Metafisica e meraviglia: il ruolo dell’esperienza in Schopenhauer

Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer è per lo più identificato come l’autore de Il mondo come volontà e rappresentazione. A quest’opera, e intorno ad essa, Schopenhauer ha lavorato in effetti tutta la vita. Pubblicata nel 1818, Il mondo è un’opera totale, onnicomprensiva, che si occupa di tutte le discipline filosofiche al suo interno. Dopo venticinque anni dalla prima edizione, Schopenhauer dà alle stampe un altro corposo volume che ha ancora a che fare con Il mondo e che intitola Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione». Cinquanta capitoli che ripercorrono la struttura dell’opera principale e ne commentano il contenuto, la approfondiscono, chiarendone alcuni passaggi decisivi.

Come ha scritto il compianto Giorgio Brianese nell’introduzione alla sua traduzione di entrambi i testi, i Supplementi «sono, per lo stesso Schopenhauer, due cose insieme: da un lato ampliamento e sviluppo dei temi proposti venticinque anni prima nel Mondo come volontà e rappresentazione, dall’altro quasi un’opera a sé stante, dotata di una sua autonomia e complementare alla precedente» (Schopenhauer, 2013b, IX). Leggere i Supplementi, infatti, permette di capire la stratificazione che è avvenuta “sopra” a Il mondo, la cui genesi non è stata mai interrotta, come mostrano le tre edizioni date alle stampe nel corso di quarant’anni (su questo tema: Morini, 2017).

«Il bisogno metafisico dell’uomo»
Il capitolo 17 dei Supplementi è intitolato «Il bisogno metafisico dell’uomo» e si confronta con uno dei concetti chiave della riflessione sulla nascita della filosofia: la meraviglia. Schopenhauer sostiene che solo l’uomo prova meraviglia per il fatto di esistere: ciò si deve perché in lui intelletto e volontà sono separati. La meraviglia è, però, secondo una lettura angolare del termine, al contempo stupore e terrore. Ciò perché nell’uomo la meraviglia si trova «consapevolmente» (Schopenhauer 2013b, 214) di fronte alla morte. Da questa presa di coscienza nasce il bisogno metafisico dell’uomo, la necessità – quindi – di superare l’esperienza. Ma sul significato di questo superamento, torneremo fra qualche riga, perché la lettura schopenhaueriana è profonda. 

Cos’è, dunque, la metafisica? Perché – si chiede l’autore – se percepiamo un bisogno metafisico è necessario anche definire i confini del termine che stiamo ricercando. 

«Per metafisica – scrive l’autore tedesco – io intendo ogni presunta conoscenza che oltrepassi la possibilità dell’esperienza, ossia che oltrepassi la natura, o il dato fenomenico delle cose, per conseguire una spiegazione di ciò che, in un senso o nell’altro, la condizionerebbe; o, in parole povere, di ciò che si nasconde dietro la natura e la rende possibile» (Schopenhauer 2013b, 219-220)

La definizione è chiara e inequivocabile; giocando magistralmente coi temi classici del disvelamento, Schopenhauer si pone in una prospettiva di continua e inarrestabile ricerca. È infatti conseguenza di questa definizione il fatto che la metafisica, in quanto «presunta conoscenza», è un cercare, il continuo tentativo di squarciare un velo. 

Fenomeno e cosa in sé
Tralasciando la religione (che per Schopenhauer è uno dei modi che gli uomini hanno progettato per rispondere al bisogno metafisico, ma che crolla su se stesso nella misura in cui rintraccia una giustificazione delle cose in altro da sé, ossia nel divino), la risposta al bisogno metafisico che Schopenhauer abbraccia è quella filosofica. Quest’ultima, infatti, trova in sé la propria giustificazione, la propria conferma, scrive il filosofo. 

