La Fine della Storia: la trascrizione del podcast

Questa è la trascrizione di questo episodio di Hic Rhodus, hic salta

In filosofia si utilizzano spesso miti, metafore, esperimenti mentali o formule di vario genere per sintetizzare pensieri o tesi filosofiche particolarmente complesse.
La fine della storia è una di quelle formule la cui fortuna si deve ad un filosofo russo del novecento, Alexandre Kojève, il quale, rileggendo la filosofia di Hegel, ha sostenuto che l’umanità ha raggiunto tutti i suoi bisogni e quindi non desidera più nulla.
Questa tesi è stata ripresa, rilanciata ed ampliata nel 1992 da un filosofo americano, Francis Fukuyama, il quale l’ha utilizzata per spiegare la vittoria delle democrazie liberali sul comunismo ma anche per predire il futuro della politica.

Si tratta di una tesi complessa dunque che ha bisogno di essere spiegata facendo riferimento ad alcuni presupposti teorici. Ho diviso la spiegazione in cinque brevi capitoli (ciascuno della durata di tre-quattro minuti) in modo che si possano riascoltare per uno studio più approfondito. Ogni capitolo è accompagnato da un diverso pezzo musicale dei Depeche Mode, una band musicale degli anni ottanta.

La storia ha un fine, la storia ha uno scopo? E qual’è il motore della storia, perché c’è qualcosa che chiamiamo progresso storico? Siamo sul terreno della filosofia della storia in cui emerge la tesi di Hegel per il quale la storia è lotta per il riconoscimento: gli uomini cioè desiderano riconoscersi in quanto esseri umani e non come semplici esseri animali. Qual’è la differenza? Gli esseri umani, per riconoscersi tali e distinguersi dagli animali, non hanno paura della morte. Che cos’è la lotta per il riconoscimento? Questa parola si può definire in molti modi:  rispetto, dignità, onore, gloria. Si ha dunque riconoscimento se e solo se il desiderio prevale sugli istinti biologici che guidano la preservazione di sé, quindi sulla paura della morte: in questo modo l’uomo deve rischiare la sua vita per farsi riconoscere da un altro uomo, perché solo l’uomo che non è legato alla vita, vede riconosciuta da altri la sua dignità.
Su questa base nasce il primo rapporto umano, quello tra servo e signore in cui il signore è tale proprio perché non è schiavo dei fattori naturali, il primo dei quali è la paura della morte. Nasce la Dialettica servo padrone che poi si sviluppa, si trasforma e guida la storia degli uomini. 

La storia è lotta per il riconoscimento che, così come era iniziata, deve avere una fine. Per Hegel la fine coincide con la rivoluzione francese perché con i suoi valori di uguaglianza e fraternità, il riconoscimento e la dignità umana  sono estesi a tutti gli uomini. Poco importa se questo compimento coincide con l’avanzata e le conquiste di Napoleone. Affascinato dalla vista dell’imperatore francese entrato a Jena nel 1806, Hegel disse di aver visto «lo spirito del mondo seduto a cavallo che lo domina e lo sormonta» con ciò realizzando concretamente gli ideali di libertà e uguaglianza dell’uomo. Fine della storia perché non c’è più bisogno di riconoscimento: nasce lo Stato omogeneo universale, manifestazione dello spirito assoluto.

 

Marx riprende la tesi di Hegel con la differenza però che sono le classi a lottare tra loro per il riconoscimento e lottano contro la natura mediante il lavoro. Questo avviene fintanto che la natura è stata domata, cioè armonizzata con l’uomo. Ma sarà Kojève a sintetizzare questi concetti e ad esprimerli in modo nuovo. Kojève è una figura tutta particolare di intellettuale. Russo, ma emigrato in Francia tra le due guerre mondiali, si definiva il filosofo della domenica perché era l’unico giorno della settimana in cui poteva dedicarsi allo studio, soprattutto dopo essere stato assunto alla Comunità Europea.  Kojève si concentra sul rapporto tra uomo e natura: l’uomo è un essere che desidera, che cioè lavora per cambiare le condizioni della natura, vissuta come dato immutabile. Egli suppone che l’uomo, definito appunto come un essere che lavora per modificare la natura, scompaia e ritorni ad essere tutt’uno con la natura. In fondo c’è l’idea che il contesto sociale dell’uomo diventi una sua seconda natura.Ma così facendo l’uomo smette di modificare la natura. «Cessa cioè l’azione nel senso forte del termine: Il che praticamente vuol dire la scomparsa delle guerre e delle rivoluzioni cruente», dice Kojève. 

L’uomo, se smette di modificare la natura, nega anche se stesso e così nelle parole di Kojève «scompare anche la Filosofia: infatti l’uomo, non cambiando più se stesso, non ha più ragione di cambiare i principi che stanno alla base della conoscenza del Mondo e di sé. Tutto il resto può mantenersi indefinitamente: l’arte, l’amore, il gioco, ovvero tutto ciò che rende l’uomo felice». Il filosofo russo confermava che la previsione di Hegel era corretta: il successo di Napoleone aveva significato la fine della storia in quanto venivano ormai universalizzati i principi della Rivoluzione francese e della precedente Rivoluzione americana. Conclusione: «l’American way of life è il genere di vita proprio del periodo post-storico, il futuro eterno presente dell’umanità intera. Così il ritorno dell’uomo all’animalità appariva non più come una possibilità ancora di là da venire, bensì come una certezza già presente».

Negli anni successivi Kojève correggerà parzialmente questa sua previsione nel senso di indicare nella civiltà giapponese il modello dell’uomo post-storico: rimaneva però l’idea secondo cui un essere che è in accordo con la natura finisce di agire e quindi è un essere che non ha più nulla di umano. Fine della storia appunto.

Arriviamo dunque a Fukuyama e alla sua tesi sulla fine della storia contenuta in un testo dal titolo La fine della storia e l’ultimo uomo pubblicato nel 1992. Va detto subito che il libro è stato letto da pochi, mentre molti lo hanno interpretato (forse per sentito dire) come il manifesto trionfante del capitalismo. Niente di tutto ciò. Anzi, esattamente l’opposto. Fukuyama intanto, è più fedele allo spirito di Hegel in quanto prende in esame le condizioni per l’avvento dello Stato omogeneo universale anziché concentrarsi (come aveva fatto Kojève) sul rapporto tra uomo e natura.

La domanda di Fukuyama è semplice: la democrazia liberale costituisce la forma migliore di governo? Avendo vinto su tutti i suoi nemici, l’ultimo dei quali il comunismo, la democrazia liberale è il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’uomo, la forma migliore del governo? Se è così, la democrazia liberale (e con essa il capitalismo) potrebbe costituire la fine della storia?

Questa formula (fine della storia) non significa né la fine degli eventi né la fine dei conflitti e delle disuguaglianze: per Storia deve intendersi il complesso di eventi indirizzato verso una direzione specifica. Il problema, si chiede Fukuyama, è quello di capire se esistono contraddizioni nell’attuale democrazia liberale che la condurranno a cadere così come era caduto il comunismo.

Questo è l’aspetto interessante dell’analisi di Fukuyama per il quale la democrazia liberale, al contrario di ogni trionfalismo, non è ancora diventata universale perché non è riuscita a diventare popolare e a colmare il divario tra Stato e comunità. Le democrazie liberali sembrano mancare di legittimità e appaiono essere piuttosto figlie del mostro più freddo di tutti i mostri, e cioè lo Stato. 

Se è così, allora ci sono altre forze che possono minacciare l’ordine liberale. Queste forze si chiamano nazionalismo e religione. Esattamente quello che è accaduto in questi ultimi trent’anni. Ecco allora l’importanza delle due passioni che segnano la politica e che nascono dal desiderio di riconoscimento: religione e nazionalismo. I conflitti che nascono da esse sono molto più distruttivi di quelli che nascono dall’economia. La politica dell’identità prende il posto della politica della globalizzazione.

Il cuore della tesi di Fukuyama è che lo sviluppo storico è guidato non soltanto da fattori economici ma anche da quello che Platone chiamava Thymos, ovvero  il desiderio di riconoscimento e dignità.
Da Platone in poi, noi sappiamo che l’anima è composta di tre parti: l’anima razionale, l’anima concupiscibile e l’anima irascibile. Il termine greco per designare quest’ultima è thymos il quale fa riferimento ad un generico concetto di animo che può designare una vera e propria costellazione di affetti: dall’ira al coraggio; dalla grandezza d’animo alla magnanimità; dalla dignità al rispetto; dal riconoscimento all’onore; dalla vanità alla gloria. L’anima irascibile, insegna Platone, non è in sé né buona né cattiva ma deve essere educata per entrare al servizio della parte razionale e quindi non essere distruttiva.

