minore tratteggiata da Ronchi in opposizione ad una filosofia che si è fatta antropologia. Essa costituisce un’immediata relazione tra Uno e molteplicità, sebbene allo stesso tempo affermi una costitutiva differenza di natura fra i due. L’Uno non è, infatti, la sintesi del molteplice così come non racchiude “in potenza” tutto ciò che si dà nel mondo, ma è un tutto aperto, una virtualità che si pone costantemente in atto: «atto in atto» ripete Ronchi.
Il divenire, allora, viene innalzato ad assoluto. Ma non si tratta di un divenire che è annullamento dell’ente, cioè un divenire di, bensì è quello che Bergson chiama mouvant, è processo appunto, manifestazione continua di un’attualità sempre in atto. «Pensare il passaggio come assoluto, e non come il passare di qualche cosa» è l’obiettivo di una metafisica della durata creatrice (p. 243), tant’è che il filosofo francese (riferimento primario per Ronchi, anche per motivi di formazione personale) sosterrà nel suo testo più maturo che lo sforzo creatore «è di Dio, se non è Dio stesso». In questo processo di attualizzazione di un virtuale rintracciamo “il volto” di Dio che è Uno e molteplicità immediatamente. Unità e molteplicità sempre aperta e non più articolata sulla cronologica linea del tempo che lo spazializza per mezzo di un prima, un adesso e un dopo.
È qui che Ronchi affronta il tema della causalità nella filosofia del processo, facendo riferimento anche a quella particolare forma di causalità psichica di cui avevamo parlato anche qui. L’attualità della causa è l’essere, e la sua natura è Megarica: non è possibile che non sia, pena ricadere immediatamente nella folle concezione contingente dell’ente e alla correlata riduzione del processo a movimento, kinesis, ad attualizzazione del possibile.
Conclusioni
È praticamente impossibile riassumere tutti gli spunti e le argomentazioni svolte in questo testo, che – per sua natura – è in un certo qual modo programmatico. Il canone minore, come si diceva all’inizio, è un saggio che propone un’idea di filosofia che vuole essere definita come il giusto metodo per “muovere” lo spirito filosofico. E se, come ripete Emanuele Severino, la modestia in filosofia non ha senso, allora Il canone è un testo ambizioso e legittimamente proiettato verso una sua integrazione costante.
Del resto è la stessa linea minore che ha pensato un mondo niente affatto chiuso in sé ma aperto alla novità, alla durata creatrice (creatrice non dal nulla!), all’attualizzazione di un atto in atto che è perfetto nell’atto stesso di attualizzarsi e che, solo in quanto attraversato anche da un processo d’individuazione, si “irrigidisce” in fatti determinati. La verità, però, si trova nel movimento – e non nella sua cristallizzazione separatrice.
Già pensare questa rivoluzione del pensiero è cosa assai complicata. Descriverla a parole è un’impresa ancora più ardua per il carattere performatore del linguaggio, a causa della sua necessità di tracciare un segno che per natura differisce dal “segnato”. Tuttavia non si può fare a meno, insegna Ronchi, di testimoniare in ogni modo la naturale conformazione del vivente che è movimento. Un movimento che non è però kinesis, divenire di qualcosa che rimane immutabile, ma costante ristrutturazione del già fatto e, di conseguenza, creazione costante di novità.
Riferimenti bibliografici
Ronchi, Rocco. 2017. Il canone minore. Verso una filosofia della natura. Milano: Feltrinelli.
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