Il realismo metafisico in Italia (VI)

Anche in Italia si registra un significativo ritorno delle tesi realiste, che si contrappongono al relativismo e al costruttivismo che hanno caratterizzato la fine del secolo scorso.

Il realismo viene significativamente riproposto da parte di filosofi di area cattolica, da filosofi della scienza, ma anche da filosofi di area analitica e post-analitica, cioè tanto da filosofi del linguaggio quanto da filosofi della mente.

La Filosofia della mente viene considerata il fronte più avanzato della odierna ricerca filosofica, che, dopo avere affermato la centralità del linguaggio, è passata a valorizzare il ruolo che hanno le funzioni psichiche – a cominciare dalla percezione – nel processo del conoscere. Di essa ci siamo già occupati in saggi precedenti, ai quali rinviamo, e torneremo ad occuparci. Qui, invece, daremo delle brevi indicazioni sulla concezione realista che emerge da altri ambiti, proprio per cercare di completare il quadro.

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Il realismo metafisico contemporaneo (V)

Il discorso svolto negli articoli precedenti impone che si prenda in esame il dibattito contemporaneo che si è sviluppato tra “realisti” e “antirealisti”.

Ebbene, tale dibattito concerne, in estrema sintesi, l’indipendenza o meno della cosa reale, ossia il senso della realtà oggettiva.

Il realismo metafisico (RM) sostiene che la cosa reale è la cosa ordinaria, ossia la cosa che fa parte dell’universo sensibile: essa, infatti, ancorché inscritta nella trama di riferimenti con le altre cose, non di meno esiste in sé e di per sé. Proprio per questo suo esistere autonomo e indipendente, essa – dicono i realisti – può venire rilevata.

L’antirealista dubita, invece, che la cosa ordinaria sia veramente indipendente e sostiene che essa dipende, se non altro, dal sistema che consente di rilevarla e dal sistema all’interno del quale essa si colloca, facendone parte. L’antirealista comunque nega che la cosa reale, se veramente indipendente, possa venire conosciuta nel suo essere indipendente.

L’antirealista, insomma, sostiene che, proprio per la ragione che la realtà oggettiva non può non essere veramente autonoma e autosufficiente, ossia assolutamente indipendente da ogni altro da sé, nessuna determinazione (cosa ordinaria) può venire considerata come “cosa reale”, ossia come “realtà oggettiva”.

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Se Dio è morto tutto è possibile?

La frase che fa dà titolo a questo articolo è una riproposizione della famosa affermazione di Dostoevskij, solamente che in questo caso è stato messo un punto interrogativo alla fine della frase stessa. Perché ne I fratelli Karamazov lo scrittore russo poneva l’affermazione come una determinazione di ciò che sarebbe accaduto, una volta che Dio fosse morto. Intendiamo, ovviamente, la morte di Dio come la fine di tutte le certezze metafisiche che potevano dare una spiegazione, ed una motivazione aprioristica, all’azione morale.

Personalmente non posso dire di vedere una disfatta delle vecchie morali che determinavano, e determinano, l’agire umano. Per lo meno in Occidente. Non posso, però, nascondere che la modificazione del mondo e le novità hanno permesso a nuovi standard, modelli e fondamenti morali (alcuni li chiamano valori) di diventare padroni delle coscienze, e punti di riferimento per l’agire di molte persone. Ad esempio – anzi, l’esempio principale – è quello della religione cristiana. È innegabile che molte nuove generazioni abbiano abbandonato quella struttura di credenze e fondamenti morali (o valori), per volgere lo sguardo e l’azione verso punti di riferimento diversi.

Spesso questo volgere lo sguardo verso nuovi punti di riferimento morali, per molti, significa (erroneamente) non avere punti di riferimento morali (o valori). Cioè, come a dire, che: siccome non si fa più riferimento ad una dottrina morale ed etica (che è ben diverso!) ben definita e tradizionale, non si possa agire rettamente. E quindi, tornando alla frase di Dostoevskij, siccome non c’è più Dio che impone la sua forza etica sulla nostra coscienza, abbiamo la possibilità di fare qualsiasi cosa. La stessa cosa avveniva, ad esempio, con Epicuro, quando diceva ai suoi allievi che dovevano agire come se Epicuro li stesse guardando, e ciò era garanzia di un’azione morale.

Ho paura di non essere d’accordo con questa prospettiva. Ebbene: lo smascheramento di una scala di valori che la porta, necessariamente, ad essere abbandonata da molte persone non è sintomo di decadenza. (Non sto parlando nei termini in cui Khun fa muovere le teorie scientifiche nel tempo storico, qui si è in una dimensione altra.) La decadenza non coincide con il non credere più ad una serie di riferimenti morali. La decadenza, semmai, sta nella non accettazione di un relativismo di base. Credere che le proprie idee siano la verità immutabile, non porle mai sotto giudizio, ma difenderle passando da irrazionali è ciò che genera un muto asservimento.

E non è vero che dopo la fine della metafisica (se mi è permesso dire) occidentale come grande dimostrazione teoretica di Dio, si può solo cadere nell’immoralità del tutto è permesso. La Filosofia (quando non è stata pura metafisica, come in grandi tratti della modernità) ci ha insegnato che il soggetto può essere autonomo, può migliorare, può avvicinarsi alla felicità anche – e forse soltanto – mediante la verità e la ricerca.

Per ciò, concludendo, vorrei dire che l’insegnamento dei greci e dei romani (soprattutto stoici) ci può far capire come anche senza un Dio di cui abbiamo paura, possiamo agire moralmente. Anzi, è proprio forse senza un riferimento trascendente che impone nella pratica ciò che dobbiamo fare, e ciò che non dobbiamo fare, che possiamo agire moralmente. Cioè fare il bene per il bene comune, e non fare il bene per sentirsi bene con se stessi.