Il rinnovato interesse intorno agli psichedelici si deve in prima istanza a una legittimazione scientifica che ha depotenziato le più intransigenti posizioni nei loro confronti e nei confronti delle droghe in generale. Ma quel che più interessa a una rivista di filosofia del così detto rinascimento psichedelico, è il dibattito che questo nuovo approccio apre e, soprattutto, le indagini intorno alla mente generate dall’utilizzo delle sostanze psichedeliche. Infatti, se non si liquidano ingenuamente come vaneggiamenti gli stati della mente raggiunti e raccontati da chi ha fatto uso di LSD, psilocibina o altre sostanze simili, queste dimensioni consentono di ragionare su aspetti interessanti come il rapporto fra l’io e il mondo, l’interno e l’esterno, il flusso e la staticità degli stati di coscienza.
Uno dei passaggi principali di questo rinascimento è senz’altro la pubblicazione, nel 2019, del volume How to change your mind di Michael Pollan (in Italia tradotto da Isabella Blum, per Adelphi, recentemente pubblicato dall’editore milanese in versione tascabile e diventato anche una micro-serie per Netflix). Il testo del giornalista americano, che nelle ultime settimane ha pubblicato un altro volume sul rapporto fra piante e mente (qui intervistato da Il Tascabile sulla nuova uscita, dove si parla moltissimo anche di Come cambiare la tua mente), ripercorre le più importanti tappe storiche relative alla scoperta e alla diffusione delle sostanze psichedeliche, ma si impegna anche a mostrare i più recenti sviluppi della ricerca medico-scientifica che riguardano gli acidi. Inoltre, a un grado di lettura più profonda, il libro affronta e rinverdisce alcuni temi filosofici da una prospettiva speculare, e per certi versi complementare, alla neuroscienza.
L’approccio dell’autore è critico, nel senso più filosofico del termine. Ciò è quanto più necessario, poiché gli psichedelici non godono certo di un’aura positiva e, come in generale tutte le discussioni intorno alle droghe, sono preventivamente bollati come elementi di evasione e trasgressione (come se questo, di per sé, fosse negativo e deprecabile). Pollan invece, con una scrittura precisa ma mai appesantita dal formalismo, mostra come gli acidi siano non solo una via d’accesso a parti sconosciute del nostro “io” ma anche un aiuto concreto per alcune patologie come le dipendenze, la depressione, o nei malati terminali.
Qual è, però, il punto più filosoficamente interessante? Senza dubbio il fatto che l’attuale ricerca clinica sugli acidi (il cui vero rinascimento è iniziato nel 2006, con l’articolo pubblicato da un gruppo di scienziati della John Hopkins University) parta da una premessa «secondo cui il fattore chiave che induce un cambiamento nella mente [dopo un’esperienza con un farmaco psichedelico] forse non è, di per se stesso, l’effetto farmacologico della sostanza, ma il tipo di esperienza mentale cui essa dà luogo, che comporta la temporanea dissoluzione dell’ego» (Pollan 2019, p. 23).
La dissoluzione dell’ego
Le ripercussioni degli psichedelici sulle vite delle persone, dunque, non sono conseguenti a “un segno” lasciato dal farmaco, bensì derivano dalla traccia aperta dall’esperienza mentale che si vive. Questa è riassumibile nella frantumazione dello schema binario all’interno del quale siamo da sempre installati (Io-Mondo; Soggetto-Oggetto), il che permette a chi ha vissuto un’esperienza psichedelica, da una parte di percepire una rifusione con la totalità, dall’altra di curvare in maniera decisiva la propria vita quotidiana ridefinendo le sue priorità.
Questa duplice conseguenza è ben tradotta da uno degli intervistati di Pollan, Richard Boothby, un professore di filosofia che si prestò come volontario per le ricerche della Hopkins, il quale dice: «Durante la mia seduta, quest’arte del rilassamento divenne essa stessa la base di un’immensa rivelazione, giacché all’improvviso mi apparve chiaro che qualcosa nello spirito di quel rilassamento – nel raggiungimento di un’apertura di spirito perfetta, fiduciosa e amorevole – è l’essenza stessa e lo scopo della vita. Il nostro compito nella vita consiste precisamente in una forma di abbandono della paura e delle aspettative, un tentativo di donarsi esclusivamente all’impatto del presente» (Pollan 2019, p. 82). Da questa testimonianza emerge inoltre un ulteriore fattore interessante: la definizione di una temporalità fluida e non spezzettata (quella che Bergson avrebbe chiamato Durata), ripulita dalla cadenza cronologica su cui la cultura occidentale si regola.
