Quello di sovranità è uno di quei termini del linguaggio politico che, negli ultimi tempi, sono stati maggiormente utilizzati e allo stesso tempo fatti oggetto di vero e proprio abuso. Per molti, la sovranità ha acquistato un fascino che va al di là del suo significato storico, tanto da diventare parola mitica per risolvere l’attuale crisi della politica. Georges Bataille, scrittore e filosofo francese vissuto nella prima metà del XX secolo, ne ha fatto invece oggetto di uno studio originale quanto eccentrico, tracciandone genesi e significato. Attraverso un’analisi che comprende non solo la filosofia ma anche l’antropologia, lo studio delle religioni e la politica, Bataille giunge alla conclusione che la sovranità si definisce come ciò che va al di là dell’utile. Centro della sua speculazione è la nozione di dépense, traducibile dal francese con l’idea di spreco o consumo non necessario: tesi del saggio, che raccoglie una serie di testi scritti in un lungo arco temporale, è che la sovranità consiste in un residuo di libertà personale irriducibile a qualsiasi forma di manipolazione.
Tra Hegel e Nietzsche, passando per Kojève e la scuola etnologica francese
La riflessione di Bataille si sviluppa attorno a diverse costellazioni di pensiero ma finisce per oscillare (senza mai posarsi stabilmente) su due grandi poli della tradizione filosofica recente. Da una parte Hegel il quale, con la figura del servo, ha avuto il merito storico di riscrivere la teoria di Hobbes, che aveva postulato la paura della morte violenta come origine della politica: da ciò deriva l’idea secondo la quale detenere il potere significa coscienza del proprio essere mortali. Questa rilettura di Hegel come interprete radicale di Hobbes è fatta da Bataille insieme a Kojève il quale, con la visione della dialettica servo padrone dalla parte del servo che libera l’umanità in chiave ateo-comunista, feconda tutta una stirpe di intellettuali. Dall’altra parte Nietzsche, rappresentante del polo del signore, il quale (nonostante le letture denazificanti di Löwith e Jaspers) rimane il teorico della disuguaglianza, in quanto «ogni elevazione del tipo uomo è stata fino ad oggi opera di una società aristocratica, una società cioè che crede in una lunga scala dell’ordine gerarchico e in una difformità di valore tra gli uomini e che ha bisogno della schiavitù».
Tra questi due poli Bataille non prende partito, in quanto egli crede che il senso della storia non è costituito dalla lotta servo padrone ma da un’opposizione radicalmente diversa: quella tra sacro e profano. Più precisamente, lo sviluppo storico dell’umanità si svolge tra tabù e non tabù, secondo la lettura di quel filone di pensiero che coinvolge pensatori come Durkheim e Mauss per i quali la sovranità si scopre legata al fasto e al dispendio, potlach nella lingua e nel cerimoniale delle tribù dei nativi americani, nel quale vengono distrutti beni di particolare prestigio sociale.
La sovranità, perché non di solo pane vive l’uomo
Se queste sono le premesse, che cosa intende Bataille per sovranità? Il suo esordio è quello di non voler considerare la sovranità degli Stati: «La sovranità di cui parlo ha poco a che vedere con quella degli stati, definita dal diritto internazionale» e tuttavia l’assicurazione non convince nel momento in cui ci si accorge che oltre metà della sua analisi riguarda le forme con cui la sovranità si è manifestata (o meglio non si è manifestata) con l’avvento dell’Unione sovietica. Sovrano è ciò che si produce nell’istante e non è mai asservito ad un fine, da cui consegue che come non è sovrano l’utile, così non è sovrana la conoscenza: il che significa che la sovranità non è da ricercarsi né nell’economia né nel possesso delle informazioni. Solo l’uomo non alienato gode della sovranità, quell’uomo cioè in cui la rappresentazione della morte è scomparsa, perché il senso della storia risiede in quell’unico e vero sviluppo umano costituito dalla liberazione dalla paura della morte. Espressione più autentica della sovranità sono per Bataille le lacrime, perché esse sono frutto del miracolo, cortocircuito di ogni conoscenza. Nel miracolo e nel non sapere, viene negato l’asservimento e l’alienazione a cui è stato ridotto il pensiero («definisco la sovranità pura: il regno miracoloso del non sapere»). Per Bataille la sovranità è qualcosa che si pone agli antipodi dell’uomo moderno, costruito hobbesianamente sulla paura della morte, ed è invece espressione dell’uomo arcaico, tutto preso dalla meraviglia e dallo stupore, in cui domina la coscienza della festa arcaica. Come scrive il grande antropologo delle religioni Karl Kerényi, la festa «rivela il senso dell’esistenza quotidiana, l’essenza delle cose che circondano l’uomo e delle forze che agiscono nella sua vita»: essa è la realtà psichica più significativa perché, sospendendo il corso della vita ordinaria, ne rivela il senso. Il manuale della sovranità scrive Bataille è il vangelo con il suo principio aureo secondo cui l’uomo non vive di solo pane ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Per questo motivo la sovranità non è qualcosa di oggettivo ma di soggettivo che si comunica a coloro che dispongono già dell’atteggiamento sovrano, che consiste precisamente nella capacità di rinunciare. Il riferimento ai fermi rifiuti del Salvatore alle offerte del diavolo nel deserto, non ha nemmeno bisogno di essere enunciato come esempio tipico.
