Un primo livello costituito dal conflitto tra individui, stati, ideologie, religioni e tutto ciò che rientra nell’ambito della visibilità quotidiana. Sotto di esso il sottosuolo (secondo livello) costituito dalla verità (definita come fede) secondo cui le cose oscillano tra l’essere e il nulla, in termini ontologici la convinzione dell’agire libero da ogni immutabile grazie alla verità evidente del divenire. Ancora più sotto infine un terzo livello denominato di nuovo Sottosuolo (con la S maiuscola, vero e proprio sottosuolo del sottosuolo) che costituisce la negazione più radicale della convinzione del sottosuolo (con la s minuscola) in quanto mostra come il divenire è la Follia estrema e che l’eternità è ciò che costituisce lo spessore ontologico di ogni ente. Su questi tre livelli, come sanno i suoi lettori più fedeli, si gioca tutta l’opera di Emanuele Severino il quale ha saputo costruire con essi un’interpretazione della realtà che non ha pari nel panorama filosofico contemporaneo. La griglia è all’opera anche nel suo ultimo libro, Il tramonto della politica, che raccoglie i più recenti articoli e discorsi del pensatore insieme ad un’analisi inedita del pensiero di Carl Schmitt.
La grande politica
Nella raccolta non esistono novità degne di rilievo se non una certa enfasi nella tesi (rassicurante in un periodo di guerre che minacciano l’escalation nucleare) secondo cui la tecnica è la forma più potente di salvezza dell’uomo. La ragione di ciò nasce dal riconoscimento che la tecnica e l’uomo coincidono, essendo entrambi definiti come la capacità di organizzare mezzi in vista di scopi: la tecnica è dunque l’inveramento dell’uomo, la realtà in cui egli crede di scoprire la sua natura, senza vergogna e sensi di colpa. Ciò conduce al tramonto della politica, espressione con la quale Severino intende l’avvento della grande politica, costituita dal binomio di tecnica e filosofia, che si verificherà nel momento in cui la tecnica saprà ascoltare la voce della filosofia che le dice che il suo è un dominio invincibile ed assoluto, divenire estremo.
Oggi però, sostiene Severino, viviamo ancora nel tempo intermedio, quello cioè dove l’uomo crede di essere qualcosa di diverso dal suo essere tecnico. La forma maggiore di questo convincimento è l’homo economicus il quale crede che la sua economia capitalistica riesca a servirsi della tecnica. La realtà mostra invece il contrario, in quanto è il capitalismo ad essere portato al tramonto dalla tecnica, sicché l’unico risultato della convinzione ideologica del capitalismo è quello di impedire alla tecnica di ascoltare se stessa e di agire con la coscienza pulita. In altre parole, il capitalismo sta solo ritardando un processo irreversibile che porterà alla sua distruzione e all’avvento del paradiso della tecnica.
Il ruolo dell’Europa tra i due vasi di ferro
Questa dinamica è particolarmente visibile nel momento in cui si osservano quei macro individui che sono gli Stati. Qui si vede più chiaramente come sia la Tecnica a servirsi di loro e non il contrario. In questo modo l’apparato scientifico tecnologico si costituisce come il superstato che va lasciandosi alle spalle la politica, lo stato e i loro conflitti. Il primo superstato planetario è il duumvirato USA-URSS (secondo già quanto espresso in quel testo profetico e straordinario che è Téchne apparso nel 1979) che ha dato vita a quella concordia discors che costituisce l’anima dello Stato grazie al monopolio della forza. Nonostante il crollo dell’URSS, così come dimostra la realtà delle forze in campo, è ancora questo duumvirato (con la Russia al posto dell’impero sovietico) a detenere le redini della politica internazionale. Aggiungiamo, a questo proposito, che Severino aveva visto chiaramente come la tensione tra i due blocchi non si sarebbe chiusa con la fine della guerra fredda. Nella prefazione alla nuova edizione di Téchne (pubblicata nel 2002), egli scriveva che «sia pure continuando in forma diversa, il bipolarismo – cioè la competizione tra Usa ed ex-Urss – non è mai venuto meno. E il motivo è che non è mai venuta meno la capacità dell’arsenale nucleare russo di competere con quello americano. Non si è capito cioè che la fine del socialismo reale non era la fine di quell’apparato tecnologico che all’Est avrebbe dovuto salvaguardare il socialismo marxista, ma che, per salvare la propria capacità competitiva rispetto all’Occidente, ha finito col togliere di mezzo l’intralcio costituito appunto dal marxismo».
