Il corollario del principio di non contraddizione è il principio di identità che, nella sua formulazione più semplice, afferma che ogni cosa è identica a se stessa (A=A). Severino, prendendo le mosse da Aristotele, nota come lo stagirita e i suoi interpreti siano passati sopra una cosa sorprendente senza farne un problema, il fatto cioè che per dire uno bisogna dire due: l’enunciazione dell’identità è immediatamente affermazione della molteplicità. La conseguenza di ciò è che nel principio di identità si finisce per pensare l’esatto opposto di quello che Aristotele aveva teorizzato nel principio di non contraddizione, in quanto dire che l’uno sia due significa dire l’essenza stessa della contraddizione. In questo modo, si finisce per pensare l’inesistente e di conseguenza il nulla ed in ciò si realizza, dice Severino, la svista di Aristotele. Di contro, egli intraprende un’altra strada: mostrare l’autentica identità dell’esser sé di ogni essente, via obbligata per affermare l’eternità dei singoli essenti.
L’identificazione dei diversi, ovvero il nulla
L’affermazione di Aristotele suona nel modo seguente: «L’identità è una unità d’essere, o di una molteplicità di cose oppure di una sola cosa, considerata però come una molteplicità: per esempio, come quando si dice che una cosa è identica a se stessa, nel qual caso essa viene considerata appunto come due cose» ((Metafisica, libro V, 1018a 5)). Severino sottolinea che se Aristotele vede che l’identità è sempre identità dei non identici, egli non avverte che essa è contraddizione impossibile ed inesistente «giacché pensando e dicendo che qualcosa è qualcosa (…) il pensiero e il linguaggio dell’occidente identificano i diversi, identificano i non identici, affermano la non identità dell’identità: pensano e dicono dunque l’impossibile, ciò che è nulla» (E. Severino, Tautótēs, Adelphi, Milano, 1995, p.99). L’identificazione dei diversi, altro modo di designare il divenire, è possibile soltanto sul fondamento di un sostrato che rimane lo stesso. Kant diceva che il divenire è il variare di un permanente, das Beharren come ribadiva Schopenhauer, ciò che persiste come la parte dello spazio nella sostanza, cioè una finzione assoluta costruita per rendere possibile il divenire. Ora «che la contraddizione è il non identico sotto l’aspetto dell’identità» (T.W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 2004, p.7) questo la filosofia lo sapeva già. Quello che non sapeva è che non è il principio d’identità a permettere il divenire, quanto piuttosto il divenire a produrre l’identità stessa. Questa è la novità radicale che Severino introduce nel pensiero filosofico nel cui principio d’identità si annida la radice di tutte le follie in quanto volontà di essere altro. Da questo punto di vista egli, fatta salva la sua irriducibilità rispetto alla tradizione filosofica, va ad aggiungersi alla schiera della stragrande maggioranza dei filosofi del pensiero occidentale che hanno sottoposto a critica il principio in esame.
Amici e nemici del principio d’identità
Rispetto al principio d’identità, da una parte vi sono coloro che lo sottopongono a critica e dall’altra coloro invece che gli attribuiscono un ruolo centrale per la costruzione dei rispettivi sistemi. Tra questi ultimi i principali sono Parmenide ed Hegel nei quali vi è l’esemplificazione più importante del principio in esame, cioè l’identità di pensiero ed essere. Per Parmenide si tratta di un’identità immediata che esclude qualsiasi riferimento al divenire a partire dal frammento 8, 34: «Lo stesso infatti è pensiero ed essere», principio la cui violazione rende inetti, mostruosi, (“uomini a due teste”), incerti ed incapaci di ragionare. Per Hegel si tratta invece di un’identità mediata dalla ragione la quale è il momento grazie al quale essa viene posta. Se quell’identità fosse immediata nel senso di Parmenide, il divenire sarebbe impossibile e l’essere sarebbe un monolite immobile, senza mondo. Ecco allora il pensiero dialettico, cioè la ragione, che ha il compito di svolgere l’essere nel divenire, di rendere identico essere e nulla così come viene affermato all’inizio della Scienza della Logica. Posta questa differenza essenziale tra i due filosofi, sia in Parmenide che in Hegel troviamo la negazione assoluta di ogni realtà trascendente il pensiero ed è giusto ricordare, a questo proposito, che l’identità è il fondamento dell’immanenza, tradizionalmente sinonimo del più genuino e radicale filosofare. Pensare è identificare, come scrive Adorno, secondo il quale ogni qualvolta cerchiamo di fare della filosofia in senso forte ci nutriamo dell’idealismo (cfr. T.W. Adorno, Terminologia filosofica, capp.25-29, Einaudi, Torino,2007).
