Prima di intraprendere la caccia della sapienza, Cusano premette un lungo ragionamento in cui esprime i principi metodologici della ricerca. Essi sono fondamentalmente due: il primo è quello per cui la verità si accorda con la verità; il secondo, ancora più importante, è quello secondo cui ciò che è impossibile che sia fatto non viene fatto. Solo dopo essersi rivolto a questa proposizione, dice Cusano, egli ha potuto svolgere l’esame dei campi della sapienza, il primo dei quali è la dotta ignoranza. La formula chiave per comprendere il principio della dotta ignoranza è semplice quanto paradossale: comprendere l’incomprensibile in modo incomprensibile. L’Assoluto (o il Tutto o l’infinito o Dio, a seconda del termine che si preferisce) si può raggiungere senza conoscere i percorsi che conducono alla mèta. Sembra una massima bizzarra: come si può infatti comprendere qualcosa senza sapere di saperla? Sarebbe come dire che la conoscenza si ha nel momento in cui l’uomo sospende la sua capacità razionale. È vero che il principio è avvicinabile al socratico so di non sapere: ma in quel caso il non sapere è un fondamento etico e gnoseologico; in questo il fondamento è parte di una costruzione ontologica che si rivolge direttamente alla comprensione del Tutto. Si deve forse dire allora che la conoscenza è lasciata alla mistica? Non è un caso che il principio in esame fu soggetto a feroce critica dal principale avversario di Cusano, Johannes Wenck. Questi rimproverava il Cardinale che comprendere l’incomprensibile in modo incomprensibile significava comprendere l’Assoluto in modo non razionale e assimilava il suo pensiero alla dottrina di Eckhart per il quale «l’uomo deve spogliarsi e denudarsi dell’immagine di ogni creatura: allora tutto il suo esistere, vivere, conoscere e amare Dio, è in Dio e Dio».
Il rapporto tra finito ed infinito fondamento della dotta ignoranza
In realtà, quella che sembra essere all’apparenza una massima non filosofica si rivela essere un’affermazione logicamente e saldamente fondata. E questo, detto per inciso, non potrebbe essere altrimenti perché l’intelletto, osserva Cusano, è dotato della logica, lo strumento più adatto per andare a caccia del vero. Al fine di comprendere dunque l’affermazione secondo cui l’incomprensibile si conosce solo in modo incomprensibile (o, detto altrimenti, che l’assoluto si conosce solo in modo assoluto) bisogna partire dal principio secondo cui tra finito ed infinito non esiste proporzione. Questo significa prendere consapevolezza che nell’ambito del finito la conoscenza si realizza soltanto attraverso un processo di comparazione con qualcosa che viene presupposto come certo. Se io devo trovare una strada che non conosco, posso farlo solo perché conosco altre strade che per analogia mi ci conducono. Tutto il processo conoscitivo è caratterizzato dalla similitudine, grazie alla quale io riesco a passare, secondo la logica del più e del meno, dal noto all’ignoto. Un altro esempio può meglio illustrare la cosa ed è tratto da una discussione (per niente ipotetica) con un individuo in possesso di una coscienza particolarmente acuta della propria finitudine. Tale individuo insisteva in due affermazioni tra loro strettamente collegate: la prima che non possiamo andare fuori dal nostro intelletto e quindi abbiamo sempre una coscienza limitata del tutto che ci circonda; la seconda che fuori da questo intelletto esiste una mente, o un qualcosa altrimenti detto, che governa il tutto e da cui siamo dipendenti. Una cosa che questa persona ripeteva spesso era l’incapacità della mente umana di spingersi oltre il limite ad essa assegnato da lei stessa o dal mondo circostante. Questo individuo tuttavia non teneva conto del fatto che, nel momento in cui viene fissato un limite, si stabilisce implicitamente qualcosa che sia maggiore del limite, in un processo che andrà avanti all’infinito perché si avrà sempre nella mente l’idea di qualcosa di maggiore da oltrepassare (o da non oltrepassare in questo caso). Il limite, in altre parole, presuppone sempre uno spazio al di là del quale il pensiero si estende in maniera infinita. Di conseguenza, l’incomprensibile non è comprensibile con la conoscenza di cui facciamo normalmente uso per spiegare i fenomeni finiti ma è necessario ricorrere ad un tipo di conoscenza che abbia la capacità di pensare l’infinito.
La natura del massimo e il giudizio
Per questo motivo, dice Cusano, bisogna esaminare la natura della massimità, ovvero ciò di cui nulla può essere maggiore. Si tratta di un principio (il massimo) nei confronti del quale nemmeno la persona che teorizza il non poter andare oltre la sua mente non può non convenire. E anche qui ritorna il principio della dotta ignoranza secondo cui il massimo può essere colto solo in maniera incomprensibile. Questo è vero anche perché esso è al di sopra di ogni affermazione o negazione: per affermare o negare è cioè necessario tenere sullo sfondo la consapevolezza che il giudizio è possibile soltanto grazie a ciò su cui il giudizio stesso non è esercitabile. Comprensibile, in altre parole, è la condizione che permette il giudizio di comprensibilità, non la natura del giudizio. Questa incomprensibilità non va scambiata con l’affermazione secondo cui il giudizio non si costituisce (affermazione per sua natura nichilistica). Per poter giudicare di tutti i colori, il senso della vista non è in alcun modo colorato; ma il fatto che la vista non sia colorata, non esclude che essa possa vedere e distinguere tutta la serie dei colori.
