Heidegger e Bergson: il “dire” nel tempo

Nel Novecento filosofico è possibile rintracciare un’infinita schiera di posizioni metafisiche. Ce ne sono due però che da un lato appaiono convergenti e dall’altro mostrano differenze sostanziali e distanze incolmabili. La metafisica heideggeriana e quella bergsoniana, infatti, vengono spesso accostate perché entrambe si rivolgo al tempo come a una categoria da reinnestare nel discorso filosofico. Sebbene tale osservazione sia corretta, è altrettanto corretto sostenere che il concetto di tempo a cui si rivolge Heidegger e quello che prende in esame Bergson sono assai diversi. Tuttavia, in questa riflessione non vorrei rivolgere l’attenzione a tale aspetto, bensì (in vista del Ritiro Filosofico che si svolgerà il 21 e 22 settembre) alla postura che i due assumono nei confronti del linguaggio.

L’atto del definire, così anche quello del dire, è sempre un circoscrivere. Definire, infatti, significa tracciare i limiti di qualcosa al fine di renderlo intelleggibile. Su questo punto si muove, fluida, la riflessione filosofica che ha fatto del linguaggio (che essa stessa è costretta a parlare) oggetto di analisi e speculazione. Ma appunto, la stessa filosofia ha la necessità di parlare il linguaggio che interroga; solo “parlando” la filosofia può dirsi tale, evitando di rimanere nel mistero e dando chiarezza, mettendo in luce quanto è di sua competenza. Volenti o nolenti, perché ciò sia possibile, è necessario l’utilizzo del linguaggio. 

Del resto, ogni filosofo che ha cercato di marcare la differenza con ciò che lo ha preceduto, sebbene abbia spesso utilizzato lo stesso armamentario linguistico, ne ha dato una codificazione ben precisa. È certamente il caso di Spinoza, il quale fa suo l’intero carico linguistico dell’aristotelismo passato attraverso la Scolastica, ma anche del razionalismo appena nato, e lo svuota di ogni significato teologico. In breve, quando Spinoza parla di Dio non intende la stessa cosa che pensa Tommaso d’Aquino. 

Come anticipato, le due interessanti posizioni nei confronti del linguaggio che vorrei affrontare sono quella heideggeriana e quella bergsoniana. 

Il Dire heideggeriano
Nel 1959 Martin Heidegger dà alle stampe un volume che raccoglie alcune sue conferenze sul tema e che intitolerà In cammino verso il Linguaggio (Heidegger 1959). Le conferenze e i saggi qui raccolti sono riflessioni interessanti che Heidegger svolge molto tempo dopo aver tematizzato il cuore della sua filosofia in Essere e tempo (Heidegger, 1927); il filosofo tedesco si trova in quella che verrà comunemente definita la seconda fase del suo pensiero. 

Qui il legame fra la Parola e l’Essere è fondamentale proprio perché la riflessione sembra muoversi nei dintorni di quello che la filosofia occidentale ha definito come Fondamento. Il linguaggio per Heidegger non è un mero strumento che l’uomo utilizza per comunicare, per parlare e interagire coi suoi simili. Il Linguaggio è qualcosa che è e parla di per sé. Nel suo scrivere arcaico e di sovente oscuro, Heidegger parla spesso di «dimorare nel parlare del linguaggio» (Heidegger 1959, 43). Sì, perché il Linguaggio sfugge alle due classiche definizioni (linguaggio come strumento, linguaggio come espressione) che lo hanno — secondo Heidegger — ingabbiato in una soggettività che coincide in parte con la dimenticanza dell’Essere. 

«Noi non solamente parliamo il linguaggio, ma parliamo [attingendo moto e sostanza del parlare] dal linguaggio. E ciò possiamo unicamente per il fatto che sempre già abbiamo prestato ascolto al linguaggio. Ma che ascoltiamo? Ascoltiamo il parlare del linguaggio» (Heidegger 1959, 200). 

È allora il nostro rimanere («dimorare presso…») in questo ascolto continuo del linguaggio che parla, che ci permetterà di stabilire una connessione con l’Essere e il mondo. Infatti, per Heidegger il linguaggio mostra, fa evidenza del mondo a noi capaci di ascoltarlo. «Il suo dire — scrive ancora il filosofo tedesco — scaturisce dal Dire originario» (ibidem), che è il mostrarsi dell’Essere a prescindere dalla nostra facoltà di parlare. 