Il comunismo, ovvero il potere al posto della sovranità
Se questo è vero, allora la negazione più evidente della sovranità è il comunismo in quanto negazione del sacro ed esaltazione dell’essenza del servo, cioè del lavoro. Il lavoro è attesa procrastinata, rinvio del soddisfacimento immediato del desiderio ma anche progetto del servo che vuole abbattere le stratificazioni sociali. Si capisce allora perché tutte le grandi rivoluzioni del mondo moderno sono state contro la sovranità, cioè contro il mondo diviso in classi. In questo senso la storia politica è storia del populismo inteso come continua rivolta contro la sovranità. Anche qui si mostra l’opposizione tra comunismo e vangelo: il primo che subordina l’uomo alla produzione, l’altro che rinuncia a qualsiasi utilità.
L’avvento del comunismo è la radicalizzazione della rivoluzione borghese, ovvero la vittoria del principio del lavoro sopra quello del godimento. A differenza di quanto si crede, gli uomini non vanno verso la sovranità ma verso la servitù determinata dal principio dello scambio indifferenziato. Il potere prende il posto della sovranità con il regno dell’oggettività che si sostituisce a quello della soggettività. «Il potere, in quanto è umano, è il rifiuto della sovranità» allo stesso modo, spiega Bataille, in cui un uomo che decide di non accendere la lampada oppone un rifiuto alla luce. Il potere è privo degli attributi tipici della sovranità, ed è ben rappresentato non solo dalla grigia nomenclatura dei dirigenti sovietici, ma anche dagli esponenti della borghesia i quali, a differenza dei loro cugini comunisti, sono anche comici perché pretendono di imitare quelle vestigia sovrane che non potranno mai indossare per natura. Stesso discorso per coloro, intellettuali e politici, che oggi si schierano a favore del ritorno delle sovranità nazionali, atteggiamento che nasconde una semplice quanto malcelata operazione di potere.
Il niente della sovranità come negazione dell’asservimento
Come detto in precedenza, al concetto di utile si contrappone quello di istante, momento pericoloso in cui il passato e il futuro vengono subordinati al presente. Al lavoro si contrappone il gioco, esaltazione del niente dove anche la guerra perde il suo carattere drammatico. Nietzsche, che costruisce la sua dottrina sul rifiuto di servire, è il grande avversario del comunismo e Bataille scrive di essere il solo pensatore a presentarsi non come suo glossatore ma come identico a lui. Il mondo dell’accumulazione (sia quello borghese che quello comunista) è un mondo che, privo dei valori della sovranità tradizionale, genera una profondissima ipocrisia. Se infatti, sostiene Bataille, l’accumulazione condanna moralmente il rango (perché contrario al lavoro) e la guerra (perché distrugge quanto prodotto), essa non può esaurire la sua ricchezza senza il ricorso al rango e alla guerra: entrambe infatti diventano a loro volta necessarie, sicché «la ricerca del rango è l’ultima umiliazione di una moltitudine comica, mentre la guerra è la bancarotta fraudolenta del genere umano».
Nelle ultime righe del saggio il pensiero va a Kafka, perché negare quell’asservimento a cui conduce il potere, significa ristabilire l’idea che la vera sovranità rimane invariata: «io non sono niente è l’ultima parola della soggettività sovrana liberata dal dominio che esso volle o dovette esercitare sulle cose». Non si tratta evidentemente del nulla metafisico a cui si riferisce l’ontologia, ricorda Bataille, ma di quel niente che, negando l’accumulazione, afferma l’unico diritto autenticamente sovrano: quello su se stessi.
(La foto in Home page è tratta dalla serie TV Il Miracolo di Niccolò Ammaniti)
Riferimenti bibliografici
Georges Bataille, La sovranità, SE, Milano, 2009