In questo contesto assume rilievo decisivo il futuro dell’Europa. Due sono le tendenze fondamentali indicate da Severino: da una parte l’infittirsi dei rapporti economici con la Russia che preludono al necessario avvicinamento politico; dall’altra la trasformazione degli stati in società tecnocratiche. La tesi avanzata è che l’unità politica dell’Europa non conviene nemmeno all’Europa in quanto il presupposto che la anima (lo stato nazionale come forza politica dominante) si sta dimostrando fallace nel momento in cui gli stati nazionali stanno diventando stati tecnici. Sicché, conclude Severino, la politica in crisi è il seme che genera un frutto già vecchio. Il vero problema dell’Europa è la sua debolezza militare in quanto è impossibile per i popoli riuscire ad essere floridi economicamente se sono deboli militarmente (affermazione quest’ultima non di poco conto che rovescia la tesi di quel classico della scienza politica internazionale che è The Rise and Fall of the Great Powers di Paul Kennedy secondo cui il mantenimento della potenza militare di un Paese è legato all’aumento della sua forza economica). La tesi di Severino costituisce invece un ritorno all’assioma tradizionale secondo cui è proprio la spesa militare a garantire elevati livelli di crescita economica. Nonostante ciò l’Europa può ancora candidarsi alla realizzazione della grande politica, ovvero la capacità di sviluppare le forme massime della potenza, capacità che nasce dal sapere che l’agire umano non ha limiti grazie alla tecnica. In che modo questo si possa realizzare da un punto di vista storico Severino però non lo dice e questo costituisce un limite alla sua analisi.
La tecnica e i sottosistemi
Il discorso che maggiormente angoscia l’uomo è quello della guerra. Inevitabile sin da Eraclito, che la considerava madre di tutte le cose, la guerra nasce dal senso stesso della cosa intesa come ciò che oscilla tra l’essere e il nulla. Come detto, il primo livello è occupato da quei sistemi ideologici che Severino chiama anche sottosistemi. Tra di essi l’Islam è quello che più di altri, attraverso il conflitto violento, sembra attentare alla pace. Tuttavia il mussulmanesimo, in quanto sottosistema, utilizza sempre la tecnica (ovvero l’incremento indefinito per il raggiungimento di scopi) la quale, asservendolo ai suoi scopi, lo porta alla distruzione (allo stesso modo in cui avviene per il capitalismo). Il processo che conduce al dominio della tecnica è scandito in modo inesorabile: a) la tecnica si presenta come il mezzo più potente di cui si servono le volontà di potenza ideologiche dominanti (poste al livello 1); b) poi si fa largo la Tecnica come progetto di incrementare la potenza oltre ogni limite fondato sul sottosuolo essenziale del nostro tempo (livello 2); c) nel conflitto che ne risulta ogni volontà o sottosistema può prevalere sugli altri se rafforza il mezzo tecnico di cui dispone; d) facendo ciò s’incrementa la potenza della Tecnica il cui rafforzamento è ora il fine di ogni sottosistema il quale finisce per smarrire ed abbandonare il proprio scopo (l’Islam in questo caso sarà sempre più indotto a favorire il potenziamento tecnico perdendo di vista gli scopi derivanti dalla politica di Allah).