Il Linguaggio appare in questi scritti come una massa magmatica che si muove, una “dimensione dell’Essere” così oscura e velata che solo la poesia può schiarire. Ma ad essere oscuro e velato è piuttosto il cammino che il filosofo tedesco conduce in questi scritti contraddistinti da una fortissima componente religiosa, la quale sembra in via definitiva sostenere che non si possa parlare, ma piuttosto si debba ascoltare il Linguaggio per farlo proprio. 

Il non-dire bergsoniano
A una conclusione apparentemente simile sembra giungere Henri Bergson molti anni prima (1903), in uno straordinario saggio intitolato Introduzione alle metafisica ora disponibile nella raccolta Pensiero e movimento (Bergson 1938). 

Bergson è impegnato nella definizione dei due metodi di conoscenza di cui dispone ogni filosofo: l’analisi e la sintesi. La prima è la modalità con la quale si muove la scienza e tutto il pensiero che intende vedere le cose dall’esterno, dal di fuori, in maniera relativa. La sintesi è invece l’intuizione che ci porta immediatamente dentro le cose, all’interno dei concetti. Il linguaggio, come si può ben intendere — nella misura in cui esso si definisce come «espressione, traduzione o rappresentazione simbolica» (Bergson 1938, 152) di ciò che viene analizzato e conosciuto relativamente — è una “funzione” dell’analisi. Come detto sopra: definire è tracciare i contorni, escludere includendo, sezionare la realtà, rappresentarla nella sua frammentazione e separazione. La metafisica, di contro, in questo sistema filosofico è ciò che si innesta nel reale, nell’Essere e lo conosce dall’interno. 

Scrive Bergson: «La metafisica è dunque la scienza che pretende di fare a meno dei simboli» (ibidem). Una definizione che sembra ricondurci a una direttrice simile a quella heideggeriana, nella quale il linguaggio degli uomini rappresenta una forzatura rispetto all’essenza dell’assoluto. In verità Bergson in questa definizione vuol forse provocare il suo lettore (sebbene ne Le due fonti della morale e della religione tale aspetto del non-dire metafisico torni e venga affrontato in maniera più sistematica). Sì perché se il risultato a cui deve condurre la metafisica è quel “contatto” con lo sforzo creatore della realtà (che appartiene a Dio, se non è Dio stesso, scriverà ne Le due fonti), l’avvicinamento alla meta è lo sforzo filosofico, la necessità della riflessione. In questa prospettiva, allora, il linguaggio è uno strumento che dovrà, prima o poi, in “quell’attimo” di estasi così complicato da descrivere, tanto da essere indescrivibile, lasciato da parte. 

Si vedrà allora come le due posizione siano diametralmente opposte. In Bergson, infatti, il linguaggio, ripulito dalle scorie della filosofia occidentale che ha pensato l’eterno immobile come un santuario da venerare, è ciò che potrà permetterci di fare chiarezza sulla vera natura della realtà. C’è, è innegabile, anche nel filosofo francese la necessità di porsi in ascolto, ma questa non è mai l’unica via per venire a conoscenza dell’assoluto. 

In ogni caso, ogni qual volta la filosofia intende avvicinarsi a quanto di più assoluto ha potuto codificare, i suoi mezzi linguistici si dimostrano difficili da utilizzare. Quando il pensiero si trova innanzi a ciò che meraviglia, e al contempo genera terrore, sembra incapace di parlare. Anche all’interno di questo perimetro di riflessione, il non cadere nella fede è la sfida che il pensiero filosofico deve affrontare.

Riferimenti bibliografici
– Heidegger, Martin: 1959 (trad. it. 1973: In cammino verso il Linguaggio. Milano: Mursia)
– Heidegger, Martin: 1927 (trad. it. 2005: Essere e tempo. Milano: Longanesi)
– Bergson, Henry: 1938 (trad. it. 2012: Pensiero e movimento. Milano: Bompiani)

Laureato in filosofia, lavora nel mondo della comunicazione e dell'organizzazione culturale. Coordinatore della redazione di questa rivista, ha pubblicato il saggio filosofico "Bergson oltre Bergson" (ETS, Pisa, 2018) e "La spedizione italiana al K2" (Res Gestae, Milano, 2024)

Lascia un commento

*