Giordano Bruno, un pilota nell’universo infinito

Contro i sogni della scienza e della tecnica che oggi guidano le vite degli uomini, la filosofia non manca di ricordare che la conoscenza della natura e di ogni singolo fenomeno è legata in maniera imprescindibile alla conoscenza del tutto. Giordano Bruno è uno di quei pensatori che lo ha affermato nel modo più perentorio in quel luogo teoretico che concerne il rapporto tra l’uno e i molti, tra il particolare e l’universale. Tentare di ricostruire in poche righe la sua dottrina dell’individuo, e di quel particolarissimo individuo che è l’individuo umano, non è compito agevole: troppe le rielaborazioni simboliche, ontologiche, fisiche e metafisiche che si ritrovano nella sua filosofia, così come i rimandi polemici nei confronti di Aristotele, le cui dottrine Bruno padroneggia per denunciarne puntualmente limiti e aporie. Senza contare infine un metodo che, se spariglia e fa uso in maniera a volte spregiudicata di varie correnti filosofiche, ermetiche e religiose, è sempre finalizzato alla ricerca della verità. Nonostante questa congerie di elementi critici ci siamo tuttavia cimentati nel compito non solo per indicare alcuni tratti di un pensiero che rimane fecondo e denso di spunti ma anche per rendere il nostro dovuto omaggio al filosofo di cui abbiamo ricordato l’anniversario della morte avvenuta il 17 febbraio del 1600 a Campo de’ Fiori in Roma.

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Leggere Wittgenstein

Quando si affronta un nuovo sistema filosofico, ci si trova sempre in una certa situazione di imbarazzo. Si vorrebbe avere una visione d’insieme, una sorta di sguardo dall’alto grazie al quale contemplare il paesaggio che attende chi dovrà attraversarlo. Il filosofo sa che deve fare la traversata da solo e per di più in una landa ignota: almeno avere un’idea della vastità del territorio sarebbe d’aiuto. Una buona regola sarebbe quella di studiare come se si dovesse affrontare un fortino inespugnato: attaccandolo cioè dal lato debole, o almeno quello che appare tale e che sembra essere compreso più facilmente. Per Ortega y Gasset lo studio dei grandi problemi filosofici richiede una tattica simile a quella che gli Ebrei adottarono per prendere Gerico: «non per attacco diretto ma girandovi intorno lentamente, affrontando la curva ogni volta più strettamente e mantenendo vivo nell’aria il suono delle drammatiche trombe»

L’importanza di questa strategia (ma allo stesso tempo l’imbarazzo)  si accresce quando si deve affrontare lo studio di un filosofo come Wittgenstein. Da dove partire? Dove attaccare il discorso senza che questo si dimostri essere una strada interrotta? Lo stesso Wittgenstein diceva che «Il linguaggio ha pronte per tutti le stesse trappole: la straordinaria rete di strade ben tenute praticabili (tanto che) sarebbe buona norma mettere dei cartelli là dove si diramano le false strade, che aiutino a passare sui punti pericolosi».  Se anche non si riuscisse a fare ciò, almeno affrontare lo studio in modo che la lettura delle sue proposizioni porti a pensare i problemi da lui pensati. All’inizio del Tractatus egli scrive che il libro può essere compreso solo da chi abbia già pensato i pensieri in esso contenuti. Crudo ma essenziale. Wittgenstein amava dire che l’unica cosa buona che aveva era che a scuola leggeva favole ai bambini. Ho avuto la stessa esperienza: dopo averne raccontata una, alla domanda su quale fosse il significato della favola, i bambini hanno risposto: «il signor Maurizio!»: non poteva capitarmi cosa migliore per capire la tesi del linguaggio come gioco. Continue Reading