I pensatori che hanno invece negato l’identità di pensiero ed essere sono al contrario la maggioranza. Tralasciando quelli prima di Kant, i più significativi sono coloro che hanno sottoposto a critica il soggetto nel quale viene fatto risiedere l’autore del principio di identità. Questi filosofi, basti pensare a tutta la tradizione francofortese o ai critici dell’età della tecnica, riconducono il principio di identità alla volontà di manipolazione del soggetto sulla natura e cercano così di fondare una ragione dialettica dove quest’ultima, a differenza di Hegel, è intesa come coscienza della non identità. Non da meno Heidegger il quale, dopo aver posto il motto di Parmenide come fondamento per la comprensione dell’uomo, sostiene che per esperire il coappartenere di uomo ed essere si rende necessario un salto per uscire da quella rigida gabbia imposta all’uomo dal principio di identità, salto che permette di entrare nella dimensione dell’evento nel quale risiede l’autentica espressione della verità dell’essere (cfr. M.Heidegger, Il principio d’identità, (la prima delle due conferenze pubblicate nel 1957) in Identità e differenza, Adelphi, Milano, pp.27-51).
Altro critico dell’identità è sicuramente Gentile. Questi, spingendo a fondo le coordinate concettuali dell’idealismo, sostiene che il principio di identità, ovvero l’essere oggetto del pensiero che è l’essere identico a se stesso, è la legge fondamentale della logica. L’oggetto del pensiero non è l’essere naturale ma l’essere pensato: il primo è l’essere immediato A, il secondo quello immediato A=A. Il concetto, affermando se stesso, si afferma come l’opposto dell’essere immediato: quest’ultimo è un opposto tale che se esso fosse, il concetto non sarebbe, ed essendo il concetto esso non è. La logica dunque è una logica dell’astratto, in quanto logica del pensato e non logica del pensante (v. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, Bompiani, Milano, 2014, pp.487-495). La dialettica di Gentile è attività pensante che, come tale, è produzione assoluta che si risolve nello stesso atto del pensiero. Si potrebbe dire che essa sia una continua sintesi dove la chiave determinante per la sua comprensione risiede nel passaggio dal pensiero astratto al pensiero concreto in cui la dialetticità consiste nell’attualità della molteplicità come unità. Da questo punto di vista sarebbe interessante confrontare in maniera approfondita il pensiero di Severino con quello di Gentile. Per ora basti soltanto ricordare la cosiddetta logica dell’inerenza che differenzierebbe Severino da Gentile: se per quest’ultimo l’identità A=A significa che il soggetto è posto dal predicato, per il primo è A che include il secondo (cfr. V. Vitiello Tautà Aeì. La logica dell’inerenza di Emanuele Severino in Il destino dell’essere. Dialogo con Emanuele Severino a cura di Davide Spanio, Morcelliana, Brescia, 2014, pp. 175-187. Il saggio è stato riproposto nel recente E.Severino/V.Vitiello, Dell’essere e del possibile, Mimesis, Milano, 2018).