Tuttavia Schopenhauer dà per scontata una duplicità di oggetti dell’esperienza che se non ben compresa rischia di condurre a una interpretazione sbagliata del suo sistema. Schopenhauer, infatti, è pienamente convinto della divisione che Kant ha concepito fra fenomeno e cosa in sé (e confida anche nella sua teoria della conoscenza). I fenomeni – questi “fantasmi” che viaggiano all’altezza dei nostri occhi – si muovono nella possibilità tanto di essere, quanto di non-essere, e «nei fatti, l’inquietudine che tiene in movimento l’orologio mai scarico della metafisica è la coscienza che il non-essere di questo mondo è tanto possibile quanto il suo esserci» (Schopenhauer 2013b, 229). 

I fenomeni, però, non sono tutto, essi sono lo strato esterno di una realtà che non vediamo mai interamente. I fenomeni al contempo, oggetto di studio della fisica che li guarda “dall’esterno”, sono tutto ciò che abbiamo. 

Il superamento è l’esperienza stessa
La metafisica, infatti, spiega Schopenhauer, date queste premesse, non svolazza al di sopra dei fenomeni. La metafisica – nella misura in cui è una “conoscenza” umana, e ogni conoscenza è esperienza – non trascende mai i fenomeni, piuttosto li osserva continuamente per dare corpo alla propria ricerca. Si chiede retoricamente Schopenhauer: «come può una scienza attinta dall’esperienza condurre al di là di quest’ultima e meritare il nome di metafisica?» (Schopenhauer 2013b, 243). Può, perché nei fenomeni essa è concentrata a rintracciare quelle sfumature che abbozzano “la cosa in sé”. Questa non è, dunque, un ente separato dal fenomeno, piuttosto è il fenomeno stesso guardato dall’interno, visto dalla prospettiva dell’intera rete di relazioni a cui è collegato e grazie al quale è ciò che è. La metafisica, dunque, non supera l’esperienza, la disvela, la apre a quello che rende i fenomeni interconnessi. 

L’esperienza – fulcro centrale della gnoseologia schopenhaueriana – coincide con la ricerca stessa, è il suo motore: «la filosofia altro non è che la corretta comprensione universale dell’esperienza stessa» (Schopenhauer 2013b, 245). 

Ma c’è un passaggio ancor più rivelatore e che ci lascia uno Schopenhauer immanentista e teorico delle relazioni, padre nobile della «sapienza mondana», come definisce la filosofia stessa in ultima analisi. 

«La mia dottrina consente di scorgere l’accordo e la coerenza in quel groviglio di contrasti che sono i fenomeni di questo mondo e scioglie le innumerevoli contraddizioni che esso presenta se lo si considera da qualsiasi altro punto di vista» (Schopenhauer 2013b, 247)

Cosa sono l’accordo e la coerenza se non il “rapporto”, la “relazione”, l’“interconnessione”? L’idea per cui ogni cosa è tale non perché è individualmente ciò che è a prescindere da cosa lo circonda, ma proprio perché è circondata da tutta un’altra serie di cose. I confini fra un fenomeno e l’altro (per usare i termini di Schopenhauer) allora si sfumano, diventano convenzioni che ci permettono di operare. Nel frattempo l’infinita rete di relazioni che li tiene a galla si popola di connessioni nuove, si infittisce sempre di più: il mondo visto dalla sua prospettiva è composto di cose tutt’altro che uniche.

 

Riferimenti bibliografici

  • Morini, Maurizio. 2017. Trascendentalismo e immanentismo nelle tre edizioni del Mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer. Macerata: EUM.

  • Schopenhauer, Arthur. 2013. Il mondo come volontà e rappresentazione (trad. Giorgio Brianese). Torino: Einaudi.

  • Schopenhauer, Arthur. 2013b.  Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione» (trad. Giorgio Brianese). Torino: Einaudi.

 

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Laureato in filosofia, lavora nel mondo della comunicazione e dell'organizzazione culturale. Coordinatore della redazione di questa rivista, ha pubblicato il saggio filosofico "Bergson oltre Bergson" (ETS, Pisa, 2018) e "La spedizione italiana al K2" (Res Gestae, Milano, 2024)

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