Tra le spiagge dello scetticismo e gli scogli dell’idealismo

La storia della filosofia è costellata di battaglie dialettiche, rimproveri o accuse condotte in nome di definizioni, idee, formule che spesso contengono significati sfumati o addirittura contraddittori. Concetti come empirismo, razionalismo, idealismo sono spesso spacciati come aventi un significato univoco dimenticando invece che esistono vari tipi di scetticismo e diverse modalità di declinare le “scuole” classiche della modernità. Come definire ad esempio la filosofia di Spinoza che ha fatto del razionalismo la veste esteriore del suo pensiero in realtà profondamente permeato di empirismo? Come intendere ancora l’idealismo, e il realismo che gli fa da contraltare, di cui si distinguono forme e contenuti differenti? Per arrivare fino a noi, si può aggiungere a questo quadro la galassia dell’esistenzialismo, che comprende autori notevolmente diversi tra loro, o ancora le varie forme di materialismo che, nel pensiero moderno, finiscono per stravolgere il senso che il termine aveva nel mondo antico. Un’occasione per comprendere la complessità e la portata eversiva celata dietro alcune di queste definizioni ci è offerta da una polemica sorta dopo la pubblicazione della Critica della ragion pura di Kant del 1781. Il dibattito che ne seguì fu una delle cause che portarono alla redazione dei Prolegomena e poi alla seconda edizione della Critica del 1787: ripercorrerlo costituisce anche un modo per mostrare come le opere filosofiche nascano spesso dal tentativo di risolvere contrasti o interessi occasionali. Continue Reading

La fede razionale di Kant

Come sanno coloro che hanno una sufficiente conoscenza della storia del pensiero filosofico, Immanuel Kant rappresenta una sorta di spartiacque tra la filosofia antica/medievale e quella moderna/contemporanea. Sebbene i motivi del suo sistema siano presenti in molti dei suoi predecessori (basti pensare a Cartesio con il principio dell’Io penso, a Berkeley negatore della materia e precursore dell’idealismo fino allo stesso Hume che lo risvegliò dal sonno dogmatico), Kant ha il merito di rendere esplicita e di portare ad  estrema conseguenza l’idea secondo la quale, prima del mondo esterno e degli oggetti reali, la conoscenza è innanzitutto conoscenza della propria coscienza. Confermando che il vero esploratore è colui che è consapevole di aver scoperto un nuovo mondo e non soltanto qualche sua regione, il padre dell’illuminismo ribattezza la sua opera secondo la metafora della rivoluzione copernicana: così come Copernico aveva inaugurato il nuovo mondo scientifico ponendo fine al primato della terra orbitante intorno al sole, Kant pone fine al primato dell’oggetto e del realismo sostenendo il principio secondo il quale sono piuttosto gli oggetti a conformarsi alla struttura dell’intelletto. È dunque necessario, al fine di poter conoscere qualcosa, scoprire i meccanismi attraverso i quali l’essere umano si forma le rappresentazioni del mondo esterno. Le conseguenze di questo approccio sono almeno tre: il primato della coscienza nell’indagine filosofica, la fine della metafisica e l’etica fondata su se stessa.

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Shakespeare, as you like it!

Non sono molti i testi critici che hanno tentato di affrontare in maniera sistematica la filosofia che sta a fondamento delle opere di Shakespeare. Il rischio è quello di dire di più di quanto l’autore avesse inteso dire oppure di presentare un generico elenco di temi che poco però riesce a chiarire l’impianto complessivo del suo pensiero: in un rischio simile ad esempio incorre Colin McGinn nel suo Shakespeare filosofo dal momento che quello che presenta lo studioso americano, anziché essere il significato nascosto della sua opera (come recita il sottotitolo), sembra essere piuttosto un insieme di temi eterogenei non legati tra loro da un’idea complessiva. Più coraggiosi ci sembrano invece altri tentativi che, seppure con rischi e contraddizioni, hanno tentato di affrontare in maniera più unitaria il pensiero derivante dalle sue opere teatrali.

