Con il presente lavoro intendiamo fare emergere quella prospettiva filosofica che, a differenza di quanto ordinariamente si pensa, consenta di evidenziare come fede e ragione si costituiscano fondandosi l’una sull’altra. La fede, nel senso del suo strutturarsi in virtù di una vocazione intrinsecamente razionale; la ragione, nel senso del suo costituirsi come intenzione che si affida alla verità confidando in essa.
1.- L’intenzione di verità
Per argomentare a favore del valore di fondamento che la fede riveste nei confronti della ragione, partiamo dal seguente punto: quando ciascuno di noi configura un pensiero, la sua intenzione è quella di formulare un pensiero che non sia valido solo per chi lo formula, dunque la sua intenzione è di formulare un pensiero universale, vero in sé.
Se non che, la certezza che il mio pensiero non sia solo mio, ma sia effettivamente universale, si deve misurare con questa alternativa: aut la certezza è ancora soltanto mia, così che io credo che sia un pensiero universale, ma non l’ho ancora dimostrato, aut sono in grado di dimostrarlo innegabilmente, irrefragabilmente.
Nel primo caso, la certezza coincide con la fede e la fede è, però, una fede inconsapevole: è un credere di sapere ignorando di credere. Nel secondo caso, invece, ho dimostrato che la certezza non è solo mia, ma deve venire condivisa da chiunque pensi e, pensando, segua un procedimento logico.
Tuttavia, è proprio a questo punto che il problema si ripropone e sorge la seconda domanda: quando potremo considerare un procedimento effettivamente logico e una dimostrazione autenticamente innegabile? In altri termini: quando riusciremo a dimostrare il valore innegabile di una dimostrazione, senza fare ricorso a premesse, le quali, in quanto tali, vengono semplicemente presupposte, dunque assunte fideisticamente?
2.- Il nesso logico
Una dimostrazione è un procedimento logico che muove da premesse e perviene a una conclusione. Il nesso che vincola le premesse alla conclusione deve essere necessario: solo così la procedura è effettivamente logica.
Ebbene, ciò che deve venire evidenziato è, da un lato, che le premesse, proprio in quanto tali, sono estranee alla dimostrazione che su di esse si fonda, nel senso che esse vengono semplicemente accettate come punto di partenza (assunte), dunque ad esse si aderisce per fede. Si accetta, insomma, che siano vere senza discuterle, ma, qualora esse non fossero vere, la conclusione che verrebbe tratta da esse sarebbe necessariamente falsa, se la dimostrazione fosse autentica.
D’altro lato, anche il nesso che vincola le premesse alla conclusione risulta problematico. Tale nesso viene definito dai logici “relazione di conseguenza logica” e deve valere come necessario, per la ragione che, posto l’antecedente (A), il conseguente (B) non può non derivare da esso. Dire che il nesso è necessario equivale a dire che è intrinseco: appartiene alla struttura intrinseca di A il suo necessario riferirsi a B. Ma proprio qui sorge il problema. Se il porsi di A implica necessariamente il porsi di B, come si potrà continuare a distinguere l’uno dall’altro?
Questo status problematico, definito dai logici “paradosso della deduzione”, può venire espresso anche così: se il nesso è intrinseco, allora la posizione del conseguente entra nella costituzione dell’antecedente e la loro distinzione è una mera astrazione. Si considerano, cioè, due entità (A e B), ma in verità l’entità è unica, almeno dal punto di vista logico, e non può venire definita né A né B, sì che la deduzione si rivela una mera tautologia. Da ciò consegue che, a rigore, non si può più parlare di nesso o di relazione di conseguenza logica, perché vengono meno i due termini che devono venire congiunti. Essi, infatti, sono così congiunti che costituiscono un’unità, la quale, essendo compatta, non prevede nessi al suo interno.