L’aver messo al centro della sua analisi l’anima irascibile significa per Fukuyama indagare il senso che hanno oggi idee come dignità, onore, orgoglio, prestigio nell’ambito della vita politica. Prendiamo ad esempio il concetto di prestigio che costituisce l’essenza della forza e quindi il segreto che si cela dietro le relazioni internazionali tra Stati. Le guerre (e ne è un caso quella attuale) si fanno non solo per interessi economici (cioè per la parte concupiscibile) ma anche e soprattutto per motivi di prestigio dietro il quale si annidano le motivazioni più impensate. 

Gli Stati sono esattamente come gli individui e quindi per capire i loro comportamenti bisogna studiare l’essenza dell’uomo. E se lo Stato, come ci ricorda Hobbes, è il re degli orgogliosi, allora per decifrare le sue azioni bisogna mettere al centro dell’analisi proprio l’anima irascibile.

Il pensiero moderno ha tentato invece di eliminare o di mettere in secondo piano l’anima irascibile e di sostituirla con una combinazione di desiderio e ragione. Il patto hobbesiano, con il quale nasce lo Stato, consiste nel cedere l’orgoglio in cambio di una vita pacifica e ricchissima.

Nasce la civiltà e lo Stato borghese il cui nemico e bersaglio preferito è l’aristocrazia, cioè coloro che sono disposti a mettere a repentaglio la loro vita per la difesa degli ideali. Ma se eliminiamo l’ambizione, si chiede Fukuyama, non cadiamo nuovamente in una nuova forma di schiavitù?

L’aspetto più originale della riflessione di Fukuyama è l’aggiunta di Nietzsche alla coppia Hegel/Marx. L’hegeliana dialettica servo padrone lascia il posto alla figura nietzscheana dell’ultimo uomo. Chi è l’ultimo uomo? L’uomo omologato, diremmo oggi, l’uomo che vive nella sua comfort zone e che non desidera più niente perché «ognuno vuole la stessa cosa, ognuno è uguale: chi sente in modo diverso entra spontaneamente in manicomio». Si è intelligenti e si sa tutto quello che è accaduto e quello che accadrà: basta guardare un talk show!  Si ha, ironizza Nietzsche, un piacerucolo per il giorno e un piacerucolo per la notte: ma si apprezza la salute e guai ad allontanarsi dalla stufa. 

Lo Stato democratico liberale rappresenta per Nietzsche la vittoria dello schiavo. L’uomo manca completamente di megalothymia, cioè dell’ambizione a rendersi superiore agli altri: il cittadino è qualcosa di mediocre. Il problema più grande nelle nostre società è l’autostima ed il basso livello di aspettative. 

Oggi il problema è il desiderio di essere tutti uguali. In questo senso lo sviluppo delle società liberali ricorda quello temuto da Tocqueville, ovvero un grande appiattimento sociale e intellettuale che spiana la strada alla tirannia della maggioranza.

La creatura che emerge alla fine della storia, osserva Fukuyama, è l’ultimo uomo. Il riconoscimento universale conduce alla sua banalizzazione.

L’ultimo uomo di Nietzsche è lo schiavo vittorioso. Lo Stato democratico liberale significa la vittoria incondizionata dello schiavo. Per Nietzsche l’uomo democratico è interamente composto da desiderio e ragione (le altre due parti dell’anima di Platone) e mancante di megalotimia, incapace di qualsiasi ambizione. 

La preoccupazione centrale di Nietzsche è il futuro del Thymos, cioè la capacità dell’uomo di assegnare valori alle cose e a se stesso. Nella misura in cui la democrazia liberale ha avuto successo nell’espellere la megalotimia, sostituendola con il consumo razionale, noi siamo diventati ultimi uomini. 

Ma gli esseri umani, conclude Fukuyma, si ribelleranno a questo pensiero, rifiuteranno l’idea di essere membri indifferenziati di uno stato omogeneo. Questa è la vera contraddizione che le democrazie liberali non hanno ancora risolto.
La storia dunque non è finita tanto che oggi si deve parlare di fine della fine della storia.

 

Te Deum filosofico

È una specie di ironia del pensiero il fatto che l’annuncio della morte di Dio ne abbia occultato un altro che lo stesso Nietzsche ha più volte espresso nei suoi scritti: quello della morte della filosofia. Annuncio ben più inquietante che ha agito sottotraccia e forse in modo ancor più efficace dell’altro, più noto. La morte della filosofia ha prodotto le conseguenze che abbiamo oggi sotto gli occhi: lo scatenamento della razionalità, l’incapacità di porre un argine alla scienza, la servitù della cultura nei confronti della politica. Si tratta di un evento che è poi diventato un tema ripreso dalla stessa filosofia che lo ha trasformato a sua volta in un argomento filosofico, un gioco di prestigio che piace tanto a certi filosofi da esibizione, utile il più delle volte alla chiacchiera filosofica, oggi imperante. 

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Una lezione del professor Henri Bergson su Spinoza

Henri Bergson è stato, oltre che un grande filosofo, un grande insegnante. Molte delle sue lezioni ci sono pervenute grazie a dei resoconti stenografici, non certo pensati per la pubblicazione. Tuttavia ripercorrere quelle argomentazioni ci permette di cogliere un retroterra ricchissimo, di colmare alcuni naturali vuoti delle opere bergsoniane e vedere il filosofo nel corpo a corpo con la storia della filosofia.

Le lezioni su Spinoza, numerose e distribuite lungo tutto il corso della carriera da insegnante di Bergson, rappresentano per chi scrive un elemento rilevante. Alcuni dei motivi ho provato a spiegarli in un libro del 2018, qui vorrei proporre – per la prima volta – la traduzione parziale di una lezione di Henri Bergson su Spinoza, tenuta nel corso del 1884-1885 al liceo di Clermont-Ferrand. Farne un commento puntuale avrebbe richiesto una contestualizzazione maggiore qui inopportuna. È in ogni caso di grande interesse incunearsi nelle argomentazioni e nelle parole del filosofo francese.

Questa lezione è un sorvolo sulla vicenda biografica e filosofica di Spinoza, operato con notevole acume. Essa ci permette di apprezzare l’approccio bergsoniano nei confronti dello spinozismo, il quale appare agli occhi dei più l’opposto della filosofia dell’èlan vital. Oltre questa semplificazione storicistica, però, ricordiamo ciò che Bergson scrive in una lettera a Brunschvicg: ognuno torna ad essere spinozista ogni volta che legge l’Etica, «perché si ha la netta impressione che quella sia l’esatta attitudine nella quale la filosofia deve posizionarsi, tale è l’atmosfera dove realmente la filosofia respira. In questo senso, si potrebbe dire che tutti i filosofi hanno due filosofie: la propria e quella di Spinoza».

I Cours di Bergson sono stati interamente pubblicati in Francia e sono in corso di traduzione in Italia, grazie al lavoro coordinato da Rocco Ronchi. Qui, qui e qui alcune delle ultime traduzioni uscite.

Il metodo geometrico
Se c’è un punto in cui Bergson si distanzia da Spinoza è certamente il metodo geometrico di cui l’olandese si serve. Spiega il professor Bergson ai suoi allievi:

Per comprendere la filosofia di Spinoza sono necessarie delle osservazioni preliminari sul metodo geometrico e la natura esatta degli oggetti che la geometria studia. Consideriamo una proprietà della circonferenza, per esempio. Ci sono molteplici maniere di conoscere questa proprietà. Ce ne sono quattro (sic) per Spinoza: innanzitutto, per un sentito dire: questa è la semplice credenza. Si può averla dimostrata, ovvero averla collegata ad altre proprietà della circonferenza o di altre figure. Ma l’ultimo modo di conoscere è il solo perfetto, è quello ci conduce attraverso il pensiero all’interno della definizione stessa della circonferenza, percependo per semplice intuizione la proprietà della circonferenza, il teorema che ne è risultato e del quale è l’espressione nuova.

Metodo geometrico che però trova, immediatamente, nella sua parte più legata alla gnoseologia, un gancio con la filosofia bergsoniana: l’ultimo modo di conoscenza assomiglia molto all’intuizione sintetica del francese.

E la conoscenza matematica, la conoscenza perfetta, sarebbe quella possibile per un matematico molto esercitato, perfetto, che si porterebbe con un sol balzo nella definizione, percependo tutte le conseguenze infinitamente multiple che da essa si deducono. 

La causalità
Il meccanicismo spinoziano è un altro grande elemento di distanza fra i due filosofi, eppure sul tema del possibile e reale, Spinoza – attraverso la voce di Bergson – esprime una tesi molto vicina a quella che il filosofo francese declinerà prima ne L’evoluzione creatrice e poi nel saggio Il possibile e il reale

La causalità, qui, si avvicina all’identità. Qui l’effetto non è più posteriore alla sua causa, poiché senza dubbio per noi, spiriti imperfetti obbligati a considerare le cose nel dettaglio, i teoremi della circonferenza si susseguono, essi prendono posto nella durata. Ma un’intelligenza perfetta, come detto prima, li percepirebbe tutti in una volta all’interno della definizione stessa da cui essi emergono. Una volta posta la definizione sono posti tutti i teoremi possibili, in altre parole, per utilizzare l’espressione di Spinoza, essi sono coeterni alla definizione. 