In altre parole, un trip (positivo) attraverso uno psichedelico, permette agli uomini di vivere un’esperienza mistica all’interno della quale le nostre strutture mentali abbandonano il canonico contegno. Scrive Pollan: «Somministrando sostanze psichedeliche in dosi meticolosamente calibrate, i neuroscienziati possono disturbare profondamente, in soggetti volontari, la normale coscienza in stato di veglia, inducendo la dissoluzione delle strutture del sé e dando luogo a quella che può essere descritta come un’esperienza mistica» (Pollan 2019, p. 16).
Le esperienze mistiche – il libro, a riguardo, è ricco di citazioni di un classico della filosofia su questo tema, ovvero Le varie forme dell’esperienza religiosa di William James – vissute da chi ha provato un farmaco psichedelico, sono consistenti e ragionevolmente reali. Il punto che ci interessa qui è che queste esperienze di dissoluzione dell’ego e di scomparsa della temporalità cronologica, sono anche concetti teorizzati da una considerevole parte della filosofia occidentale. Ricercare l’accesso a una nostra dimensione costituente, schiacciata invece dall’esterno da costrutti mentali e impostazioni culturali, una dimensione trascendentale (più di diritto che di fatto), non significa necessariamente votarsi a sette pseudo-religiose o imbarcarsi in percorsi emozionali. La filosofia, tramite l’uso della ragione (ovvero di quel dispositivo che sembra agli antipodi rispetto a questi approdi), si è spesa per la ricerca di quello spazio comune sopra al quale si è edificato ogni confine.
Filosofia e spiritualità
In particolare, nella storia della filosofia c’è chi ha pensato questa dimensione ab-soluta (sciolta) attraverso la ragione identificandola come un oggetto fuori di sé; e chi invece l’ha relegata a un ambito intangibile, spirituale, religioso e tutto interno al soggetto.
L’intersezione fra i due poli è, secondo chi scrive, il punto di vista più di rilievo, poiché si smarca dai tic e dalle forzature di entrambe le posizioni estreme, e al contempo rimane fedele all’ideale originario della filosofia per cui la verità si sente. Si fa riferimento alle posizioni convergenti, pur nella loro diversità, di Spinoza, di Schopenhauer, di Bergson (e incredibilmente anche di chi ha abbandonato la roccaforte del proprio io per mezzo degli psichedelici), ovvero di tutta quella filosofia che in ambito gnoseologico ha posto una differenza fra ragione e intelletto, collegando le attività di questo secondo alla corporeità.
L’esperienza spirituale, più largamente mistica, non è qui qualcosa di irraggiungibile o, nella migliore delle ipotesi, inspiegabile. Non è nemmeno sostenuta da un atto di fede, bensì è reale più di quanto ci si aspetti perché i conti con la realtà, come aveva capito James, non sono mai chiusi, ma in essa si disvela sempre qualcosa di più.
La distruzione di quelle che Blake ha chiamato «le porte della percezione», ovvero l’idea che è reale solo ciò che è esperito coscientemente, è il primo passo per oltrepassare il muro della doxa. Al contrario di quanto dice il pensiero comune e con esso buona parte della filosofia moderna, quella radicata sull’asse cartesiano-kantiano, percepire non è conoscere. Perché le nostre percezioni sono filtrate da un setaccio che ci impedisce di distribuire le forze (mentali e non) verso oggetti e azioni non utili. E anzi, ancora di più, «la mia percezione è al di fuori del mio corpo, mentre la mia affezione è in esso» come scriveva Bergson (Bergson 1996, p. 183). Noi non percepiamo ma siamo affetti da delle percezioni, il nostro corpo subisce delle affezioni e liberare la percezione dall’affezione è ciò che permette di cogliere la prima in maniera pura, estatica, in un’immagine.
Le esperienze descritte da chi ha fatto un uso consapevole e misurato dei farmaci psichedelici, descrivono l’abbattimento reale di barriere e vincoli, una fusione di tutto con tutto. Sono viaggi verso l’origine, verso «una parziale coincidenza con lo sforzo creatore» come avrebbe detto ancora una volta Bergson (Bergson 2017, p. 169).