D’altra parte, se si volesse mantenere la rappresentazione di un nesso che si dispone tra i due termini, come indica la forma della deduzione, allora il nesso varrebbe come medio, che i logici definivano quid medium, e diventerebbe un nuovo termine (C). In questo caso, la conseguenza sarebbe che tanto A quanto B dovrebbero instaurare con C due nuove relazioni, riproducendo l’aporia detta del “terzo uomo”, che già Platone ha indicato nel Parmenide e Aristotele ha codificato nella Metafisica. Se, insomma, il nesso logico vale come medio, allora le relazioni si moltiplicano all’infinito e si perde la possibilità di una procedura autentica.
Già da queste considerazioni emerge che la ragione intenderebbe pervenire all’evidenza logica, ma, anche quando crede di ravvisarla in una dimostrazione, tale evidenza va ricondotta alla presunta verità delle premesse o all’assunzione acritica del nesso con cui si passa da esse alla conclusione. La ragione, dunque, tende alla verità, ma, quando ritiene di averla trovata, scopre che è la fede a convincerla, non la verità stessa.
3.- Il principio di non contraddizione
Per completare il discorso intorno alla dimostrazione, facciamo notare un altro aspetto. Lo stesso principio di non contraddizione, che vale come principio e fondamento di ogni dimostrazione, mantiene un carattere problematico.
Aristotele lo dichiara “firmissimum (bebaiotate arché)” nel IV libro della Metafisica e lo contrappone alla dimostrazione deduttiva. Il principio, afferma lo Stagirita, non può venire dimostrato per via deduttiva: se fosse risultato di una dimostrazione, non potrebbe valere come principio. Di esso, pertanto, si deve dare una dimostrazione per via confutatoria, cioè mediante elenchos: mediante la negazione della sua negazione. Chi pretende di negare il principio di non contraddizione si trova in questa situazione: se lo nega mediante un discorso incontraddittorio, allora lo riafferma; se lo nega mediante un discorso contraddittorio, allora nega ciò che afferma, dice e nega ciò che dice, dunque è come se tacesse.
Il principio di non contraddizione sembra così emergere innegabilmente dalla sua tentata negazione, negazione che si rivela contraddittoria. Questa è la dimostrazione di Aristotele, la quale viene considerata anche da Emanuele Severino una dimostrazione inconfutabile. Gli stessi logici fanno poggiare sul principio di non contraddizione tutta l’impalcatura logico-formale. Ciò che vorremmo far osservare è che, nella dimostrazione confutatoria di Aristotele, ripresa con entusiasmo da Severino, la dimostrazione del principio, cioè della verità, emerge a condizione che si ponga la sua pretesa negazione: senza la negazione del principio non emerge la sua verità.
Se si tiene conto di ciò e lo si porta alle estreme conseguenze, allora non si potrà non rilevare che, senza la posizione del falso (la negazione del principio, dunque la contraddizione), il vero (il principio, l’incontraddittorio) non potrebbe mai porsi. O anche: se il principio si pone in virtù della negazione (il “non” che compare nel principio di non contraddizione) e la negazione vale come determinata solo in forza della posizione della contraddizione (se la contraddizione non fosse, la negazione sarebbe negazione di nulla, nulla come negazione), allora la posizione del principio postula la posizione della contraddizione.
Sorge, allora, la domanda: è veramente autentico quel vero che necessita del falso per porsi? E ancora: la verità, che si pone in relazione e in contrapposizione al falso, non è segnata forse da tale relazione e vincolata a ciò che vorrebbe necessariamente escludere?
4.- L’affidarsi confidando
Come si vede, per quanto la ragione voglia porsi a prescindere dalla fede, ogni volta che essa pretende di affermare qualcosa come verità indiscutibile, assoluta, essa si affida al proprio presumere di essere pervenuta alla verità: ogni volta che si pretende di sapere e si va oltre il “so di non sapere” socratico, si crede di sapere, ignorando di credere. Si crede di sapere credendo che non sia la fede a fondare il sapere.