Infine, noi distinguiamo abitualmente il possibile dal reale. Che una cosa sia possibile, che essa non sia in contraddizione con un’altra cosa, non segue il fatto che essa esista realmente. Diverso è in matematica, dove se una figura geometrica è possibile, e non implica una contraddizione, essa è reale, esiste o almeno l’oggetto definito da essa esiste, e prende posto nel mondo degli oggetti matematici. Posta la definizione delle rette parallele, si dimostra che due rette di questo genere sono possibili, esse esistono matematicamente, sono reali. Tutte le possibili conseguenze che derivano dalla definizione delle parallele esistono, anche se la nostra intelligenza non le potrà cogliere interamente. Pertanto, il mondo matematico ha ciò di straordinario: che il possibile e il reale sono uno, tra la possibilità e l’esistenza non c’è differenza. 

La sostanza infinita è Dio
L’incedere argomentativo di Bergson è molto esplicativo e, come si può notare, il testo ricalca il parlato. Ma la chiarezza è cristallina: Bergson non solo si inserisce nel concetto di cui sta parlando, ma lo fa suo, si avvicina al suo oggetto grazie a un’importante sensibilità pedagogica e filosofica. Ora il discorso, dalle premesse sul metodo geometrico e le implicazioni gnoseologiche, si sposta sul piano teoretico. 

Poste queste idee preliminari, sarà più facile comprendere lo spinozismo, poiché il sistema di Spinoza non è altro che l’applicazione di questo sguardo alla conoscenza della totalità delle cose. Egli è partito da questi due postulati: il numero delle cose è infinito; esse sono universalmente connesse. Ecco i postulati del sistema. In questo quadro, ci soffermeremo a conoscere una cosa particolare? Sarebbe infantile, poiché per conoscerla perfettamente si dovrebbe rendere conto dei rapporti che essa intrattiene con tutte le altre infinite cose. Questi rapporti sono in numero infinito e l’enumerazione non terminerebbe mai. Ma c’è un altro modo di conoscere perfettamente, adeguatamente come dice Spinoza, è trasportarsi col pensiero al cuore del principio unico, indivisibile, da cui queste conseguenze particolari si deducono come un teorema si deduce da una definizione; e, in seno a questo principio, il filosofo contempla non solo la cosa particolare ma l’infinità delle cose di cui il principio non è che il sostituto o l’equivalente. Tale principio è chiamato da Spinoza sostanza […].

Ponete la definizione e la sostanza e subito ponete l’esistenza di tutte le cose particolari che conseguono dalla sua essenza; in altre parole le cose non sono che un’espressione infinitamente varia di Dio. In questo senso, possiamo dire che le cose sono state create? No. Perché data la definizione della sostanza divina, è impossibile che tutte le conseguenze possibili di questa essenza non esistano immediatamente. Si può dire che questa derivazione delle cose in rapporto a Dio ha luogo nel tempo? Che Dio, l’essere infinito, uno, indivisibile esista prima delle cose particolari? Senza alcun dubbio no. […]

Nel mondo non c’è dunque posto né per la contingenza, né per il libero arbitrio, né per la finalità. Nessuna contingenza, innanzitutto, perché se una cosa potesse essere altro o essere in altro modo rispetto a quel che è, se fosse stato possibile che fosse altro da ciò che è, tutte le possibilità non sarebbero state realizzate, e una conseguenza possibile della definizione non emergerebbe, il che sarebbe assurdo. Nessun libero arbitrio, Nè finalità, perché nei due casi si suppone la possibilità di una scelta, si suppongono due ipotesi ugualmente possibili, si ammette, in altri termini, la contingenza di possibili non realizzabili. […]

Natura Naturante
Al termine della ricognizione intorno alla sostanza, la lezione di Bergson si trova davanti a due strade da trattare quasi parallelamente. I due ambiti che il filosofo dovrà approfondire sono quelli legati alla visuale che si ha sulle cose e che lo stesso Spinoza articola nelle sue opere: la Natura Naturante, e la Natura Naturata. Rispetto alla prima la questione centrale è la libertà di Dio. Spiega Bergson: 

Dio è libero? Se per libertà intendiamo il libero arbitrio, sarebbe insensato ammettere un solo istante una cosa simile perché ciò che Dio fa segue necessariamente dalla sua essenza, come il fatto che i tre angoli di un triangolo corrispondono a due retti, segue necessariamente dalla definizione del triangolo. Ma Dio è libero di una libertà infinita, nel senso in cui il suo sviluppo consegue solamente dalla sua essenza, senza l’intervento di alcun elemento esterno. Esso è libero nel senso in cui esiste assolutamente per lui stesso, e che tutte le possibili conseguenze derivanti dalla sua definizione esistono non appena sono possibili.

Natura Naturata
All’inizio di questo paragrafo Bergson dà conto del senso di tre parole fondamentali per lo spinozismo: sostanza, attributo e modo. Ma più che concentrarci su questa spiegazione, ascoltiamo come Bergson affronta – dopo aver spiegato in cosa consiste e su quali basi si fonda il parallelismo fra estensione e pensiero – il corno etico della filosofia spinoziana. 

Così l’anima umana è l’idea del corpo al quale essa è legata. Se è così, più il corpo sarà completo, più intratterrà dei rapporti con tutte le altre cose, più l’anima sarà complicata, poiché al modo dell’estensione corrisponde un modo del pensiero. E a corpi più complessi corrispondono le anime più elevate. […]

Fermiamoci all’anima umana. Questa anima è l’idea del suo corpo, e questo corpo intrattiene una molteplicità infinita di rapporti con gli altri e a ciascuno di questi rapporti corrisponde un’idea, da qua la necessità per un’anima umana di un grande numero di idee che Spinoza chiama idee inadeguate. In effetti, finché siamo nella sfera del particolare, finché consideriamo le cose nei loro rapporti con le altre cose, noi abbiamo a che fare con una enumerazione interminabile, e l’idea che noi avremo della cosa particolare, finché essa manterrà dei rapporti con le altre cose particolari, sarà sempre inadeguata, incompleta. Per essere completa, dovrebbe trovarsi in seno alla deduzione grazie alla quale le cose sgorgano dall’essenza divina. Dovremmo conoscerla sub specie aeternitatis, sotto l’aspetto dell’eternità, poiché è solo allora che l’idea diviene eterna tanto quanto è coeterna all’essenza pura e semplice. Ora, del fatto che la nostra anima contiene delle idee inadeguate, ne segue che noi siamo soggetti a delle passioni, alcune buone e altre cattive.

Cos’è la Passione? Non è altro che l’idea inadeguata. […]

Le passioni buone sono quelle che ci ampliano e ci avvicinano alla gioia; le cattive sono quelle che ci diminuiscono e ci avvicinano alla tristezza. E Spinoza, partendo da queste premesse, costruisce una ammirevole teoria delle passioni. Teoria superiore rispetto a quella formulata dai più grandi psicologi. Egli mostra come tutte le passioni non sono che gioia o tristezza, prendendo oggetti differenti accompagnati da idee differenti; e questa riduzione della sensibilità a intelligenza gli ha permesso di penetrare con una profondità sconosciuta, fino all’essenza e alla natura intima degli stati dell’anima. […]

Conclusioni
Il cerchio si completa e la lezione bergsoniana va verso la chiusura. Il professor Bergson rende merito alla filosofia spinoziana con un’ultima, grande, spiegazione. In queste ultime battute lo spinozismo e il bergsonismo non sembrano così distanti ma, anzi, sono più vicini che mai. La libertà acquisita per mezzo della speculazione filosofica, l’eternità del processo “naturante” e la possibilità di installarsi in Dio con un semplice sforzo intuitivo, sono tracce ben presenti in Bergson e che segnano la differenza con la tradizione cartesiana-kantiana operante lungo tutto il corso del Novecento. 