Prima della terra e dello spazio, l’uomo afferra la vita
L’ultimo capitolo del libro è dedicato al pensiero e alla dottrina del filosofo e giurista tedesco Carl Schmitt. Noto come il filosofo del nazismo nonostante la sua professata fede cattolica, egli è contro l’universalismo del progresso tecnico industriale che tende a livellare le differenze storiche e culturali dei popoli. Proprio nel momento in cui l’universalismo si fa difensore dell’umanità viene in luce secondo Schmitt il suo carattere nichilista in quanto espressione dell’illuminismo considerato come non verità. Contro la tecnica, Schmitt difende la politica tesa alla formazione di grandi spazi offerti prima dalla terra e poi dallo spazio. Tra gli aspetti negativi dell’universalismo il filosofo tedesco annovera l’accelerazione dei processi e dei comportamenti sociali indotto dalla tecnica. Ma, risponde Severino, è proprio la tecnica a saper rispondere a questa esigenza vista l’immediatezza con la quale essa riesce ad incorporare i vari bisogni umani (sebbene anche Severino riconosca che questo soddisfacimento è soltanto apparente in quanto la volontà soddisfatta dalla tecnica è volontà che vuole continuamente l’impossibile).
Schmitt intende risalire ai processi originari che sono a fondamento dell’umano individuandone tre: in primo luogo il nomos, parola riconducibile al greco nemein e al tedesco nehmen che indicano il prendere possesso e il conquistare una terra; in secondo luogo la divisione; in terzo luogo l’utilizzazione di ciò di cui si è venuti in possesso. Tuttavia questo ragionamento, contesta Severino, non sembra possedere i caratteri dell’evidenza. Prima della volontà di conquistare una terra e uno spazio, c’è il tentativo dell’uomo di prendere la vita. Sicché i nemici originari dell’uomo sono l’inflessibilità della Barriera (altrove indicata con l’immagine biblica dei cherubini con la spada fiammeggiante posti da Dio a guardia dell’albero della vita) espressione con la quale s’intende la fede dell’uomo di essere un mortale e che gli impedisce di vivere.
Oh, l’eterno!
Anche in questo caso cioè, prima di qualsiasi agire, vi è una dimensione ontologica da emendare: quella per cui l’uomo crede di essere mortale e così facendo assoggetta alla morte tutto ciò che lo circonda. L’uomo, secondo una metafora spesso utilizzata dal filosofo bresciano, è un re che si crede un mendicante. Si tratta di prendere coscienza invece che ogni uomo è eterno, al pari di ogni altro ente, e di passare così dalla volontà di verità al destino della verità. Il destino infatti «non è un sapere che dapprima si trovi nella testa di uno o di qualcuno e che poi, se si verificano certe condizioni, possa passare nella testa di altri, inizialmente privi di esso. Ciò che ogni uomo è, nel più profondo della sua essenza – l’inconscio più profondo dell’uomo – è la luce più luminosa, che consiste appunto nell’eterno apparire della verità autenticamente incontrovertibile del destino». Con questa tesi si chiude l’ultimo libro di Severino e si apre la necessaria conoscenza dei suoi scritti per comprendere in che modo tutto questo possa accadere. In essi viene ripetuto continuamente che l’apparire della verità del destino non consiste in una decisione quanto in un prendere coscienza. Nell’orizzonte della verità infatti nessuno deve fare nulla, così come viene ricordato in quel testo fondamentale per chi voglia comprendere l’autore che è Destino della necessità: non solo perché il fare è la volontà di guidare l’oscillazione dell’ente tra l’essere e il nulla, ma anche perché la persuasione di dover fare qualcosa si appoggia sulla convinzione che un ente possa disporre di altri enti; essa cioè si fonda sulla fede nella terra isolata dal destino della verità (cioè separata da essa secondo il linguaggio di Severino), isolamento che rende la terra disponibile al dominio. Il tramonto dell’isolamento della terra, la salvezza, non può essere lo scopo di un’azione razionale. Ciò non significa che non si deve fare nulla o attendere passivamente qualcosa. Il segreto sta in una sorta di precomprensione: quella per cui la salvezza è l’oltrepassamento della fede nella terra isolata che può sopraggiungere solo in quanto ad attenderla vi è da sempre la verità. Veritas index sui et falsi: la salvezza della verità accade cioè solo in quanto l’alienazione della verità è apparsa ed è poi giunta al proprio compimento. Nel tempo storico, questo significa che si dovrà attraversare la notte delle tenebre costituito dal paradiso della Tecnica per la cui realizzazione l’uomo si è già avviato da tempo.