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Hegel e lo sguardo obliquo del cameriere

La filosofia di Hegel, nonostante le sue alterne fortune, ha da sempre fornito degli utili paradigmi per leggere i movimenti della storia e della politica. L’esempio classico è la dialettica servo padrone con la sua capacità di interpretare il conflitto tra uomini e classi sociali. Meno nota, ma non meno efficace e suggestiva, è la dialettica tra altre due figure della Fenomenologia dello Spirito, quella tra Coscienza Giudicante e Coscienza Agente. Rispetto anzi a quella tra servo e padrone, legata ad una logica di dominio tra uomini tipica del mondo antico e medievale, la dialettica tra queste due figure riguarda in modo specifico il mondo moderno e contemporaneo, quello dell’uguaglianza e della democrazia, e risulta quindi ancora sommamente utile per comprendere gli scontri della storia e della politica odierna che avvengono soprattutto sul terreno della morale.
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Breaking Hobbes

Tra le letture obbligatorie per chi voglia occuparsi oggi di filosofia politica  c’è Limes, la rivista italiana di geopolitica che analizza i grandi stravolgimenti culturali, politici ed economici che stanno avvenendo a livello planetario. Strumento indispensabile per dare uno sguardo approfondito alla realtà internazionale, il periodico diretto da Lucio Caracciolo costituisce un ottimo riferimento per comprendere le modalità con cui le grandi idee sono in corso di realizzazione nella storia. Nel numero 9/2015 dedicato alle guerre islamiche, Limes definisce la regione interessata dai conflitti musulmani  la terra di Hobbes. «Il caos alle porte? Ad auscultare il respiro profondo della nostra società come di altre in Europa, non solo mediterranea, parrebbe di cogliere la paura del ritorno allo stato di natura. Condizione umana che il filosofo inglese Thomas Hobbes descriveva quasi quattro secoli fa come anticamera dell’apocalisse. Uno stato senza Stato. Nel quale cade ogni obbligazione: niente più governi né governati. La guerra di tutti contro tutti. Homo homini lupus. Uno sguardo ai mari che bagnano le nostre coste, solcati da zattere stracolme d’umanità sradicata, i fondali segnati dalle fosse comuni dei naufraghi, suscita allarme e paura. Ove non bastasse, la drammatizzazione mediatica e l’impotenza della politica, accentuata dal ricorso a una retorica tranquillizzante che non calma nessuno, provvede a eccitare ansie collettive». Sicché, continua Limes, «le peggiori distopie del grande pensatore politico sembrano materializzarsi. Se fosse vissuto oggi, anziché evocare i costumi selvaggi degli indiani d’America, Hobbes avrebbe forse esemplificato le sue teorie scandagliando le vene profonde di Caoslandia». Un’esistenza durata oltre novanta anni (1588-1679), assertore del meccanicismo, del materialismo e dell’individualismo, con il quale rompe i ponti con la tradizione classica, vero e proprio filosofo della paura, Thomas Hobbes è il bad boy del pensiero moderno.

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Il dissenso mal riposto dell’ortolano

Vàclav Havel, drammaturgo e poeta scomparso nel 2011, è stato prima presidente della Cecoslovacchia dal 1989 al 1992 e poi della Repubblica ceca fino al 2003. Durante gli anni del comunismo, Havel si è particolarmente distinto per la sua opposizione al regime (culminata con il celebre documento del dissenso Charta 77) che gli costò il carcere per 5 anni. Il suo saggio più conosciuto è Il potere dei senza potere, uscito nel 1979. A distanza di oltre 40 anni le sue tesi si sono rivelate profetiche non solo per il regime dell’Est Europa in cui viveva ma anche per aver colto alcune linee di sviluppo delle democrazie occidentali. In quel saggio, Havel indicava la rivoluzione esistenziale come unica strada per il rinnovamento della politica: la consapevolezza dell’antitesi tra vita nella verità e vita nella menzogna, grazie anche alla forte ispirazione morale che la sottende, è il segnale per intraprendere la strada di una nuova consapevolezza e partecipazione civile.

Tuttavia vanno anche segnalate le ambiguità del fondamento filosofico delle proposte di Havel che riposa su una chiara ed esplicita matrice di origine heideggeriana: «una nuova esperienza dell’essere», «un rinnovato ancoraggio all’universo, una riassunzione della responsabilità suprema» fino al «solo un Dio ci può salvare». Se Havel non manca di riservare critiche verso la società post totalitaria (ancora più totalitaria di quella precedente), è curioso osservare come egli riponga le sue speranze su uno dei pensatori più totalitari del secolo scorso.