Le neuroscienze confermano ciò che sappiamo e abbiamo intuito da anni: l’ego sorveglia se stesso attraverso una rete funzionale, una chiusura necessaria che sfoltisce ciò che lo circonda ed è molto più attratto dalla certezza che dall’incertezza. Il DMN (default mode network) è un direttore d’orchestra del nostro cervello che ha lo scopo di mantenere l’ordine nella ricezione e nelle risposte agli stimoli, nella creazione di proiezioni o costrutti mentali. Abbassare chimicamente questa barriera di difesa, o riconoscerne i suoi atti attraverso il pensiero critico, significa porsi in stati di coscienza straordinari: esperienze di «non dualità» (Pollan 2019, p. 319) dove, come ha scritto ancora Bergson nel suo capolavoro sull’esperienza mistica come termine ultimo del fare filosofia, «non vi è più distanza fra il pensiero e l’oggetto del pensiero, poiché i problemi che misuravano e persino costituivano questo salto sono caduti. Non c’è più separazione fra chi ama e chi è amato» (Bergson 2017, p. 177).
La vita e la morte
Tutte le esperienze significative – a gradi diversi – riflettono e si consolidano su ciò che viene dopo di loro, e come scrive Pollan: «Qui, io credo, sta il grande valore dell’esplorazione di stati di coscienza non ordinari: nella luce che essi gettano su quelli ordinari, che non sembrano più tali, né così trasparenti» (Pollan 2019, p. 418).
Questo è vero nella misura in cui queste esperienze non siano ignorate o, peggio ancora, accantonate in una nicchia («l’anima del grande mistico non si ferma all’estasi come al termine di un viaggio», scrive Bergson ne Le due fonti della morale e della religione, p. 177). Perché se è vero che, come ha spiegato Spinoza, il vero filosofo pensa alla vita e non alla morte, il terrore di questa è quanto di più umanamente riscontrabile. Ma se «lo iato tra il sé e il mondo, quella terra di nessuno che di consueto l’ego pattuglia con tanta attenzione, ora si schiude facendoci sentire meno separati e più connessi» allora sembra «che proprio nel crogiolo di quella fusione la morte perda, in parte, la capacità di tormentarci» (Pollan 2019, 303).
Possiamo ragionevolmente dire che filosofare sia questo, ovvero ricercare in modo costante lo spazio in cui il pensiero si fa universale e l’universale ci appare vicino, talmente vicino da essere noi stessi parte dell’universalità. Un noi stessi che sparisce contestualmente alla diminuzione della carica di terrore portata dalla morte. Non è un caso che nella recente intervista a Il Tascabile, Pollan alla domanda su quale argomento stia lavorando per il prossimo libro risponde: «Sto lavorando a un libro sulla coscienza. Sto cercando di entrare dentro questo argomento davvero complicato, la scienza e la filosofia della coscienza. È qualcosa a cui mi hanno fatto pensare gli psichedelici: spesso un libro conduce al successivo». Tutto il capitolo 6 di Come cambiare la tua mente è la dimostrazione di come queste esperienze indotte dai psichedelici siano di sollievo a malati terminali che, dopo aver sentito una comunione col tutto, vivono con maggiore serenità il loro essere accompagnati al fine vita.
E se in questo caso, forse, l’autenticità di queste esperienze è un problema relativo, in filosofia ci riguarda eccome. In mezzo a tutto il buio, in un mondo che ci sembra irrimediabilmente distante, la filosofia ci riporta – anche solo per qualche momento – al di sotto del conflitto, là dove tutto è attraversato dallo stesso filo e sentiamo e sperimentiamo di essere eterni.
Riferimenti bibliografici
- Pollan, Michael. 2019. Come cambiare la tua mente. Milano: Adelphi (trad. it. Isabella Blum)
- Bergson, Henri. 1996. Materia e memoria. Roma-Bari: Laterza (trad. it. Adriano Pessina)
- Bergson, Henri. 2017. Le due fonti della morale e della religione. Milano: SE (trad. it. Mario Vinciguerra)
–
Photo by Giorgio Trovato on Unsplash
Caro Saverio, pienamente d’accordo con te. Avresti potuto integrare il tuo testo con quanto le neuroscienze hanno potuto constatare che l’attività cerebrale diminuisce con l’assunzione di psichedelici benché aumenti l’intensità dell’esperienza della coscienza. Ragion per cui, la dissoluzione della barriere “egoica” (o della narrazione del sé) fa sì che la Mente estesa, o cosmica (in termini spirituali, divina) penetra in assenza della porta dell’ego. L’ego non c’è più, o non controlla più, per cui l’esperienza della coscienza non è più mediata/ristretta alla sfera dell’ego ma è “immersa” tutt’uno con la Mente cosmica. Sono Dio senza che l’io sia Dio.