Infatti, dal momento che un’idea è tanto più perfetta quanto essa esprime un più grande numero di rapporti, poiché l’idea adeguata è quella che contiene l’espressione di una infinità di rapporti sebbene una e indivisibile, un’idea non si avvicina alla perfezione, alla potenza estrema, che alla condizione di riavvicinarsi all’idea adeguata; da ciò concludiamo che la potenza più grande è quella di un essere che si rappresenta adeguatamente le parti della realtà, quelle riferite al suo corpo. Quindi, quale sarà lo stato dell’anima che, grazie alla speculazione filosofica, conoscerà adeguatamente se stessa, si installerà col pensiero nel seno della deduzione attraverso cui le cose fuoriescono dall’essenza divina, che si posizionerà in Dio e soprattutto conoscerà la necessità matematica in virtù della quale essa proviene dall’essenza divina? È qui la libertà assoluta per l’uomo: essere libero, è conoscere la necessità universale e soprattutto ricollocarvisi col pensiero, è, noi diremo con uno sforzo (par un effort), poiché noi non possiamo attendere questo stato, è riprendere posto al cuore dell’essenza considerata nella sua unità, nella sua indivisibilità, l’infinità dei modi particolari. […]

Noi siamo liberi in quanto partecipanti di questa necessità, non solo è la libertà perfetta per l’uomo, anche la suprema beatitudine poiché essere felici è amare Dio, ovvero ricollocarsi in lui e noi possiamo riposizionarci in lui grazie al pensiero che fa parte della sua essenza. 

Infine, e per concludere, è in ciò che consiste l’eternità. Infatti, ciò che rende eterna la nostra anima, è il fatto di coincidere con l’idea adeguata di Dio. Non tutte le anime sono eterne, ma solamente quelle che si trovano ad aver conosciuto nettamente, perfettamente il luogo che esse occupano nel seno di Dio, quelle che sono libere, in una parola. […]

L’eternità per l’anima consiste nella libertà e la sua libertà consiste nella conoscenza assoluta che essa acquisisce della necessità universale.

 

Bibliografia
H. Bergson, Cours III. Leçons d’histoire de la philosophie moderne. Théories de l’âme, PUF, Paris, 1995
S. Mariani, Bergson oltre Bergson, ETS, Pisa, 2018

 

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Filosofia a scuola

L’insegnamento della filosofia, nei licei italiani, è strutturata su una particolare disciplina della filosofia, ovvero la Storia della filosofia.
Ogni professore di liceo ha l’obbligo di strutturare un percorso formativo, in tre anni, che porti lo studente a toccare, in modo cronologico, le maggiori tappe della storia della filosofia. Dai presocratici al Novecento (se ci si riesce, fra interrogazioni, compiti, recuperi, assemblee, malattie vere o presunte, etc…).
Questo ripercorrere cronologico della storia della filosofia è, immaginiamo, una linea retta, dove i processi storico-culturali modificano l’atteggiamento filosofico dei vari protagonisti dei testi scolastici; e dove perciò ritroviamo lo svolgersi irrequieto di uno spirito filosofico, che — come dice in un recente articolo sul blog Le parole e le cose, Mauro Piras — deriva chiaramente dall’impostazione filosofica hegeliana. In Italia, non dimentichiamolo, inoltre, la nozione secondo cui la storia ha un “senso” intrinseco, da svolgere (e perciò ce l’hanno anche tutte le storie minori, tipo quella della filosofia, dell’arte, del diritto etc…) è stata mediata e amplificata dall’hegeliano Giovanni Gentile, e dalla sua riforma scolastica.

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Il pensiero libero di Giordano Bruno. Febbraio 2013

Domenica 17 febbraio 2013 Ritiri Filosofici ha organizzato una rappresentazione filosofico-teatrale in memoria di Giordano Bruno, all’auditorium “Cottoni” di Nocera Umbra (PG).

Il professor Filippo Mignini (ordinario di Storia della Filosofia all’Università di Macerata) ha commentato alcuni passi scelti delle opere del filosofo nolano, letti in modo magistrale da Daniele Menghini (giovane attore folignate, prossimo al diploma alla scuola “Mumos” di Terni, diretta da Gastone Moschin e Marzia Ubaldi).
Un palco scarno, i due protagonisti illuminati a turno ai lati del palco, le musiche di Hans Zimmer. Ecco la semplice traduzione teatrale, e visiva, della lettura e commento.

Dopo la prima parte dello spettacolo, durata all’incirca un’ora, il professor Mignini ha dialogato e spiegato alcuni punti trattati nella rappresentazione, prima rispondendo alle domande del nostro Maurizio Morini e poi rispondendo alle domande del pubblico, intervenuto numeroso all’evento.

Qui è possibile ascoltare lo streaming dell’evento.

Questa la trascrizione letterale dell’evento.

PRESENTAZIONE
di Maurizio Morini

Buonasera a tutti e grazie di essere intervenuti così numerosi a questa lettura scenica di alcuni testi di Giordano Bruno.
Prima di tutto è doveroso presentare gli organizzatori di questo evento. Ritiri Filosofici è un’associazione culturale che mi trovo qui a rappresentare essendone uno dei fondatori e che conta oggi una decina di partecipanti attivi. Nel nome c’è già la sua ragion d’essere: nasciamo infatti con l’idea di dare vita a degli incontri residenziali di uno o più giorni, due volte l’anno (a luglio e a dicembre) per discutere di filosofia. Con il termine “ritiro” noi intendiamo il ritiramento verso i fondamenti, verso gli antichi modi che hanno fornito alla nostra civiltà occidentale i principi del vivere individuale e sociale. Ritiro dunque come ritorno alla grande sapienza filosofica, simile a quello praticato dagli umanisti del ‘400 che diedero poi vita alla grande stagione del Rinascimento italiano. Oggi più che mai c’è bisogno della Filosofia, la madre Filosofia, che ci insegna a vivere e a dire la Verità nella civile conversazione. Lungi dall’essere qualcosa di astratto, la filosofia è la scoperta che si può vivere in modo umano esercitando ciò che è proprio dell’essere umano, ovvero la ragione. Chi pratica la filosofia ha una sola vera passione: la passione dell’intelletto. Da ciò discende il resto: questa è la proposta di Ritiri Filosofici.
Queste idee noi le trasmettiamo nei nostri ritiri dove discutiamo e analizziamo i grandi testi che hanno costruito la nostra civiltà e nel blog che abbiamo creato dove mettiamo i nostri studi personali, le nostre riflessioni, e che costituisce uno spazio di discussione. Lascio dunque che siano le cose stesse che facciamo a parlare per noi invitandovi sia ai ritiri sia a frequentare il nostro sito.

Ringraziamenti
La Pro-Loco che ci ha concesso l’utilizzo di questa struttura.
Lo sponsor, lo studio legale Morbinati & Longo di Roma, che ha sostenuto le spese organizzative.
La cartolibreria La Baraonda di Maurizio Angradi che ha allestito nei giorni scorsi una vetrina con alcuni libri inerenti al tema trattato e che ha offerto la sua disponibilità ad essere qui oggi per coloro che volessero acquistarne alcuni.
Un ringraziamento al Comune che ha concesso il patrocinio (vedo il Sindaco che inviterei sul palco per un saluto).
Perché questo spettacolo su Giordano Bruno? Perché Bruno è tra i più grandi filosofi italiani mai esistiti. Oggi lo ricordiamo nel giorno della sua morte avvenuta esattamente 413 anni fa in Campo dei Fiori a Roma quando fu arso vivo a causa delle sue idee per opera dell’Inquisizione della Chiesa cattolica. Non abbiamo organizzato questo evento, questo sia detto a scanso di equivoci, contro qualcuno o qualcosa, bensì per ascoltare e valutare un pensiero del resto ancora troppo lontano e sconosciuto alla cultura italiana per una serie di ragioni (estraneità ai principi del cristianesimo, il fatto di essere stato mitizzato o strumentalizzato, ma non studiato).
Noi vogliamo capire e poi discutere.
Lo facciamo attraverso uno spettacolo ideato e condotto dal prof. Filippo Mignini, professore di Storia della filosofia all’Università di Macerata e da un anno Direttore del Dipartimento degli studi umanistici, cioè come si diceva una volta, Preside delle Facoltà di Lettere, Lingue e Filosofia di quell’ateneo. Ordinario dal 1987, Mignini è studioso della prima filosofia moderna con particolare riferimento a Spinoza, al quale ha dedicato un centinaio di titoli e per il quale è noto in tutto il mondo come uno dei suoi massimi conoscitori. Di Spinoza Mignini ha pubblicato e curato tutte le opere e non c’è studio o curiosità su questo pensatore ebreo-olandese del ‘600 che siano a lui estranei. Da più di dieci anni, per ragioni anche di carattere ambientale essendo marchigiano, Mignini si occupa della figura e dell’opera del gesuita maceratese Matteo Ricci vissuto tra la seconda metà del ‘500 e l’inizio del ‘600. Matteo Ricci, è stato il primo uomo ad avviare relazioni culturali tra l’Italia e la Cina. Nel 2010, in occasione del quarto centenario della morte, Mignini ha curato quattro grandi mostre in Cina (Pechino, Shangai, Nanchino e Macao); la sua biografia su Matteo Ricci, Il chiosco delle Fenici, è stata tradotta anche in cinese. Abbiamo a che fare dunque con uno studioso i cui interessi spaziano tra gli ambiti più disparati e che costituisce una guida sicura per il periodo storico in esame. A Bruno il professor Mignini ha dedicato diversi saggi, oltre a diversi corsi universitari. Convinto che uno dei migliori veicoli per la diffusione della filosofia sia il teatro, già all’inizio degli anni novanta ha messo in scena un allestimento teatrale di una delle opere più importanti del filosofo nolano, lo Spaccio de la bestia trionfante. Dal 1995 la lettura che vedremo questa sera viene rappresentata, in questo giorno, ogni anno, in diverse città marchigiane: per la prima volta esce dunque da quella regione e abbiamo noi l’onore di ospitarla per primi. Segnalo infine che nel 2008 la lettura in due atti  Per aver troppo amato il mondo, dialogo tra Alberico Gentili e Giordano Bruno, è stata messa in scena al Macerata Opera Festival con la regia di Pierluigi Divo.
Il lettore dei testi è Daniele Menghini, giovane folignate di 23 anni, studente prossimo al Diploma presso la Scuola di recitazione Mumos di Terni diretta da Gastone ed Emanuela Moschin e da Marzia Ubaldi. Le musiche sono state curate da Ritiri Filosofici.
La serata si dividerà in due parti. Nella prima ci sarà la lettura scenica accompagnata da immagini e musiche. Nella seconda avremo la possibilità di discutere con il professore, dapprima con alcune domande che ci introdurranno ad alcuni aspetti nodali del pensiero filosofico di Bruno e poi con la possibilità di rivolgere liberamente le domande che riteniate opportune direttamente dalla sala.
Vi lascio dunque allo spettacolo: buon ascolto e buona visione a tutti.

