L’Occidente filosofico nasce da una rottura primordiale, quella tra essere e tempo. Parmenide, frammento 8: «L’Essere è ingenerato e imperituro, un intero nel suo insieme, immobile e senza fine. Né una volta era, né sarà, perché è ora insieme tutto quanto, uno, continuo». Se queste sono le parole che l’Eleate mette in bocca alla dea, viene allora rigettata la sapienza originaria riassunta nella frase di Pindaro secondo cui il tempo è padre di tutte le cose. Prima del parmenicidio, c’è il pindaricidio.
Il ragionamento dell’eleate sul tempo è il seguente: quando ci riferiamo al movimento noi utilizziamo nozioni come passato o futuro; queste vengono confrontate alla nozione di presenza, l’unica di cui si è stabilito che sia reale, mentre le altre due no. Pensare al passato e al futuro infatti significa pensare a ciò che non è: se solo l’essere è la presenza, quando pensiamo in senso temporale, cioè al passato e al futuro, noi ci contraddiciamo perché pensiamo l’essere insieme al non essere.
La frattura tra essere e tempo viene confermata dal discepolo Zenone il quale si incarica di mostrare, con una serie di paradossi, che il movimento è pura illusione. La conseguenza è che se non c’è divenire, non c’è tempo: ma il divenire non esiste e quindi il tempo non esiste, tutto è eterno. Dei tre paradossi più celebri (La dicotomia, Achille e la tartaruga, la freccia) esaminiamo l’ultimo. C’è una freccia che vola e che, in ogni punto percorso, è immobile in quanto, ad ogni dato punto, la freccia occupa uno spazio uguale alla sua grandezza. Quando questo accade, cioè in ogni istante, la freccia non può muoversi ed è dunque ferma. Se lo facesse, conclude Zenone, ricoprirebbe uno spazio maggiore e dunque essa non sarebbe più una freccia che occupa uno spazio. Sofisma? Logica spinta alle sue più radicali conclusioni? Come detto, il risultato è comunque la separazione tra essere e tempo: se qualcuno volesse porre l’identificazione dell’essere e del tempo, quel qualcuno finirebbe per porre il nulla nell’essere e l’essere nel nulla.
Aristotele il relazionista
La filosofia successiva si è incaricata il compito di ricucire questa frattura originaria e di porre fine all’idea dell’atemporalità dell’essere. Il primo a condurre il fuoco di fila contro gli eleati è Aristotele, il quale distingue tra gli argomenti di Zenone e quelli di Parmenide. Rispetto a Zenone, Aristotele sostiene che i suoi paradossi riposano sulla confusione tra il tempo e ciò che misura: se la relazione tra tempo e cambiamento non è di identità, resta tuttavia necessario stabilire una relazione tra la cosa misurata e i mezzi per misurarla. Il tempo cioè è un sistema astratto che cattura qualcosa di reale della natura senza essere parte di essa. Aristotele inaugura una posizione relazionista che considera il tempo come misura del movimento. Il ragionamento di Aristotele è che se tempo e cambiamento non sono la stessa cosa (come volevano gli Eleati), tuttavia si deve anche riconoscere che essi sono congiunti in modo inseparabile.
Tutti i paradossi di Zenone presuppongono premesse insostenibili. Rimanendo al terzo, quello della freccia, esso dipende dalla falsa premessa secondo cui, se il tempo non è mera illusione, deve essere composto da istanti. Ma questo non è vero per Aristotele: infatti un istante non ha durata e di conseguenza parlare di movimento in merito all’istante è un’incoerenza. In altre parole la confusione è qui determinata dal fatto che il cambiamento reale non è composto da unità infinite di cambiamento (cioè dagli istanti).
La confutazione dei paradossi di Zenone
Anche Bergson, per venire a tempi più recenti, confuta i paradossi di Zenone. Per rimanere al terzo caso, quello della freccia, il filosofo francese sostiene che quello che decide è il punto di vista nel quale ci collochiamo. Se infatti guardo la freccia dall’esterno, mi rendo conto che la freccia percorre uno spazio e che dunque, essendo lo spazio composto di punti, vi è per ogni punto una posizione in cui la freccia è immobile. Ma questa, spiega Bergson, è una ricostruzione artificiale del movimento mediante posizioni e immobilità. Noi dobbiamo piuttosto collocarci dentro la freccia. In questo caso diremmo che la freccia non è immobile in un punto perché punti non ve ne sono: mai, in alcun istante, essa non è mobile, perché non vi sono istanti. Zenone si colloca non dentro il tempo ma dentro lo spazio: così facendo ci sono solo posizioni con le conseguenti difficoltà logiche dovute al passaggio da una posizione all’altra. Se Aristotele aveva rimproverato a Zenone la confusione tra tempo e movimento, Bergson contesta all’eleate la confusione tra tempo e spazio.
In generale, per il filosofo francese, valgono due principi essenziali rispetto al tempo e che vale la pena sottolineare. Da una parte il modo in cui conosciamo: o dall’interno, per via semplice, o dall’esterno, per via di composizione. Il problema dice Bergson è che noi siamo abituati a conoscere dall’esterno sicché troviamo difficile rappresentarci la cosa dall’interno. Eppure è questa la cosa che avviene nel modo più naturale possibile: basti pensare al movimento che conosciamo nell’alzare il braccio. Dall’altra parte, Bergson aggiunge però una difficoltà di ordine maggiore: quella per cui il tempo non è esprimibile in concetti. Non rinchiudibile in rappresentazioni concettuali, la filosofia, proprio al suo debutto, si è trovata di fronte ad un problema insormontabile.
La mezza confutazione di Parmenide e la non soluzione di Sant’Agostino
Rimane però da confutare il venerando e terribile Parmenide. Aristotele da questo punto di vista non riesce ad andare a fondo. Egli è certamente d’accordo che l’uso dell’”ora” per riferirsi a più di un istante è problematico ma ritiene che il problema si possa risolvere distinguendo diversi tipi di cambiamento (sulla scia di Platone che, con il parricidio, aveva sostenuto che l’essere si può dire in molti modi): così ogni cambiamento inerisce sempre alla medesima sostanza. In altre parole, tutti i mutamenti che vengono in essere sono mutamenti di una sostanza precedente che rimane immutata (anche perché dopotutto, nulla può uscire dal nulla). Aristotele tuttavia non risponde alla domanda di Parmenide se il futuro e il passato siano reali oppure no.
Cosa che invece fa Sant’Agostino. Egli osserva che delle tre divisioni del tempo, due, passato e futuro, non sono; quella restante, il presente, ha invece una natura anfibia: se fosse sempre presente, diventerebbe eternità; ma, in quanto diventa subito passato, anche il presente è tempo, ovvero qualcosa che non è. Ma allora, se passato, presente e futuro non esistono, come si forma la nostra consapevolezza del tempo? Sant’Agostino risponde che il tempo esiste solo nella nostra mente. Il che però fa nascere una difficoltà: come possiamo avere i concetti di cui sopra se non ne abbiamo esperienza? Se anche fossero falsi, le idee devono comunque essere venute da qualche parte. Sant’Agostino però non spiega la loro origine. Da ciò la celebre conclusione: «Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so».
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Bravo molto interessante