Nella prima parte della nostra trattazione, abbiamo cercato di evidenziare che la fede esprime una vocazione intrinsecamente razionale. Tale vocazione si esprime nell’intendere che sia vero l’oggetto creduto.
Ciò ha messo in luce un problema: se la verità dell’oggetto creduto è dimostrata razionalmente, quale spazio rimane alla fede?
Nella seconda parte della trattazione abbiamo cercato di evidenziare che, qualora la ragione pretendesse di determinare la verità, contraddirebbe sé stessa, dal momento che è la stessa ragione che richiede la verità come assoluta: solo se libera da vincoli estrinseci, essa è verità autentica.
De-terminare, invece, è riferire ad altro, giacché implica circoscrivere con un limite, de-limitare, così che la verità, in quanto determinata, viene subordinata a ciò che è altro da essa.
Ebbene, a nostro giudizio proprio l’impossibilità di determinare la verità configura lo spazio della fede. Cercheremo ora di delineare tale spazio.
Per farlo, proviamo a ripensare il rapporto tra la verità, intesa come assoluta, e Dio, che è il nome che si dà al supremo oggetto della fede.
Come abbiamo cercato di dire – ma giova ripeterlo –, a noi sembra che chi crede non può accontentarsi di fondare la verità di Dio sulla propria fede: nessun credente accetterebbe di dire che “Dio è vero perché io credo sia tale”.
Di contro, abbiamo cercato di mostrare come chi crede vorrebbe fondare la propria fede proprio sull’intrinseca verità di Dio e dire “credo in Dio perché è vero”.
Se non che, è la stessa ragione che perviene alla consapevolezza che della verità nulla si può dire, se non che essa c’è ed è assoluta.
A muovere da tale consapevolezza è possibile battere almeno due strade.
Una strada implica che, per determinare la verità, la fede sceglie di uscire dall’ambito strettamente razionale e decide di rivolgersi ai fatti, all’esperienza, in modo tale che il fatto viene così considerato la manifestazione visibile dell’invisibile o, meglio, viene creduto tale.
Viene creduto tale nonostante Cristo stesso abbia detto: «Perché mi hai veduto, Tommaso, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20, 29).
Ogni religione positiva diventa “fede in” un fatto che si è direttamente osservato o che è stato osservato da altri.
Tuttavia, non si può non rilevare quanto segue: che quel fatto sia effettivamente la manifestazione della verità non soltanto è un atto di fede, e di una fede credula, ma più radicalmente è un atto contro la ragione, la quale sa che l’assoluto non può manifestarsi.
Se si manifestasse, infatti, si manifesterebbe a qualcosa di diverso da sé e cesserebbe di essere assoluto. Inoltre, sempre se si manifestasse, accetterebbe una relazione che lo vincola alla sua manifestazione e, per ciò stesso, cesserebbe di essere ab-solutum, cioè “sciolto” da ogni relazione, da ogni vincolo ad altro.
La seconda strada, invece, coincide con l’assumere pienamente il problema di fondo, che riguarda primariamente la stessa ragione: come instaurare una qualche forma di rapporto con la verità assoluta?
Orbene, l’autentico spazio della fede si dischiude proprio a muovere da questa domanda.
Essa, infatti, consente il realizzarsi di un capitale capovolgimento: nel momento in cui la ragione rinuncia alla pretesa di inglobare la verità, deve necessariamente far ricorso alla fede, ma ad una fede che non può essere credula, bensì deve essere eroica: una fede che non si appoggia a fatti, ma che si fonda sull’affidarsi confidando.
Chi cerca la verità – e la verità non può non essere assoluta, perché solo essa è autentica verità (giacché è autonoma e autosufficiente) – non può pretendere di fondare la ricerca sui propri mezzi, che sono sempre limitati e relativi. Come potrebbe, infatti, un tale soggetto con tali mezzi scoprire la verità autentica?
Il soggetto consapevole dei propri limiti non può non intendere di fondare la ricerca della verità sulla verità stessa, perché perviene a sapere che, se riconosce il proprio mancare della verità (il “so di non sapere” di Socrate), ciò attesta che è stato illuminato dalla verità medesima: è in virtù della verità che si sa di mancare di essa.
“Consolati: tu non mi cercheresti, se non mi avessi trovato”, scrive Pascal nei suoi Pensieri (trad. it., p. 439), ponendosi dal punto di vista di Dio (della verità assoluta), che si rivolge a chi lo cerca.
Quanto detto mette capo alla seguente conclusione: se la fede richiede di fondarsi sulla ragione, per converso la ragione non può non affidarsi alla verità, confidando che sia la verità stessa a guidare la ricerca.
Forse questo è il senso più autentico di quella splendida immagine che compare nel Prologo della Lettera Enciclica Fides et Ratio: l’animo umano è come una colomba che, per elevarsi a contemplare la verità, ha bisogno di entrambe le sue ali, sia l’ala delle fede sia l’ala della ragione.
Riferimenti bibliografici
Pascal, B. Pensieri, trad. it. di P. Serini, Mondadori, Milano 19802.
Precedenti articoli di questa serie già pubblicati
— Che bisogno abbiamo della fede? (I) (13 ottobre 2024)
— Fede e ragione (II) (10 novembre 2024)
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