 

MEMORIA DI GIORDANO BRUNO
di Filippo Mignini

1.
Il rogo tentò di spegnerne la voce; ma Bruno si erge ancora come scoglio aspro e solido, vanamente battuto dai flutti di un’invidiosa ignoranza. Egli fu arso vivo per aver votato l’esistenza alla “madre” filosofia, rivendicando il diritto di conoscere e svelare, con la forza del solo intelletto naturale, le nascoste verità delle cose. Per questo la sua vita fu spenta con altra forza, brutale. Egli sapeva che la verità è indifferente ai desideri del cuore umano; sicché può essere trovata e amata soltanto da animi forti ed intrepidi, capaci di sentire, dire e vivere eroicamente. Nel congedo del De immenso, il poema latino sull’infinità dell’universo pubblicato a Francoforte nel 1591, Bruno delinea un incisivo ritratto del proprio profilo di uomo-filosofo. Pur avendo frequentato le principali corti e accademie d ‘Europa, egli si dipinge come un satiro irsuto in caccia della sapienza, non per molli conviti, ma per monti e selve solitarie, indomito ai colpi degli uomini e della fortuna.

Non mi presento come un poeta, dalle labbra melliflue; non sono raffinato e attraente […], mielato, elegante, terso, tronfio del mio bello stile. Sono brusco, irsuto, rozzo, aspro, duro, asciutto. Sarò colui a cui non mancano castagne ed è abbondanza di formaggio. Riecheggia ben distinto in alto il suono della mia zampogna, non dolcemente, forse, per chi non vi è abituato e anche da lontano risuona in modo chiaro e riempie il piano per un largo tratto. Dòtta, l’Eco risponde alle note, reiterandole, e testimonia che tutto è impresso nel suo arcano senso […] Io, calcando le orme caprine di Pane, non ripeto l’eco: poiché la natura mi ha creato irsuto, non imparerò mai ad adattare smeraldi alle mie rozze dita, ad arricciare la mia chioma, a tingere il mio volto di un roseo colore, ad adornare il mio capo di profumati giacinti, ad atteggiarmi mollemente, a danzare dolcemente, a falsare la mia voce, quasi uscisse da una gola tenerella, per non comportarmi da ragazzo, uomo come sono, e per non divenire, da maschio, femmina.
Se così sono fatto, grazie agli Dei, mi conserverò qual sono, severo, virilmente forte nelle membra, intrepido, indomito e con voce maschile dirò ai Narcisi: le Ninfe hanno molto amato anche me.

2.
Al Tribunale dell’Inquisizione veneta, nel 1592, Giordano descrisse la famiglia di origine, la formazione nell’ordine domenicano, l’ordinazione sacerdotale e i due processi che gli furono intentati a Napoli: fuggendo i quali, si trasferì nel convento di Roma; nuovamente accusato, nel 1576 uscì dall’ordine e abbracciò nel 1576 la sua vita di esule,  divenuto ormai, come ebbe a scrivere, “zimbello della fortuna “.

Io ho nome Giordano della famiglia di Bruni della città de Nola vicina a Napoli dodeci miglia, nato et allevato in quella città, et la professione mia è stata et è di littere et d’ogni scientia; et mio padre haveva nome Gioanni, et mia madre Fraulissa Savolina; et la professione de mio padre era di soldato, il qual è morto insieme anco con mia madre.
lo son de età de anni quarantaquattro incirca, et nacqui, per quanto ho inteso dalli miei, dell’anno ’48. Et son stato in Napoli a imparar littere de humanità, logica et dialettica sino a 14 anni. […] Et de 14 anni, o 15 incirca, pigliai l’abito de San Dominico nel monasterio o convento de San Dominico in Napoli. […] Fui promosso alli ordini sacri et al sacerdotio alli tempi debiti; […] et continuai in questo habito della religione di San Dominico, celebrando messa e li divini offitii […] sino l’anno del 76, che fu l ‘anno doppo del Giubileo.
Fui poi in Roma nel convento della Minerva, dove era andato a presentarmi, perché a Napoli ero stato processato due volte: prima per haver dato via certe figure et imagine de’ santi et retenuto un crocifisso solo, essendo per questo imputato de sprezzar le imagine de’ santi; et anco per haver detto a un novitio che leggeva la Historia delle sette allegrezze in versi, che cosa voleva far de quel libro, che lo gettasse via, et leggesse più presto qualche altro libro, come è la Vita de’ Santi Padri.
Il qual processo fu rinovato, nel tempo che io andai a Roma, con altri articuli ch ‘io non so; per il che uscì dalla religione et, deposto l ‘habito, andai a Noli territorio genoese, dove mi trattenni quattro o cinque mesi a insegnar grammatica a putti.

3.
Come meteora incandescente, l’esistenza filosofica del Nolano attraversa tutta Europa. Dal 1576 al maggio 1592 è un succedersi di città, nazioni, accademie e università, corti e case private, fino all’arresto in Venezia:

’76: dopo la scomunica cattolica, si rifugia a Genova, quindi a Noli, poi a Savona, Torino, Venezia, Padova, Bergamo, Brescia, Milano, Lione

’78: a Ginevra aderisce al calvinismo, per essere quasi subito scomunicato da quella chiesa

’79- ’81: per quasi due anni è a Tolosa, dove tiene pubbliche lezioni sul De anima di Aristotele

’81: lascia Tolosa per Parigi, dove conquista con l’arte della memoria l’ammirazione del re di Francia Enrico III

’82: a Parigi pubblica le prime opere

’83-85: è a Londra, dove difende il sistema copernicano e presenta la propria filosofia naturale nei grandi Dialoghi italianiLa Cena de le ceneriDe la causa, principio et unoDe l’infinito, universo e mondiSpaccio de la bestia trionfante, Cabala del cavallo pegaseoDe gli eroici furori.

’85: lascia Londra per Parigi

’86: è in Germania: a Wittenberg, nella città di Lutero; presentato e sostenuto da Alberigo  Gentili, ottiene di insegnare I ‘Organon di Aristotele per due anni

’88: mutato il governo della città, è costretto a lasciare Wittenberg e si rifugia a Praga; dopo sei mesi è a Tubinga, poi a Helmsted, dove riceve una scomunica luterana.

’90: è a Francoforte, per farvi stampare la trilogia dei poemi latini: De immensoDe monadeDe minimo.

’91: in febbraio riceve l’estradizione da Francoforte; ripara a Zurigo, dove insegna filosofia scolastica; infine, accettando l’invito del nobile Mocenigo, che voleva da Bruno l’arte della memoria, in agosto torna in Italia, a Venezia.

Maggio ’92: viene denunciato da Mocenigo e arrestato dall’Inquisizione veneta.

Febbraio ’93: è trasferito nel carcere dell’Inquisizione romana.

17 febbraio 1600: dopo un processo durato quasi otto anni, Bruno è condannato al rogo.

Ecco un passo della sentenza di condanna, pronunciata l’8 febbraio 1600.

