Enricopedia, un bastardo per la gloria

La seconda tetralogia di Shakespeare si presenta come un tutto coerente in cui le due parti intitolate a Enrico IV sono in realtà centrate sul figlio, il principe Hal, futuro Enrico V. Non esistono partizioni precise, rigide, definitive entro le quali classificare i personaggi, gli eventi e le loro cause. Le stesse informazioni che ci dà il filosofo e drammaturgo inglese sono come avvolte da una nebbia, spesso sospese nel mare della disinformazione. Non è un caso che il soggetto che apre la seconda parte dell’Enrico IV è Rumour, il pettegolezzo «Aprite le orecchie, perché chi di voi tapperà le vie dell’udito, quando il pettegolezzo parla forte? (…) Sulle mie lingue continuamente viaggiano calunnie, che vado ripetendo in ogni idioma rimpinzando le orecchie umane di false notizie». Il pettegolezzo racconta le vicende della storia e non esistono messaggeri che non siano da lui informati. In questo contesto di fake news, che è poi quello ordinario della politica, vengono messi in scena i problemi della legittimità, dell’etica, della competenza a governare. 

Educazione politica e ragion di Stato
Un filone specifico da questo punto di vista è «l’educazione al potere – più precisamente – la sistematica formazione personale di un uomo, il cui ruolo sociale predeterminato è quello di appartenere alla classe politica per la quale è previsto l’esercizio del potere sugli uomini» (Krippendorff, 2009). Shakespeare racconta le vicende del passato dissoluto del principe Hal, dedito alle taverne, agli scherzi e alla compagnia di personaggi di basso rango. Si tratta però di una storia completamente inventata rispetto ai reali accadimenti storici e il fatto che Shakespeare l’abbia raccontata va dunque spiegato.

In questo senso il passaggio chiave sembra essere posto al centro del dramma quando il  re Enrico IV, con un lunghissimo monologo, redarguisce il figlio in merito alle sue cattive compagnie e gli ricorda che lui è giunto al potere fingendosi umile, cercato dalla pubblica opinione (di cui è sempre necessario tenere conto), facendosi vedere poco perché il nascondimento è una delle prime virtù politiche.

Noi sappiamo però che l’accorto principe era già a conoscenza di tutto ciò. Nelle battute iniziali del dramma, proprio durante una delle sue scorribande con i compagni di burle, il principe Hal aveva infatti esclamato (con la tecnica della rottura della quarta parete): «Io vi conosco tutti, e per un poco terrò mano alle scatenate inclinazioni della vostra irresponsabilità. D’ora innanzi imiterò il sole, che permette alle nubi basse e infette di soffocare la sua bellezza e di sottrarla al mondo, ma quando gli piaccia di nuovo essere se stesso, desiderato qual’è, suscita ancora meraviglia, irrompendo attraverso le perfide e fetide nebbie che sembravano eclissarlo. (…) Così quando di questa condotta sregolata io mi spoglierò, e pagherò un debito che non ho mai contratto, di tanto superiore sarò alla mia parola di quanto io smentirò le aspettative della gente. (…) Peccherò al punto di fare del peccato un’arte, riscattando il tempo perduto quando meno se lo aspetteranno». (1 Enrico IV, I.III). 

L’intera vicenda del principe Hal sembra ripercorrere la storia di Giunio Bruto narrata da Machiavelli in Discorsi III.2. Il fondatore della repubblica romana, di cui fu primo console dopo la cacciata di Tarquinio Superbo, fu considerato prudente e savio proprio per aver simulato la sua follia. «Considerato il suo modo di procedere, si può credere che simulasse la pazzia per non esser tenuto sotto controllo e avere più comodità di opprimere i re e liberare la sua patria ogni volta gliene fosse data occasione (…) Dall’esempio di costui hanno ad imparare tutti coloro che sono male contenti d’uno principe». In entrambi i casi, simulazioni diverse permettono ai protagonisti di ottenere il medesimo risultato. In fondo era stato così anche per il padre Enrico IV che aveva utilizzato lo stesso metodo per sottrarre il potere a Riccardo II. 

Della simulazione del principe Hal non si accorge nemmeno il panciuto Falstaff, suo acuto e geniale amico, che pure lo aveva definito (scherzosamente ma fino a un certo punto) «un figlio bastardo del re, un figlio di puttana impastato di maestà» (2 Enrico IV, II.IV). È stato detto che la loro relazione ricorda quella tra Socrate e Alcibiade o quella tra Aristotele e Alessandro Magno (Bloom, 2009), ma il rapporto tra i due è giocato continuamente sul registro dello scherzo e dell’insulto. Il punto fondamentale da sottolineare tuttavia è che Falstaff fallisce completamente nell’educazione del principe in quanto la sua anarchia individualista è incompatibile con la ragion di Stato, a cui il suo amico si stava segretamente preparando. La ragion di Stato finisce così per avere la meglio sull’umanità, così come viene spiegato in altri due episodi. Il primo quando il principe Hal sottrae la corona al padre che, disteso sul letto di morte, l’aveva appoggiata temporaneamente sul comodino, prima ancora che egli abbia esalato l’ultimo respiro. Il secondo durante la sua incoronazione quando Falstaff si aspetta un cenno d’intesa e di complicità dal nuovo sovrano: questi però ripudia pubblicamente l’amico di tante scorribande che, da quel momento, non apparirà più nel ciclo dei drammi storici. Cosa rimane dunque di quell’umanità esibita in taverna con gli amici che il principe Hal aveva vissuto nella sua giovinezza? Nulla, solo l’amara constatazione che si era trattato di una finzione, utile allo scopo di nascondere i suoi reali propositi.

