Hegel e lo sguardo obliquo del cameriere

La filosofia di Hegel, nonostante le sue alterne fortune, ha da sempre fornito degli utili paradigmi per leggere i movimenti della storia e della politica. L’esempio classico è la dialettica servo padrone con la sua capacità di interpretare il conflitto tra uomini e classi sociali. Meno nota, ma non meno efficace e suggestiva, è la dialettica tra altre due figure della Fenomenologia dello Spirito, quella tra Coscienza Giudicante e Coscienza Agente. Rispetto anzi a quella tra servo e padrone, legata ad una logica di dominio tra uomini tipica del mondo antico e medievale, la dialettica tra queste due figure riguarda in modo specifico il mondo moderno e contemporaneo, quello dell’uguaglianza e della democrazia, e risulta quindi ancora sommamente utile per comprendere gli scontri della storia e della politica odierna che avvengono soprattutto sul terreno della morale.

La critica alla visione morale di Kant
Nella Critica della ragion pura, in merito all’attuabilità della morale, Kant aveva concluso con la seguente antinomia: se la vita morale in noi è autonoma e procede secondo libertà, il mondo esterno naturale è regolato secondo criteri di rigida necessità che finiscono per rendere problematiche le affermazioni della morale. Da questa antinomia si produce uno scarto tra intenzione ed effetto che Kant non risolve limitandosi a salvaguardare l’intenzione, vera custode della moralità.
Hegel riprende questa antitesi facendo leva proprio sulla scissione tra intenzione ed effetto. In questa distanza egli infatti vede un vero e proprio rovesciamento: l’etica kantiana non solo non è morale ma costringe all’immoralità. Ecco la critica alla “visione morale del mondo”: è sbagliato dire che l’adesione alla propria coscienza morale deve essere assoluta e pura in quanto, con l’eliminazione della possibilità di altri moventi dell’agire e con il solo senso del dovere, la coscienza morale, non indicando i contenuti concreti del comando, rimane vuota e astratta: in definitiva, porre le cose in modo così contraddittorio significa legittimare gli uomini a fare il male. La legge del “devi quindi puoi” è falsa e una morale che costringa in questa scissione è una trappola per l’uomo, tanto più grave perché in questione c’è il bene e il male. La dottrina di Hegel su questo tema è contenuta nel cap.VI della Fenomenologia dello Spirito ed è il terzo dei tre stadi dello sviluppo dello spirito: dopo lo spirito vero, cioè l’eticità (A) e lo spirito estraniato da sé: la cultura (B), si giunge allo spirito certo di se stesso: la moralità (C). In questa parte sono efficacemente descritti  i postulati della visione morale del mondo di Kant definita “un nido di contraddizioni prive di pensiero”.

L’Io si crede il Tutto: la follia della presunzione
La coscienza morale kantiana configura una sovranità, cioè un potere supremo che non riconosce nessun altro potere sopra di sé, secondo la quale essa presume di sapere che cosa è bene e che cosa è male. Si tratta, afferma ironicamente Hegel, della “genialità morale” la quale è talmente elevata da essere in contatto con Dio stesso. Questo credersi tutto è in realtà una posizione astratta e isolata. La coscienza morale infatti arriva ad una tale sovranità che la rende inconsapevole del limite ed intollerante rispetto a qualsiasi altra alterità, identificata come il male. Si tratta della “follia della presunzione”: la morale è il presupposto della separazione e del giudizio di condanna dell’altro, giudizio che inibisce il cammino dell’autocoscienza identificando il nostro pensare con l’universalità del bene. Questa contraddizione (come tutte le contraddizioni) produce un rovesciamento (in modo analogo a quanto accade nella dialettica servo padrone): se la coscienza morale è padrona di se stessa, ecco che essa si ritrova sommamente povera fino ad annullarsi (“dileguare” nel lessico hegeliano). Il soggetto che si isola è obbligato a crearsi un mondo virtuale in cui non sperimenta la negazione che lo educa e la coscienza morale, murata dentro la sua presunzione, non ha nessuna presa sulla realtà. Essa, oltreché ostinata, è sterile e vive nell’angoscia di contaminare lo “splendore del proprio interno”, di perdere la sua purezza. Ma se questo è vero, cioè se il motore della moralità è l’angoscia, la coscienza non è affatto morale. Di più. La sua formalità, il suo essere cioè senza contenuti, le dà soltanto l’illusione dell’universalità: essa è un’anima bella, un’illusa infelice che non riesce a stare nella realtà perché alla ricerca del consenso universale che non ci può e non ci potrà mai essere.