Invocato dunque il nome di Nostro Signore Gesù Christo et della sua gloriosissima Madre sempre vergine Maria, nella causa vertente in questo Santo Offitio tra il reverendo Giulio Monterentii, dottore di leggi, procurator fiscale di detto Santo Offitio, da una parte, et te fra Giordano Bruno predetto, reo inquisito, processato, colpevole, impenitente, ostinato et pertinace ritrovato, dall’altra parte; per questa nostra diffinitiva sententia, quale di conseglio et parere de’ reverendi padri maestri di sacra theologia et dottori dell’una e l’altra legge, proferimo, dicemo, pronuntiamo, sententiamo et dichiariamo te, fra Giordano Bruno predetto, essere heretico impenitente, pertinace et ostinato, et perciò essere incorso in tutte le censure ecclesiastiche et pene dalli sacri Canoni, leggi et constitutioni a tali heretici confessi, impenitenti et ostinati imposte; et come tale te dechiariamo dover essere degradato, per punirti delle debite pene, pregando però che le leggi circa la pena della tua persona, sia senza pericolo di morte o mutilatione di membro.
Di più, condanniamo, riprobamo et prohibemo tutti i tuoi libri et scritti come heretici et erronei et continenti molte heresie et errori, ordinando che tutti quelli che sin’hora si son havuti, et per l’avenire verranno in mano del Santo Offitio siano publicamente guasti et abbrugiati nella piazza di San Pietro, avanti le scale; et come tali che siano posti nell’Indice de’ libri prohibiti, sì come ordiniamo che si facci.

4.
La condanna non viene immediatamente eseguita. Qualche giorno più tardi, in un Avviso di Roma, si legge:

Di Roma, li 12 febraro 1600, sabbato.
Hoggi credevamo vedere una solennissima giustitia, et non si sa perché si sia restata, et era di un domenichino da Nola, heretico ostinatissimo, che mercordì in casa del cardinal Madrucci sententiarono come auttore di diverse enormi opinioni, nelle quali restò ostinatissimo, et ci sta tuttora, non ostante che ogni giorno vadano teologhi da lui. Questi frati dicono sia stato due anni in Genevra; poi passò a legere nello Studio di Tolosa, et poi in Lione, et di là in Inghilterra, dove dicono non piacessono punto le sue opinioni; et però se ne passò in Norinbergh, et di là venendosene in Italia, fu acchiappato, et dicono in Germania habbia più volte disputato col cardinal Belarminio. Et in somma il meschino, s’Iddio non l’aiuta, vuol morir ostinato et esser abbruggiato vivo.

5.
Quattro giorni dopo, il verbale dell’ Arciconfraternita di S. Giovanni Decollato annota:

Giustitia di un eretico inpenitente bruciato vivo . Giovedì a dì 16. A hore 2 di notte fu intimato alla Compagnia che la mattina si dovea far giustitia di un inpenitente; et però alle 6 h ore di notte radunati li confortatori e capellano in Sant’Orsola, et andati alla carcere di Torre di Nona, entrati nella nostra capella e fatte le solite orationi, ci fu consegniato l’infrascritto a morte condennato, cioè: Giordano del quondam Giovanni Bruni frate apostata da Nola eretico inpenitente. ll quale esortato da’ nostri fratelli con ogni carità, e fatti chiamare due Padri di san Domenico, due del Giesù, due della Chiesa Nuova e uno di san Girolamo, i quali con ogni affetto et con molta dottrina mostrandoli l’error suo, finalmente stette senpre nella sua maladetta ostinatione, aggirandosi il cervello e l’intelletto con mille errori e vanità. E tanto perseverò nella sua ostinatione, che da’ ministri di giustitia fu condotto in Campo di Fiori, e quivi spogliato nudo e legato a un palo fu brusciato vivo, aconpagniato sempre dalla nostra Compagnia cantando le letanie, e li confortatori sino a l’ultimo punto confortandolo a lasciar la sua ostinatione, con la quale finalmente finì la sua misera et infelice vita

6.
Bruno fu ucciso per I ‘esercizio radicale di una libera filosofia. Una delle pagine iniziali del De la Causa può essere assunta come esempio di prosa polemica, ironica e irriverente contro teologi e filosofi pedanti e asini, ripetitori all’infinito di dottrine altrui per di più erronee, rese incomprensibili da un linguaggio ricercato ed astruso. Contro di essi il Nolano si presenta come uomo “che non ho altro cervello che il mio”, e che fonda la propria ricerca sul solo intelletto naturale e sulla lingua comune appresa da una vigorosa nutrice.

Io non parlarò come santo profeta, come astratto divino, come assumpto apocaliptico; non raggionarò come inspirato da Bacco, né  gonfiato di vento da le puttane muse di Parnaso, o come una Sibilla impregnata da Febo, o come una fatidica Cassandra, né come Edipo esquisito contra gli nodi della Sfinge, né come un Salomone inver gli enigmi della regina Sabba, né qual Calcante, interprete dell’olimpico senato. Ma parlarò per l’ordinario e per volgare, come uomo che ho avuto altro pensiero che d’andarmi lambiccando il succhio de la grande e piccola nuca, come uomo, dico, che non ho altro cervello che il mio; a cui, manco gli dei dell’ultima cotta e da tinello nella corte celestiale […] si degnano cacciarmene una pagliusca di più dentro, quantunque sogliano far copia de’ fatti lor sin ai cavalli.
Voglio dir brevemente, che vi farò udir paroli, che non bisogna disciferarle come poste in distillazione, passate per lambicco, digerite dal bagno di Maria, e subblimate in recipe di quinta essenza; ma tale quali m’insaccò nel capo la nutriccia, la quale era quasi tanto cotennuta, pettoruta, ventruta, fiancuta e naticuta, quanto può essere quella londriota, che viddi a Westmester; la quale, per iscaldatoio del stomaco, ha un paio di tettazze, che paiono gli borzacchini del gigante san Sparagorio, e che, concie in cuoio, varrebbono sicuramente a far due pive ferrarese.

7.
L ‘uso del solo intelletto naturale e di un linguaggio comprensibile e comunicabile intende porsi al servizio della verità oscurata e avvilita da secoli d’ignoranza e sopraffazione; affinché, vendicata e restituita alla sua dignità, una rinnovata filosofia torni ad essere disponibile, come nei tempi antichi, per il governo delle nazioni. Leggiamo ancora nel De la Causa:

E così mi sien propici gli superi, Armesso mio, che io mai feci di simili vendette per sordido amor proprio o per villana cura d ‘uomo particulare, ma per amor della mia tanto amata madre filosofia e per zelo della lesa maestà di quella. La quale da’ mentiti famigliari e figli (perché non è vil pedante, poltron dizionario, stupido fauno, ignorante cavallo, che, o con mostrarsi carco di libri, con allungarsi la barba o con altre maniere mettersi in prosopopea, non voglia intitolarsi de la famiglia) è ridutta a tale, che appresso il volgo tanto val dire un filosofo, quanto un frappone, un disutile, pedantaccio, circulatore, saltainbanco, ciarlatano, buono per servir per passatempo in casa e per spavantacchio d ‘ucelli a la campagna.
Lodiamo, dunque, nel suo genio l’antiquità, quando tali erano gli filosofi che da quelli si promovevano ad essere legislatori, consiliarii e regi; tali erano consiliarii e regi, che da questo essere s’inalzavano a essere sacerdoti. A questi tempi la massima parte di sacerdoti son tali, che son spreggiati essi, e per essi son spreggiate le leggi divine; son tali quasi tutti quei che veggiamo filosofi, che essi son vilipesi, e per essi le scienze vegnono vilipese.

8.
Il rinnovamento della filosofia, cioè della vera conoscenza mediante l’esercizio dell’intelletto naturale, si scontra in modo drammatico con il potere di una secolare superstizione – fondata sul culto dell’ignoranza e sul disprezzo della natura -, che ha oscurato e depresso l’Occidente dai tempi di Grecia e di Roma, specialmente a causa del Cristianesimo, considerato da Bruno come la più grande impostura nella storia dell’Occidente.

Nello Spaccio de la bestia trionfante Bruno addita in Orione la figura di Cristo, così come è stata interpretata e presentata dal cristianesimo storico: emblema del rovesciamento delle leggi e delle verità naturali soppiantate da miracoli e prodigi soprannaturali.

“Spaccio” significa cacciata, espulsione della bestia, ossia del vizio che trionfa nell’alto del cielo, per riportarvi le virtù che si nascondono raminghe nelle oscurità della terra. Portatore dell’esigenza di un rovesciamento radicale dei valori culturalmente e socialmente dominanti, lo Spaccio, venuto nelle mani degli inquisitori nel corso del 1599, segnò la condanna definitiva di Bruno.