L’alibi dell’ideologia, valevole in ogni regime
Il potere dei senza potere è strutturato in tre parti. Nella prima egli prende in esame l’ideologia la cui funzione è quella di fare da alibi, fornendo cioè all’uomo l’illusione di essere in sintonia con l’ordine dell’universo. In questo modo però l’apparenza viene spacciata per realtà e la vita comincia ad essere percorsa da menzogne ed ipocrisie. Per mostrare il modo in cui l’uomo è costretto a vivere nella menzogna, Havel porta l’esempio dell’ortolano il quale solo accettando l’ordine e il rituale stabilito (nel caso specifico, quello di affiggere nel suo negozio la scritta “Proletari di tutto il mondo unitevi”) può essere tollerato dallo Stato. Ogni comunità politica infatti è retta da una precisa ideologia che, introducendo sempre e comunque un certo livello di menzogna, ha il compito di regolare i rapporti con gli individui.

L’ideologia acquista un ruolo sempre più importante tanto che i fatti che avvengono nel sistema sociale e politico dipendono, per la loro stessa esistenza, dalla loro adeguazione al contesto ideologico. Non solo. Per Havel il potere ha a che fare più con l’ideologia che con la realtà con la conseguenza che è il potere ad essere al servizio dell’ideologia e non viceversa: è dunque quest’ultima che funge da ponte tra la realtà e i cittadini. Questo stato di cose produce la conseguenza secondo cui, nel sistema post-totalitario (come Havel definisce questo tipo di società politica) il potere si trasmette in modo fluido grazie alla legittimazione rituale (e non, come avveniva nei regimi classici, con la gara e la lotta per la successione). Nella società post totalitaria il potere diventa anonimo finendo così per dissolvere ogni qualità umana: di fatto i politici di tale sistema sono degli ingranaggi che non contano più nulla come individui. Questa forza del sistema è chiamata da Havel “autocinèsi” e rappresenta il potere dell’ideologia sulla realtà. Il sistema post-totalitario è vero e proprio auto totalitarismo in quanto esso coinvolge ogni uomo nella struttura del potere affinché egli rinunci alla propria identità: tutti sono schiavi e complici del sistema, dall’ortolano fino ai capi di governo. Se nessuno è libero, allora cade la distinzione tra governanti e governati la cui linea di divisione si colloca all’interno di ogni uomo, secondo un’accezione platonica in base alla quale l’uomo che non riesce a governare se stesso non è nemmeno in grado di vivere nella comunità politica.

Quando appellarsi alla legge?
Nella terza parte Havel discute quello che potremmo definire il vero e proprio paradosso della legalità espresso dalla seguente domanda: ha senso appellarsi alle leggi (ovvero all’essenza dello Stato di diritto) quando esse sono spesso solo una facciata dietro la quale si cela la manipolazione totalizzante? La risposta è possibile a seguito della riflessione sulla funzione dell’ordinamento giuridico nel sistema post-totalitario. Questo infatti è ossessionato dal bisogno di legare ogni cosa con leggi e regolamenti, secondo le direttive del sistema burocratico. L’ordinamento giuridico per Havel svolge due funzioni essenziali: quella di alibi (ed in questo senso esso rimanda all’ideologia) e quello di strumento insostituibile di comunicazione rituale interna al potere. L’appellarsi alla legge dal canto suo soggiace ad un’ambivalenza da cui trarsi d’impaccio: se da un parte infatti il riferimento alla legge è legato alla necessità di simularne la validità (così come avviene nei sistemi post-totalitari) dall’altra però essa è anche un atto di vita nella verità che minaccia l’impalcatura della vita nella menzogna. La legge quindi assume un ruolo centrale in questo: essa è sempre e solo uno dei modi per tutelare ciò che è meglio nella vita rispetto al peggio ma non crea mai il meglio da sé. Il suo compito è di carattere servile e dal suo rispetto non viene garantita una vita migliore. Le virtù della legge riposano fuori della legge.