La scissione tra coscienza giudicante (CG) e coscienza agente (CA)
È a questo punto che la coscienza universale o giudicante (CG) incontra la coscienza agente (CA), figura di colui che agisce nella storia interessato ai risultati piuttosto che alle intenzioni. Entrambe le coscienze hanno in comune l’interesse a fare il bene, vero oggetto da realizzare, e ciascuna di esse vale come singolo a causa della scissione generata dalla distanza rispetto al bene. La coscienza agente vuole uscire dall’immobilismo della coscienza giudicante dando un contenuto concreto alla legge morale. Nel prendere questo rischio, la CA si rende conto che decidendo di concretizzare il bene lo particolarizza, gli toglie la caratteristica di universalità che lo contraddistingue finendo per tradire il bene universale. Questo comportamento sprigiona una scissione tra singoli: in nome della legge morale si scatena una frantumazione in cui ciascuno guarda al male dell’altro e la contrapposizione è ora tra chi è veramente morale. La CG giudica la CA in due modi: da una parte essa è il male a motivo della discrepanza tra universale e particolare; dall’altra essa è ipocrita perché realizza l’universale con un contenuto egoistico. Questa ipocrisia (il sapere cioè di realizzare la legge morale con un qualsiasi contenuto pratico) deve essere mascherata: si ha qui la nascita dell’ideologia dove l’inganno è fatto sempre in buona fede fino a giungere alla convinzione personale in cui la verità viene ormai scambiata per la giustificazione del proprio agire. La CA in altre parole copre di legittimità l’errore del suo agire e si convince che quello che fa sia bene: essa resta nella sua ipocrisia perché si accontenta dell’apparenza del bene. Questa ipocrisia non viene smascherata dall’insistenza della CG sul proprio giudizio morale. Anzi avviene esattamente il contrario. Quando infatti la CG proclama l’ipocrisia come cattiva essa sia appella alla propria legge (così come aveva fatto la CA) e si rivela essere, nel momento in cui si oppone alla CA, una legge particolare riconoscendo implicitamente non solo di non avere nessuna preminenza sull’altra ma finendo anzi per legittimarla. Nel momento in cui sostiene di essere coscienza universale, la CG dimostra di non essere riconosciuta come tale e realizza di conseguenza il contrario di quello che sostiene.

La coscienza giudicante cameriere della moralità
Ma c’è anche un’altra conseguenza che scaturisce dalla ostinata fermezza della posizione della CG che Hegel indica con l’atteggiamento vile del cameriere nei confronti del suo signore. Come quest’ultimo infatti, l’eroe, ha a che fare con il suo cameriere (che presenzia ai suoi pasti, lo vede spogliarsi quando va a letto e nelle altre debolezze della vita quotidiana), così la CA deve sottostare ai giudizi della CG per la quale non c’è azione nobile o ignobile che non sia da essa giudicata. «Non c’è eroe per il suo cameriere e non perché quello non sia un eroe, ma perché questo è un cameriere. Con il suo cameriere l’eroe non ha a che fare come eroe, bensì come uomo che mangia, beve, si veste, cioè in generale nella singolarità del bisogno e della rappresentazione» (Hegel 2001, 883). La CG è il cameriere della moralità ed in questo essa si rivela essere ignobile ed ipocrita: ignobile perché divide l’azione producendo una disuguaglianza esterna, ipocrita perché non ammette che il suo giudizio sia una forma diversa dell’essere cattivi.