L’onore è buono per i morti non per i vivi
Uno dei temi caratteristici dell’intera produzione teatrale di Shakespeare è quello dell’onore. Per Hegel l’onore è costituito dalla rappresentazione che si ha di se stessi e quindi risulta soltanto una parvenza. Potendo avere il contenuto più vario, in esso può rientrare qualsiasi cosa e ognuno può far valere come onore la cosa soggettivamente a lui più cara. La conseguenza di ciò e che l’uomo d’onore pensa in primo luogo a se stesso «chiedendosi non se qualcosa è in sé e per sé giusto o meno, ma se è a lui conforme (…) e così può fare le cose peggiori ed essere uomo d’onore».

Lungi da queste riflessioni, a Shakespeare è sufficiente ripudiare quello che è sicuramente il codice di comportamento più importante dell’etica politica medievale. Se è vero che il principe Hal riconosce e stima l’onore, è anche vero che questo è lasciato agli altri, ai perdenti, agli avversari sconfitti come il suo principale nemico, Hotspur, vero principe dell’onore a cui, nel dargli la morte, gli rende ipocritamente omaggio. Hotspur, detto anche Speron di fuoco, è un personaggio singolare. Uomo d’azione, coraggioso, sempre pronto a tirar fuori prima la spada e poi il cervello. Eppure è proprio a lui che Shakespeare mette in bocca le più audaci riflessioni filosofiche. Già lo avevamo visto in merito al significato della sovranità («Se viviamo, viviamo per calpestare dei re, se moriamo, viva la morte quando con noi muoiono principi») a cui segue, poco prima di morire sotto i colpi di Hal, una nichilistica riflessione sul senso dell’esistenza: «I pensieri, schiavi della vita, e la vita, pagliaccio del tempo, e il tempo, che contiene tutto il mondo, devono fermarsi». (1 Enrico IV, IV).

Shakespeare affida allora la denigrazione dell’onore al parlare schietto di Falstaff e al suo personale catechismo: «L’onore può rimettermi a posto una gamba? No. O un braccio? No. (…) Che cos’è l’onore? Aria. Chi ce l’ha?  Quello che è morto mercoledì. (…) E allora è qualcosa che i sensi non percepiscono? Si è per i morti.  Ma non vive con i vivi? No. Perché?  la calunnia non lo può permettere.  Perciò non me ne faccio niente. L’onore è solo un blasone buono per i funerali». (1 Enrico IV, V). Con queste parole il fondamento più importante dell’etica medievale era liquidato.

Le giustificazioni teologico-politiche della guerra
L’Enricopedia contiene anche uno dei più classici insegnamenti in merito alla guerra, intesa come strumento grazie al quale i conflitti interni vengono trasferiti su quelli esterni, spesso creati e fomentati in modo artificioso. 

Lo sanno i ribelli che, attraverso la bocca dell’arcivescovo, proclamano i benefici della guerra rispetto a quelli della pace. Peccato però che, detto da persone che ancora devono conquistare il potere, la riflessione si mostra controproducente: il sovrano, una volta accettate le condizioni di pace, straccia le condizioni appena firmate in nome del più cinico pacta non sunt servanda, principio che riassume i mutamenti del patto dovuti al maggior vantaggio di uno dei due contraenti. I ribelli, avendo consegnato le armi in virtù dell’accordo, finiscono per essere arrestati e giustiziati. 

Ancora più espliciti gli insegnamenti di Enrico IV che, sul letto di morte, impartisce al figlio le sue ultime istruzioni, tra cui quello di «aver cura di tenere gli animi incostanti in guerre esterne perché trasferendo l’azione fuori dai confini, si può cancellare la memoria degli eventi passati». Non è ancora freddo il suo corpo che, come dice un suo consigliere di corte, un uccellino gli sussurra che il nuovo re trasferirà contro la Francia i malumori di un ceto nobiliare inquieto e scontento per la nuova recente usurpazione. «La politica di pace significa fare la guerra, affinché a nessuno nel Paese vengano idee stupide e pericolose come quelle di controllare in modo critico la sovranità, di interrogarla sulla giustizia e sui vantaggi per il paese». (Krippendorff, 2009) Si tratta di una vecchia storia, talmente ben conosciuta che l’abbiamo dimenticata (e che vale la pena ricordare): massima abilità del politico è quella di stornare altrove i sentimenti dell’opinione pubblica rispetto alla sua persona e al suo governo.

Il motivo teologico politico aveva aperto il dramma: «Malati, affranti e preoccupati come siamo, adoperiamoci perché la pace atterrita respiri, e annunci nel suo affanno nuovi conflitti lontani da iniziare in remote terre lontane – perché, dopo il furibondo macello della guerra civile – non vi sarà più strage tra amici, fratelli, alleati. (…)». Per questo Enrico IV aveva manifestato la sua intenzione di condurre l’esercito inglese fino al sepolcro di Cristo, per un’altra guerra santa. Il viaggio a Gerusalemme, sempre invocato, sempre rimandato, «metafora politica per il continuo e vano tentativo della sovranità di essere assolta per la propria origine violenta» (Krippendorff, p.84) non si farà. Enrico IV muore a Gerusalemme, che però non è la città santa ma il nome della sua angusta camera.

Insegnante con dottorato di ricerca in Filosofia. Vive e lavora a Nocera Umbra, autore del podcast che prende il nome dal suo motto: Hic Rhodus Hic salta.

1 Comment

  1. Analisi dettagliata ed analitica dell’opera, molto apprezzabile l’interpretazione del concetto di “onore” e la spiegazione della guerra. Grazie

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