Lei scrive:
“Il processo che conduce al dominio della tecnica è scandito in modo inesorabile: a) la tecnica si presenta come il mezzo più potente di cui si servono le volontà di potenza ideologiche dominanti (poste al livello 1); b) poi si fa largo la Tecnica come progetto di incrementare la potenza oltre ogni limite fondato sul sottosuolo essenziale del nostro tempo (livello 2); c) nel conflitto che ne risulta ogni volontà o sottosistema può prevalere sugli altri se rafforza il mezzo tecnico di cui dispone; d) facendo ciò s’incrementa la potenza della Tecnica il cui rafforzamento è ora il fine di ogni sottosistema il quale finisce per smarrire ed abbandonare il proprio scopo.”
Ho ascoltato la conferenza Tecnica e Politica di Severino al senato (http://www.radioradicale.it/scheda/433587/tecnica-e-politica-conferenza-del-professor-emanuele-severino) e, a partire dal minuto 28:51, S. ripercorre il passaggio dalla tecnica alla Tecnica. Severino fa riferimento alla dialettica servo-padrone di Hegel e dice che, utilizzando le tecniche di produzione dei beni, il servo si appropria delle conoscenze e dunque del potere che il padrone non ha e lo sostituisce (passaggio medioevo/rivoluzione francese, fa l’esempio Severino). Però in questo passaggio non è evidente perchè la tecnica si dovrebbe trasformare in Tecnica (“poi si fa largo la Tecnica come progetto di incrementare la potenza oltre ogni limite”, dice lei). Severino, nel suo intervento, aggiunge anche qualcos’altro: dice che il servo non produce solo beni per il benessere del signore ma, anche, gli strumenti per produrre gli strumenti per produrre beni. In questo modo la tecnica effettivamente si amplia e, nelle mani del servo, arriva una tecnica amplificata. Sono questi passaggi – da tecnica_1 a tecnica_2 e poi a tecnica_n – che permetterebbero di capire che la tecnica non ha limiti e che dunque si tratta della Tecnica? Cioè di passare dalla politica alla “grande politica” cioè alla politica che è conscia dell’aspetto filosofico che è nella tecnica?
Potrebbe amplificare quest’aspetto del ragionamento, o può indicarmi riferimenti agli scritti di Severino in cui questa questione (che a me pare decisiva) si possa approfondire. La ringrazio dell’attenzione.
Caro Francesco Mosiello,
grazie innanzitutto per il commento così ben circostanziato. Provo a risponderle.
Il passaggio che permette di capire che la tecnica non ha limiti non è quantitativo (il passaggio da tecnica 1 a tecnica n come dice lei) bensì qualitativo: ovvero il comprendere che l’agire sotteso alla tecnica è libero da qualsiasi immutabile. Non si tratta cioè di un aumento esponenziale del progresso della tecnica (per quanto esso sia importante) bensì di prendere coscienza che l’agire tecnico non ha e non può avere limiti a motivo della fede nel divenire che lo sorregge.
In questo modo il passaggio dalla politica alla grande politica consiste nel rimuovere tutti gli ostacoli ideologici che ancora trattengono la tecnica dal suo pieno dispiegarsi e che ancora oggi credono di limitarla (capitalismo e Islam sopra a tutti).
Gli scritti a cui posso rimandarla sono almeno due: Téchne, il lavoro fondamentale di Severino sulla questione e Il destino della tecnica, che contiene anche un capitolo sulla tematica hegeliana di servo e padrone letta alla luce della tecnica.
La ringrazio tanto. Un saluto
Mi piace questo blog, è stata una bella idea di cui ringrazio gli autori. Sono un vecchio allievo di Severino, che continuo a seguire attraverso i suoi libri. Mi piace questa presenza e mi piace trovarvi elementi che smuovono domande. Per esempio, non ho compreso il tema della precomprensione al termine di questo paragrafo. Spero pubblichiate ancora interventi sul filosofo, che, come questo, smuovono la quiete di un anziano lettore. Cordialmente PierLuigi