Le impossibili pretese di verità delle filosofie della “svolta linguistica”
Un’attenzione tutta particolare nell’ambito della discussione del principio di identità merita il tema del rapporto della filosofia di Severino con le filosofie del linguaggio a motivo della loro pretesa di liquidare il problema su base meramente linguistica tralasciando qualsiasi considerazione ontologica. Da Platone ad Hegel la realtà era indipendente dal linguaggio, considerato come il modo relativamente accidentale con il quale gli uomini comunicano tra loro esprimendo le loro convinzioni. Le cose cambiano nel momento in cui ci si rende conto che la realtà si manifesta solo in quanto avvolta dalla parola con la conseguenza che il rapporto di separazione tra parola e cosa entra in crisi. A questo punto la filosofia del linguaggio crede di trarre la seguente conclusione: se il mondo appare soltanto nella parola, segue (visto il carattere transeunte e instabile del linguaggio) che non è possibile pronunciare nessuna parola definitiva e non esiste più nessuna parola che dica come stanno le cose. Se la ragione è linguaggio e la parola si riferisce alle parole, il carattere diveniente delle parole trascina con sé ogni pretesa di verità immutabile e definitiva, tra cui anche quella verità secondo cui tutte le cose sono eterne.
Contro questa tesi, se Severino riconosce che il tratto della linguisticità del pensiero è incontrovertibile, rimane che essa è una situazione, cioè un fatto. Non solo. Se anche si concede che il linguaggio ha un carattere storico, rimane tuttavia che tale tesi è un’interpretazione che conduce direttamente ad un paradosso: quello cioè di sollevare al rango di verità assoluta (essendo universale la convinzione che la scienza non enuncia più verità assolute e che il mondo ha carattere diveniente) la tesi secondo cui noi parliamo una lingua storica, che le parole che la costituiscono rinviano ad altre parole e che il linguaggio fluisce in modo sempre instabile. Il paradosso consiste nell’osservazione che proprio in base a questa ipotesi, cioè in base a qualcosa che non è verità definitiva, si finisce per escludere ogni verità definitiva (Per un approfondimento di questo argomento, cfr. E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano, 1992, pp.137-161).
La totalità oltre il linguaggio
La struttura tipica del linguaggio è quella per cui la volontà sia segno di altro. Questo qualcosa può essere una parola scritta, così come l’aspetto della stanza nella quale sto scrivendo, così come la mia dimensione inconscia: in tutti i casi la volontà che qualcosa sia segno d’altro realizza l’essenza della volontà di potenza. La conseguenza quindi sarebbe l’impossibilità di uscire dal linguaggio, di andare oltre il linguaggio? Se si ammette che pensare e parlare sono di per sé identificare i diversi sembrerebbe di sì e dunque quella pretesa sarebbe simile a quella del barone di Münchausen che pretendeva di sollevarsi dalla palude tirandosi per il codino dei capelli.
Eppure, bisogna ricordare che per Severino il linguaggio parla più in profondità di ciò che con il linguaggio l’uomo riesce ad esprimere. Nella formazione del linguaggio c’è infatti una sapienza primigenia e fondante che è ancora più originaria della sapienza ottenuta parlando il linguaggio: «il destino della verità appare all’interno del linguaggio; appare nel suo essere espresso dalla parola»: questa è per Severino l’autentica identità, quella cioè che «permane come innegabile nell’infinito differenziarsi del linguaggio che lo esprime» (Ibid., p.153). Radice della follia, anche a riguardo del principio di identità, è l’isolamento della terra che in questo caso produce l’isolamento del soggetto dal predicato che finisce per identificare i diversi. L’autentica identità per Severino non può non tener conto invece della relazione in cui consiste la totalità degli essenti: ogni esser sé di un essente, una volta escluso il divenire (una volta escluso cioè che quell’essente possa diventare altro da sé) si trova legato con necessità all’esser sé di ogni altro essente, sicché l’identità di ogni essente coincide con la totalità degli essenti: l’autentica identità è così identità dell’identità (cfr. E. Severino, Tautótēs (in particolare i capp.XI-XV), op.cit., pp.112-143).