L’intelletto cerca la conoscenza per natura
Uno potrebbe domandare: perché l’uomo ricerca ciò che supera ogni sua capacità di comprensione? La risposta risiede in un principio talmente evidente da poter esser definito assiomatico: perché gli uomini desiderano spingersi nella conoscenza fintanto che non ne siano appagati. Ma siccome la conoscenza, per sua natura, non si conclude con l’appagamento, l’uomo è spinto continuamente alla conoscenza. Per comprendere ciò, Cusano offre un’analogia con la natura dell’amore. Il cardinale osserva che «l’amante infatti non proverebbe mai tanta gioia quanta quella che egli prova quando constata che l’amabilità dell’amato è del tutto non misurabile, non finibile, non terminabile e incomprensibile. Questa comprensibilità dell’incomprensibilità è la comprensibilità assolutamente più gioiosa». La sapienza è quindi al di sopra di ogni conoscenza, essa è inconoscibile, e non può essere espressa con nessun discorso. L’unica cosa che si può dire è che la sapienza ha sapore e non c’è nulla per l’intelletto che sia più dolce di lei: sapientia est, quae sapit. La sapienza, dice l’idiota, è la vita spirituale dell’intelletto il quale ne ha una pregustazione innata, altrimenti non potrebbe né cercarla né trovarla: somma sapienza consiste nel sapere in che modo l’inattingibile viene attinto in modo inattingibile. Nel dialogo De Sapientia, Cusano fa riferimento a tre esempi. Osservando gli uomini nella piazza del mercato egli nota che le loro operazioni fondamentali sono quelle del contare (i soldi), del pesare (la merce) e del misurare in generale. Tutte queste operazioni avvengono mediante distinzioni la quali si realizzano attraverso il numero il quale, a sua volta, dipende dal concetto di uno. Ecco allora la chiave per comprendere il ragionamento: tutto ciò che è numerabile (e così pesabile e misurabile) non si può comprendere attraverso il numero, il quale serve solo ad un’opera di contabilizzazione. Tutto ciò che è comprensibile lo si deve soltanto al principio dell’unità, dal quale tutto dipende, e che non è attingibile dall’intelletto (altrimenti si innescherebbe la dinamica del limite descritta sopra, in quanto comprendere è determinare, cioè fissare entro un limite).
Il principio di privazione non visto da Aristotele
Di tutto quello che si è detto del massimo si deve dire anche del suo opposto, cioè del minimo: questo significa che entrambi hanno la medesima natura e quindi coincidono. Il principio di non contraddizione aristotelico, sostiene Cusano, è funzionale alla ricerca discorsiva ma non alla visione intuitiva, unica capace di cogliere l’assoluto. La cosa da sottolineare è che il metodo della coincidenza degli opposti è utilizzabile anche per quanto riguarda il sapere matematico, la comprensione delle realtà naturali e per valutare il pensiero dei grandi filosofi. Si tratta cioè di un principio euristico che contiene applicazioni prima impensabili. Nel De Beryllo, opera che chiarisce molti aspetti della dotta ignoranza, Cusano sostiene che Aristotele, proprio perché riteneva che non fosse possibile che i contrari coincidessero, non seppe giungere alla corretta comprensione del terzo principio che si aggiunge ai due tradizionali di materia e forma: il principio della privazione. Dal momento che materia e forma si escludono l’una con l’altra, Aristotele non ha ritenuto che i principi opposti potessero coincidere in un terzo principio. In realtà tale principio serve come nesso nel quale gli opposti coesistono prima di separarsi, principio dinamico della connessione dell’uno e dell’altro. In questo modo il metodo della coincidenza degli opposti viene utilizzato non solo nella metafisica ma anche nella fisica per la comprensione delle realtà naturali: in ogni cosa della natura è presente il principio contrario. Aristotele avrebbe visto bene, dice Cusano, se avesse inteso quel principio (che egli chiama privazione) come quello che pone la coincidenza dei contrari e che pertanto è privo della contrarietà dei due contrari. Il timore però che i contrari inerissero al medesimo soggetto gli ha fatto sfuggire la verità e, pur vedendo che un terzo principio era necessario, egli fece della privazione un principio senza posizione. Cusano invece insiste nel sottolineare l’esistenza di un vincolo strutturale e organico tra forma e materia grazie al quale vi è nella materia qualcosa della forma che le permette di appetirla e desiderarla (e viceversa). Tale dottrina, il cui padre è Alberto Magno, sarà ripresa e sviluppata da Giordano Bruno per il quale «profonda magia è saper trarre il contrario dopo aver trovato il punto dell’unione»; Aristotele invece, non riuscendo a fare ciò («fermando il piè nel geno dell’opposizione»), non seppe raggiungere l’obiettivo sostenendo che i due contrari non possono convenire nel medesimo soggetto. La vera sapienza doveva così essere occultata da quella che era in realtà solo un simulacro della sapienza.