Dimandò Nettuno: che farrete o Dei del mio favorito, di quell’Orione, dico, che fa per spavento orinare il cielo?
Qua, rispose Momo: lasciate proponere a me, o Dei. Ne è cascato, come è proverbio in Napoli, il maccarone dentro il formaggio.
Orione, perché sa far de maraviglie, e, come Nettuno sa, può caminar sopra l’onde del mare senza infossarsi, senza bagnarsi gli piedi; e con questo, consequentemente, potrà far molte altre belle gentilezze, mandiamolo tra gli uomini; e facciamo che gli done ad intendere tutto quello che ne pare e piace, facendogli credere che il bianco è nero, che l’intelletto umano, dove li par meglio vedere, è una cecità; e ciò che secondo la raggione pare eccellente, buono ed ottimo, è vile, scelerato ed estremamente malo; che la natura è una puttana bagassa, che la legge naturale è una ribaldaria; che la natura e divinità non possono concorrere in uno medesimo buono fine, e che la giustizia de l’una non è subordinata alla giustizia de l’altra, ma son cose contrarie, come le tenebre e la luce; che scienze, fortezza, giudicio, bellezza ed autorità son doni naturali e spreggiati da gli dei, e lasciati a quelli che non son capaci de più grandi privilegii: cioè di quei sopranaturali che dona la divinità, come questo di saltar sopra l’acqui, di far ballare i granchi, di far fare capriole ai zoppi, far vedere le talpe senza occhiali ed altre belle galanterie innumerabili.
Persuaderà con questo che la filosofia, ogni contemplazione ed ogni magia che possa far gli uomini simili a dei, non sono altro che pazzie; che ogni atto eroico non è altro che vegliaccaria; e che la ignoranza è la più bella scienza del mondo, perché s’aquista senza fatica e non rende l’animo affetto di melancolia. Ma con timore, o dei, io vi dono questo conseglio, perché qualche mosca mi sussurra ne l’orecchio: atteso che potrebbe essere che costui al fine, trovandosi al caccia in mano, non la tegna per lui, dicendo e facendoli oltre credere, che il gran Giove non è Giove, ma che Orione è Giove e che li dei tutti non sono altro che chimere e fantasie.

9.
Per Bruno, la storia è ciclica alternanza di luce e tenebra. La luce splendeva ancora nella civiltà e religione degli Egizi, i quali sapevano ancora riconoscere e onorare nella natura la nascosta divinità. Seguirono secoli di decadimento e di tenebra, fino al nuovo giorno annunciato da Copernico e ora splendente nella filosofia bruniana. Leggiamo nello Spaccio il celebre Lamento di Asclepio, una delle pagine più intense dell’intera opera bruniana:

Non sai, o Asclepio, come l’Egitto sia la imagine del cielo, e per dir meglio, la colonia de tutte cose che si governano ed esercitano nel cielo? Ma, oimè, tempo verrà che apparirà l’Egitto in vano essere stato religioso cultore della divinitade; perché la divinità, remigrando al cielo, lasciarà l’Egitto deserto e vi succederà gente straniera e barbara senza religione, pietà, legge e culto alcuno. O Egitto, Egitto, delle religioni tue solamente rimarranno le favole, anco incredibili alle generazioni future alle quali non sarà altro, che narri gli pii tuoi gesti, che le lettere scolpite nelle pietre.
Le tenebre si preponeranno alla luce, la morte sarà giudicata più utile che la vita, nessuno alzarà gli occhi al cielo, il religioso sarà stimato insano, l’empio sarà giudicato prudente, il furioso forte, il pessimo buono. E credetemi che ancora sarà definita pena capitale a colui che s’applicarà alla religion della mente. Soli angeli perniciosi rimarranno, li quali, meschiati con gli uomini, forzaranno gli miseri all’audacia di ogni male, come fusse giustizia: donando materia a guerre, rapine, frodi e tutte altre cose contrarie alla anima e giustizia naturale; e questa sarà la vecchiaia ed il disordine e la irreligione del mondo.
Ma non dubitare, Asclepio, perché, dopo che saranno accadute queste cose, allora il Signore e Padre Dio, governator del mondo, l’omnipotente proveditore, per diluvio d’acqua o di fuoco, di morbi o di pestilenze, o altri ministri della sua giustizia misericordiosa, senza dubbio donarà fine a cotal macchia, richiamando il mondo all’antico volto.

10.
Bruno riconobbe due fonti della sua filosofia: Copernico, salutato come “alba del nuovo giorno” per la sua dottrina dell’universo; e il divino Cusano, per la sua dottrina dell’essere. Onoriamo con Bruno questi due padri della modernità. Così  è presentato Copernico nella Cena de le ceneri:

Lui avea un grave, elaborato, sollecito e maturo ingegno; uomo che non è inferiore a nessuno astronomo che sii stato avanti lui, se non per luogo di successione e tempo; uomo che, quanto al giudizio naturale, è stato molto superiore a Tolomeo, Ipparco, Eudoxo e tutti gli altri, ch ‘han caminato appo i vestigi di questi. Al che è dovenuto per essersi liberato da alcuni presuppositi falsi de la comone e volgar filosofia, non voglio dir cecità. Ma però non se n’è molto allontanato; perché lui, più studioso de la matematica che de la natura, non ha possuto profondar e penetrar sin tanto che potesse a fatto toglier via le radici de inconvenienti e vani principii, onde perfettamente sciogliesse tutte le contrarie difficultà e venesse a liberar e sé ed altri da tante vane inquisizioni e fermar la contemplazione ne le cose costante e certe. Con tutto ciò chi potrà a pieno lodar la magnanimità di questo germano, il quale, avendo poco riguardo a la stolta moltitudine, è stato sì saldo contra il torrente de la contraria fede, ripigliando quelli abietti e rugginosi fragmenti ch’ha possuto aver per le mani da la antiquità, le ha ripoliti, accozzati e risaldati in tanto, ch’ha resa la causa, già ridicola, abietta e vilipesa, onorata, preggiata, più verisimile che la contraria? Cossì questo alemano, benché non abbi avuti sufficienti modi, per i quali potesse a bastanza vencere, debellare e sopprimere la falsità, ha pur fissato il piede in determinare ne l’animo suo ed apertissimamente confessare, ch’al fine si debba conchiudere necessariamente, che più tosto questo globo si muova a l’aspetto de l’universo, che sii possibile che la generalità di tanti corpi innumerabili, al dispetto della natura, abbia conoscere questo per mezzo e base de suoi giri ed influssi.
Chi dunque sarà sì villano e discortese verso il studio di quest’uomo, che, avendo  posto in oblio quel tanto che ha fatto, con esser ordinato da gli dei come una aurora, che dovea precedere l’uscita dl questo sole de l’antiqua filosofia, per tanti secoli sepolta nelle tenebrose caverne de la cieca, maligna, proterva ed invida ignoranza; vogli, notandolo per quel che non ha possuto fare, metterlo nel medesmo numero de la gregaria moltitudine, che discorre, si guida e si precipita più per il senso de l’orecchio d’una brutale e ignobil fede; che non vogli computarlo tra quei, che col felice ingegno s ‘han possuto drizzare ed inalzarsi per la fidissima scorta de l’occhio de la divina intelligenza?

11.
Bruno assume dal Cusano due dottrine: quella di un Principio unico, nel quale tutte le cose sono comprese coincidendo in esso in modo indifferenziato; e quella dell’identità di Dio con il mondo, essendo questo considerato manifestazione dell’unica sostanza divina. La dottrina dell’indeterminatezza del Principio, forma e materia di tutte le cose, costituisce la grande novità e la drammatica frattura che le filosofie di Cusano e di Bruno segnano rispetto alla tradizione.

Ascoltiamo questa fondamentale dottrina in una pagina del De la causa:

È dunque l’universo uno, infinito, inmobile. Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l ‘atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo ed ottimo. Questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che sia il tutto. Non si genera; perché non è altro essere, che lui possa desiderare o aspettare, atteso che abbia tutto lo essere. Non si corrompe; perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa. Non può sminuire o crescere, atteso che è infinito. Oltre che, per comprender tutte contrarietadi  nell’essere suo in unità e convenienza, e nessuna inclinazione posser avere ad altro e novo essere, non può essere soggetto di mutazione secondo qualità alcuna, che lo alteri, perché in lui è ogni cosa concorde.
Non è materia, perché non è figurato né figurabile, non è terminato né terminabile. Non è forma, perché non informa né figura altro, atteso che è tutto, è massimo, è uno, è universo. Non è misurabile ne misura. Non si agguaglia, perché non è altro e altro ma uno e medesimo. Questo è termine di sorte che non è termine, è talmente forma che non è forma, è talmente materia che non è materia, è talmente anima che non è anima: perché è il tutto indifferentemente, e perciò è uno, l’universo è uno.

12.
Bruno deve dunque al Cusano l’idea dell’unità sostanziale di tutte le cose, dell’Uno come coincidenza di tutti i contrari, dell’Universo uno e infinito. Se tutte le cose sono fatte della stessa materia divina e dalla stessa divina potenza, poiché la causa è infinita, infinito è anche l’effetto che ne deriva. L’universo è dunque un solo campo immenso, privo di figura e dimensioni, di centro e periferia, nel quale innumerevoli mondi finiti, fatti tutti della stessa vivente materia, si muovono con ordinate distanze per intimo impulso.