Questa posizione ha tuttavia una conseguenza non di poco conto. Secondo Hegel infatti con tale giudizio «la coscienza giudicante si colloca accanto alla coscienza cattiva (la coscienza agente, ndr) e quest’ultima, attraverso tale uguaglianza, perviene all’intuizione di se stessa in quest’altra coscienza» (Hegel 2001, 881). Anche la CA comincia cioè a comprendere la sua attività come dovere ma soprattutto, riconoscendosi uguale alla CG, finisce per instaurare con lei un dialogo rivolgendole la parola. A fronte di questa mano tesa, la CG mostra tutta la sua durezza di cuore che le deriva dalla mancata percezione di sé come particolare: anch’essa dunque finisce per essere ipocrita ponendosi al di sopra degli atti da lei disprezzati, pretendendo che «i suoi discorsi inattivi vengano considerati una realtà eccellente» (Hegel 2001, 885).

In questa giostra delle ipocrisie, la scena si capovolge di nuovo. La CG o anima bella, cosciente della propria contraddizione, si consuma in un nostalgico tormento fino a che il suo cuore duro finisce per spezzarsi nel momento in cui essa, come particolarità, si riconosce nella particolarità della CA. Solo nel momento in cui ciò si verifica, vero e proprio scatto di intelligenza con il quale la CG rinuncia alla sua pretesa irreale di costituire l’universale, si ha il perdono, presupposto e condizione fondamentale della riconciliazione. Questo movimento è in realtà una necessità perché quando un soggetto si pone come il tutto non riesce mai a mantenersi stabile e si dissolve per propria contraddizione. Quello che cambia sono le modalità con le quali avviene questo essere travolti: un conto quando il soggetto non si rende conto della propria situazione e vive la sua vicenda come destino crudele; un altro è quando invece ne è consapevole, cioè è autocosciente circa la propria dissoluzione ed ammette la giustizia di questo processo: a quel punto è il soggetto stesso che diventa protagonista del suo oltrepassamento. In questo secondo caso la coscienza autocosciente si adegua in modo deliberato al cambiamento che lo riguarda, lo asseconda e lo promuove tramite la confessione che le permette di dichiarare il tradimento della moralità da lei compiuta: in questo modo essa evita lo scatenarsi della rivendicazione opposta con il rischio che il conflitto non abbia termine e distrugga, insieme alla legge morale, gli stessi protagonisti.

Il conflitto e il ruolo politico del linguaggio
In questa dinamica, ogni momento è maschera dello Spirito che in quanto tale non esce mai dal processo totale che si conclude nel rispetto del più coerente principio d’identità. Tale quadro è garanzia che il conflitto non sia mai distruttivo ma via di riconciliazione in grado di produrre l’uguaglianza. Coscienza giudicante e coscienza agente sono due figure della stessa Ragione: una si potrebbe dire pura, l’altra politica ed entrambe sono espressioni della ragione illuministica la quale, se da una parte vuole chiarire tutto senza lasciare zone d’ombra, dall’altra vuole arrivare alla realtà e farsi razionale.
A differenza della più celebre dialettica servo padrone, in questo movimento (in cui i protagonisti sono le due coscienze) l’elemento di novità è il linguaggio, spirito valido per tutte le coscienze, che funge da mediatore tra i due poli opposti. Esso è l’elemento vitale del riconoscimento, momento della riconciliazione che permette alla singola parte di vivere e progredire. Nella dialettica servo padrone i due soggetti non parlano tanto che il conflitto (così come l’esito) è radicale. Nella dialettica tra coscienza giudicante e coscienza agente il linguaggio, oltre a permettere la confessione e il riconoscimento della particolarità della propria condizione, impedisce il conflitto assoluto. Per questo motivo tale dialettica ci fa capire come il linguaggio, scaduto oggi ad un livello che prefigura il ritorno a forme di dominio antico, costituisca un imprescindibile elemento politico della convivenza civile.

Riferimenti bibliografici

Hegel, Georg Wilhelm Friedrich. 2001. Fenomenologia dello Spirito. Milano: Bompiani.

 

Questo articolo è stato già pubblicato su Ritiri Filosofici il 19 novembre 2018.

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