Vita autentica e vita inautentica
Ma è nella seconda parte, quella centrale, che Havel sviluppa il motivo più celebre del saggio, quello della contrapposizione tra vita nella menzogna e vita nella verità. Essa ha come presupposto la ribellione dell’ortolano il quale, ribellandosi al menzognero rituale quotidiano, decide di violare le regole del gioco e di mettere in pratica la libertà: «La sua ribellione sarà un tentativo di vita nella verità». Essa tuttavia, riecheggiando l’antitesi heideggeriana tra vita inautentica e vita autentica, contiene gli elementi più evidenti della contraddizione: quella cioè di chi intende esprimere un programma anti totalitario appoggiandosi su una filosofia totalitaria. Ripercorriamo allora a grandi linee il percorso che conduce Heidegger a favorire una visione in cui lo Stato predomina sull’individuo. Il filosofo tedesco sviluppa la sua riflessione a partire dalla questione dell’essere, considerata come l’unico tema della filosofia. Il senso dell’essere per Heidegger è stato dimenticato, la sua essenza è sfuggita alla riflessione occidentale: l’essere quindi non coincide con la presenza perché l’essere è più della presenza (differenza ontologica): in cosa consista questa differenza risiede il compito della riflessione metafisica. Se l’essere si offre in molti modi, il modo principale è l’esserci (Dasein) grazie al quale abbiamo la possibilità di porci in una sorta di precomprensione che vale come base di partenza dell’indagine. Tuttavia la nostra conoscenza dell’Esserci non si fonda su una capacità teoretica bensì sul lavoro quotidiano che svolgiamo nel mondo e questo compito è immerso nell’inautenticità (la vita nella menzogna di Havel). In che modo allora l’Esserci può riacquistare la sua autenticità, ovvero la vita nella verità? Per Heidegger attraverso due momenti: da una parte il pensiero della morte da cui proviene la risolutezza necessaria per affrontare la vita; dall’altra con l’idea del destino in base al quale l’esserci viene determinato attraverso l’accadimento della comunità del popolo, figura che assume ruolo centrale rispetto all’individuo. Vita per la morte e idea del destino rappresentano gli elementi che ci permettono di comprendere che l’esistenza come tale è impossibile, cioè non è fondata su alcunché, ma è radicalmente libera. Una libertà che tuttavia è radicata nell’Evento, realtà risvegliata da un pastore dell’essere, il Führer, il quale solo è in grado di mettere il nostro pensiero sulla strada giusta conferendogli forza d’urto.  Ecco perché, come scrive nei Quaderni Neri, è necessario «trovare un nuovo coraggio per il destino in quanto forma fondamentale della verità» in un seguire in cui il compito supremo è suddiviso tra lo Stato e il popolo.

Havel conclude volgendo l’attenzione a ciò che più è essenziale: la crisi dell’odierna civiltà dovuto al potere planetario della tecnica. Ma il dominio della tecnica, ricorda lo stesso Heidegger, non è qualcosa di materiale bensì «una marcata forma di spirito, del sapere e della risolutezza». Scrive Severino in un commento tagliente: «Il pensiero di Heidegger rende esplicita l’ontologia dello storicismo. L’Essere lascia essere gli enti, e dunque lascia essere anche quel suo prolungamento che è la dominazione della tecnica. L’Essere lascia essere la civiltà della tecnica, in tutte le sue forme. Lascia essere anche il nazionalsocialismo». In questa aporia c’è tutto il senso del saggio di Havel e del coraggioso quanto sprovveduto (filosoficamente) ortolano.

Riferimenti bibliografici

  • Havel, Vàclav. 1991. Il potere dei senza potere. Milano: Garzanti.
  • Heidegger, Martin. 2015. Quaderni Neri, 1931/1938 [Riflessioni II-VI]. Milano: Bompiani.
  • Severino, Emanuele. 1997. La follia dell’angelo. Milano: Rizzoli.

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