Leggiamo ne La cena de le ceneri:

Il Nolano ha disciolto l’animo umano e la cognizione, che era rinchiusa ne l’artissimo carcere de l’aria turbolento, ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorso le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decime ed altre, che vi s’avesser potuto aggiungere, sfere; nudata la ricoperta e velata natura, ha donati gli occhi a le talpe, illuminati i ciechi, sciolta la lingua a’ muti che non sapeano e non ardivano esplicar gl’intricati sentimenti e n’apre gli occhi a veder questo nume, questa nostra madre, che nel suo dorso ne alimenta e ne nutrisce, dopo averne produtti dal suo grembo, al qual di nuovo sempre ne riaccoglie, e non pensar oltre, lei essere un corpo senza alma e vita. Cossì conoscemo tante stelle, tanti astri, tanti numi, che son quelle tante centenaia de migliaia ch’assistono al ministerio e contemplazione del primo, universale, infinito ed eterno efficiente. Non è più imprigionata la nostra raggione coi ceppi de’ fantastici mobili e motori otto, nove e diece.
Conoscemo, che non è ch’un cielo, un ‘eterea regione immensa, dove questi magnifici lumi serbano le proprie distanze, per comodità de la partecipazione de la perpetua vita. Questi fiammeggianti corpi son que’ ambasciatori, che annunziano l’eccellenza de la gloria e maestà de Dio. Cossì siamo promossi a scoprire l’infinito effetto dell’infinita causa, il vero e vivo vestigio de l’infinito vigore; ed abbiam dottrina di non cercar la divinità rimossa da noi, se l’abbiamo appresso, anzi di dentro, più che noi medesmi siamo dentro a noi; non meno che gli coltori de gli altri mondi non la denno cercare appresso di noi, l’avendo appresso e dentro di se, atteso che non più la luna è cielo a noi, che noi alla luna.

13.
Essenziale, nel pensiero di Bruno, è la valenza politica delle dottrine proposte. La filosofia è al servizio di una vita buona: buono è ciò che favorisce la costruzione di società umane, male ciò che queste ostacola e distrugge. Infatti è dalla forza e stabilità degli stati che dipendono la sicurezza e la libertà degli individui. In una celebre pagina dello Spaccio, Sofia rivela che cosa piaccia agli dei e che cosa essi condannino.

Ascolta. Li dei massime vogliono essere amati e temuti, per fine di faurire al consorzio umano, ed avertire massimamente que’ vizii che apportano noia a quello. E però li peccati interiori, solamente denno esser giudicati peccati, per quel che metteno o metter possono in effetto esteriore; e le giustizie interiori mai sono giustizie senza la prattica esterna, come le piante in vano sono piante senza frutti.
E Giove vuole che de gli errori, in comparazione, massimi sieno quelli che sono in pregiudicio della repubblica; minori quelli che sono in pregiudicio d’un altro particulare interessato; minimo sia quello ch ‘accade tra doi d ‘accordo; nullo è quello, che non procede a mal essempio o male effetto.
Ha comandato ancora al giudicio che non distingua gli costumi e religioni tanto per la distinzione di toghe e differenze de vesti, quanto per buoni e megliori abiti di virtudi e discipline.
Non dica maggior errore il superbo appetito di gloria, onde resulta sovente bene alla repubblica, che la sordida cupidigia di danari.
Non faccia tanto trionfo d’uno, perché abbia sanato un vile e disutil zoppo, che poco o nulla vale più sano che infermo, quanto d ‘un altro ch’ha liberata la patria e riformato un animo perturbato.
Non permetta, che si addrizzeno statue a’ poltroni, nemici del stato de le repubbliche, ma a color che fanno tempii a’ dei, aumentano il culto ed il zelo di tale legge e religione per quale vegna accesa o la magnanimità ed ardore di quella gloria che seguita dal servizio della sua patria ed utilità del genere umano; onde appaiono istituite universitadi per le discipline di costumi, lettere ed armi.
E guarde di promettere amore, onore e premio di vita eterna ed immortalitade a quei che approvano gli pedanti e parabolani; ma a quelli che per adoprarsi nella perfezione del proprio ed altrui intelletto, nel servizio della communitade, nell’osservanza espressa circa gli atti della  magnanimità, giustizia e misericordia, piaceno a gli dei.

14.
Poiché gli Stati e ogni forma di vita buona si costruiscono con l’operosità umana, nella Cabala del cavallo pegaseo Bruno celebra la mano come simbolo della stessa umanità e strumento che distingue la specie umana dalle altre specie, conferendole il vero titolo di superiorità.

Molti animali possono aver più ingegno e molto maggior lume d’intelletto che l’uomo (come non è burla quel che proferì Mosè del serpe, che nominò sapientissimo tra tutte l’altre bestie de la terra); ma per penuria d’instrumenti gli viene ad essere inferiore, come quello, per ricchezza e dono de medesimi, gli è tanto superiore.
E che ciò sia la verità, considera un poco al sottile, ed essamina entro a te stesso quel che sarrebe se, posto che l’uomo avesse al doppio d’ingegno che non ave, e l’intelletto agente gli splendesse tanto più chiaro che non gli splende, e con tutto ciò le mani gli venesser transformate in forma di doi piedi, rimanendogli tutto l’altro nel suo ordinario intiero; dimmi, dove potrebbe impune esser la conversazion de gli uomini?
Come potrebono instituirsi e durar le fameglie ed unioni di costoro parimente, o più, che de cavalli, cervii, porci, senza esserno devorati da innumerabili specie de bestie, per essere in tal maniera suggetti a maggiore e più certa ruina? E per conseguenza, dove sarrebono le instituzioni de dottrine, le invenzioni de discipline, le congregazioni de cittadini, le strutture de gli edificii ed altre cose assai che significano la grandezza ed eccellenza umana, e fanno l’uomo trionfator veramente invitto sopra l’altre specie?

Tutto questo, se oculatamente guardi, si referisce non tanto principalmente al dettato de l’ingegno, quanto a quello della mano, organo degli organi.

15.
Anche le scoperte di nuove terre e di nuovi popoli, che dopo Colombo avevano profondamente mutato l’immagine del mondo, vengono giudicate in relazione agli effetti che esse producono sulla “civile conversazione” degli uomini. Assumendo a simbolo dei nuovi conquistatori l’antico navigatore Tifo, Bruno condanna, ne La Cena de le Ceneri, la violenza inferta a interi popoli ridotti in schiavitù. A tali conquiste egli oppone quelle della propria filosofia, capace di sciogliere l’animo umano e la sua conoscenza da catene secolari:

Gli Tifi han ritrovato il modo di perturbar la pace altrui, violar i patrii genii de le reggioni, di confondere quel che la provvida natura distinse, per il commerzio radoppiar i difetti, e gionger vizii a vizii de l’una e  l’altra generazione; con violenza propagar nove follie e piantar l’inaudite pazzie ove non sono, conchiudendosi alfin più saggio quel ch’è più forte; mostrar novi studi, instrumenti ed arte de tirannizar e sassinar l’un l’altro; per mercè de’ quai gesti tempo verrà, che, avendono quelli a sue male spese imparato, per forza de la vicissitudine de le cose, sapranno e potranno renderci simili e peggior frutti de sì perniciose invenzioni.

16.
Qual è dunque il frutto maturo della nolana filosofia, la preda dell’eroica caccia alla sapienza? Questa è detta da una sola parola: libertà; dalle catene del pregiudizio, della superstizione e di una secolare ignoranza. Libertà dalla paura della morte e dei mutamenti della fortuna. Libertà dai vincoli del tempo e dello spazio.

Ci congediamo da Bruno con una delle pagine iniziali del De immenso, nella quale egli offre un definitivo ritratto della propria esperienza di uomo e filosofo:

Alla mente che ha ispirato il mio cuore con arditezza d’immaginazione piacque dotarmi le spalle di ali e condurre il mio cuore verso una meta stabilita da un ordine eccelso: in nome del quale è possibile disprezzare e la fortuna e la morte. Si aprono arcane porte e si spezzano le catene che solo pochi elusero e da cui solo pochi si sciolsero. I secoli, gli anni, i mesi, i giorni, le numerose generazioni, armi del tempo, per le quali non sono duri né il bronzo, né il diamante, hanno voluto che noi rimanessimo immuni dal loro furore.
Così, io sorgo impavido a solcare con l’ali l’immensità dello spazio, senza che il pregiudizio mi faccia arrestare contro sfere celesti, la cui esistenza fu erroneamente dedotta da un falso principio, affinché fossimo come rinchiusi in un fittizio carcere ed il tutto fosse costretto entro adamantine muraglie.
Mentre mi sollevo da questo mondo verso altri mondi lucenti e percorro da ogni parte l’etereo spazio, lascio dietro le spalle, lontano, lo stupore degli attoniti.