La ragione perviene così alla consapevolezza del proprio limite costitutivo. Tale limite coincide con l’impossibilità di configurare la verità in forma determinata o finita. Se, infatti, la verità venisse “determinata”, essa sarebbe determinata da altro da sé, cioè dalla “non verità”. Questo significa che la verità è bensì innegabile, ma non è determinabile. Questa stessa affermazione non configura la determinazione della verità, ma la determinazione dell’impossibilità di determinarla.
L’esito del discorso svolto non può non significare che alla verità, di per sé innegabile – negare la verità equivale ad assumere come verità la negazione –, ci si può solo affidare, confidando che sia la verità stessa a guidare la ricerca che ad essa si volge (si affida). In questo senso, la fede configura il compimento ideale della ragione, là dove idealmente la ragione intende essere uno con la verità, eliminando ogni distanza da essa. Tale unità non può valere come un fatto, una determinazione, ma solo l’essenza dell’intenzione: essere uno con la verità.
Affidarsi alla verità, confidando in essa, equivale dunque a ricercare senza porre al centro il soggetto che cerca (la ragione), ma il fine cui ci si volge (la verità), la quale, in quanto autentica, non può non essere ab-soluta, ossia svincolata da ogni vincolo, da ogni relazione, e pertanto inaccessibile.
5.- Il fondamento razionale della fede
Per converso, è da rilevare che la stessa fede, allorché esibisce la pretesa di porsi a prescindere dalla ragione, si trova nella situazione di presupporre sé stessa, senza la possibilità di riconoscersi come fede e di definirsi effettivamente tale.
Affermando la struttura intrinsecamente razionale della fede, pertanto, ci proponiamo l’intento di mettere in evidenza questo aspetto, che giudichiamo fondamentale: allorché si crede, si intende che ciò in cui si crede sia vero e sia vero in sé, cioè sia vero non perché oggetto della fede. Che è quanto dire: nella fede si intende – e questa è la sua struttura razionale – la verità o, più precisamente, si intende che sia la verità intrinseca dell’oggetto in cui si crede a fondare la fede stessa.
Non si intende certo che sia la fede a creare la verità dell’oggetto creduto, poiché, in questo caso, avrebbe ragione Feuerbach ad affermare che Dio è il prodotto della fede degli uomini. La fondazione della fede, pertanto, non può appartenerle, come se fosse possibile una sua autolegittimazione (sola fides), ma deve valere come il suo fondarsi sulla verità. E l’intenzione di fondarsi sulla verità costituisce il proprium della ragione, per quel tanto che “ragione” è consapevole ricerca della propria essenza più pura, coscienza che vuole sapere e sapersi veramente. La ricerca di verità è ragione, per quel tanto che solo la ragione intende il senso di questa ricerca e può usare consapevolmente l’espressione “verità”, il cui significato, peraltro, non è mai definito, ma sempre “da definirsi”. È mediante la ragione, inoltre, che si perviene a sapere cosa sia effettivamente “credere” e dunque è possibile affermare di credere veramente, sapendo discernere la vera fede dalla sciocca credulità, la fede eroica dalla fede superstiziosa e credula.
6.- Per concludere
Se, dunque la ragione non può non affidarsi alla verità per venire adeguatamente illuminata da essa – e, nell’affidarsi, la ragione confida –, altrettanto la fede non può non intendere – e questo “intendere” è ragione, intenzione razionale di verità – che sia vero il suo oggetto, affinché sia la verità stessa a porla e a legittimarla come fede.
Fede e ragione sono così due momenti coessenziali dello spirito, che non possono venire considerati in forma autonoma: in questo caso, verrebbero assolutizzati e cesserebbero di valere, entrambi, come funzione che si orienta al valore, cioè come mezzi che hanno per fine l’unica verità.
L’assolutizzazione si compie, infatti, solo allorché si perde di vista l’assoluto, il quale soltanto è in grado di de-assolutizzare quel relativo che pretenderebbe di sostituirsi ad esso.
Aldo Stella
Riferimenti bibliografici
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A. Stella, M. Fantinelli, Intentio dei. Lo slancio verso l’infinito, Armando, Roma 2014.
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Splendido articolo, ottimo.
roberto fiaschi