Pubblichiamo la trascrizione integrale dell’intervento di Emanuele Severino sul tema della Gloria tenuto sabato 13 settembre nella Piazza Grande di Modena nell’ambito del festival filosofia 2014 . Come già riportato qui, RF aveva quest’anno l’accredito stampa.

Mi viene voglia di chiedere scusa, per un tema che sembra così lontano dai nostri problemi immediati. Ed oggi, visto che si parla di crisi economica, il problema è determinato soprattutto dalla situazione economica del nostro paese, dell’Europa ed in qualche modo del pianeta. Però quando si ha preoccupazione di risolvere il problema economico, questa preoccupazione riguarda la nostra volontà di sopravvivere. E sopravvivere significa vincere la morte. Qualunque cosa noi facciamo – lasciando ai filosofi le elucubrazioni strane sulla Gloria – per risolvere i nostri problemi ci occupiamo sempre di questo tema, di questa ombra che riguarda di tutti; cioè la volontà di allontanare la morte, di sopravvivere nel modo migliore, il che equivale ad arrivare nel modo migliore – se ci si deve arrivare – alla morte.
La parola Gloria indica appunto la volontà di sopravvivenza.
Avevo occasione di dire in un’intervista che mi è stata fatta in questa circostanza, che tutti i significati della parola Gloria sono riconducibili a questo fondamentale che abbiamo indicato. Si parla di Gloria come celebrità, si arriva a parlare di vanagloria, si declina in tutti i modi del nostro vivere quotidiano questa parola, ma in ogni declinazione l’intento è quello di perdurare il più possibile nella visibilità. Il perdurare, daccapo, che cosa significa? Significa l’allontanare il più possibile il momento della morte. Nella parola Gloria risuona la parola klamo; infatti noi diciamo “acclamare”. Anche la parola greca kleos vuol dire “chi sta in una situazione di visibilità perdurante, che ha preso le distanze il più possibile dal momento della morte”.
La difficoltà da parte mia di trattare di questo tema sta nel fatto che questo tema così inteso, cioè il rapporto Gloria-morte, è lungi dall’essere lontano dai miei interessi. Esso è vicino in un modo tutto particolare che vorrei provare ad indicare con alcune metafore, dalle quali, tuttavia, ci si deve liberare subito appena si è in grado di sostiuirle con i concetti. La tematica della Gloria nel suo significato autentico è come il tetto di una casa, del quale non si capisce nulla se non si sa che la casa si appoggia sulle fondamenta e le fondamenta si radicano nel terreno. Per forza di cose noi saremo costretti in questo nostro breve incontro a parlare del tetto lasciando da parte le fondamenta, che però danno significato al tetto. Soprattutto perché la casa di cui sto parlando non è una casa qualsiasi, ma è la casa del sapere incontrovertibile.
La filosofia nasce – e se non si sa questo, non si sa nulla della filosofia – prendendo le distanze da ogni forma del controvertibile, e quindi innanzitutto dal mito, e da tutti i miti da cui la filosofia è preceduta e seguita. Il mito è qualcosa di molto più ampio del mito religioso, anche le forme del senso comune sono miti. Tutti noi siamo convinti di essere qui nella piazza Grande di Modena. Però se ci chiedessimo: “ma perché questo non può essere messo in questione?” Penso che ci troveremo in imbarazzo a rispondere a questa domanda. Noi viviamo immersi nel mito. Ma anche la scienza è un mito, soprattutto da quando la scienza riconosce di essere non più, come pensava Galileo, un sapere incontrovertibile, ma riconosce di essere un sapere ipotetico-deduttivo. Un’ipotesi si dice, infatti, falsificabile. Laddove al contrario la filosofia ha evocato questa idea di un sapere che né uomini, né variazioni di tempi e nemmeno un Dio onnipotente possono cambiare.
Allora ecco il problema di parlare del tetto dovendo lasciare consistentemente nell’ombra il tema del fondamento, cioè dell’incontrovertibile, cioè il tema che – per la sua importanza, imponenza – merita di essere chiamato il tema del destino. Non nel significato usuale della parola, ma perché nella parola de-stino risuona quella radice sta indo-europea che indica lo stare, inamovibile, che non si lascia scuotere da alcunche. D’altra parte sono tanti anni che sono ospite del festival di Modena, e immagino che qualcuno di loro sia al corrente della tesi scandalosa che riguarda l’incontrovertibile in quanto autenticamente inteso, cioè inteso come destino. C’è molto di scandaloso in ciò che stiamo chiamando le fondamenta della casa. Vogliamo ascoltare questo scandalo? Ma, ripeto, penso che molti di loro questo scandalo lo conoscano già. Primo: ogni istante è eterno. E per istante non intendo semplicemente lo scatto dell’orologio, ma ciò che in questo scatto va manifestandosi. Quindi istante è questo nostro guardarci, con queste mie braccia troppo spesso alzate, e poi l’istante successivo pieno di contenuti e ognuno di noi ha in mente i pensieri, i ricordi, i rimorsi, le speranze. Quest’istante non è semplicemente questa piazza, ma è denso di relazioni; ebbene, affermiamo l’eternità di ogni istante, di ogni attimo – questa è la tesi scandalosa.
È scandalosa anche se qualcuno arriva a sapere che – cosa che non sempre si tiene presente – la teoria della relatività afferma, esplicitamente, che il futuro e il passato non sono meno reali del presente. Quando qualcuno si straccia le vesti nel sentire, o nel leggere – nei così detti miei scritti – che ogni essente è eterno, allora, tesi per tesi, bisogna tener presente che la teoria della relatività – sebbene limitatamente al cronotopo quadridimensionale, cioè alla realtà spazio-temporale – enunciando che il futuro e il passato non sono meno reali del presente, enuncia la permanenza e l’eternità di ogni stato del mondo. Ciononostante il destino che afferma l’eternità di ogni essente non può essere confuso con la teoria della relatività, per quanto dicevamo prima: questa teoria, per quanto straordinaria, è comunque una teoria ipotetica. Mentre dicevamo che il destino è ciò che nemmeno Dio onnipotente può smentire. E questo è il primo scandalo: la tesi dell’eternità di tutto.
Se ci ricordiamo che Gloria è allontanamento della morte, e quindi immortalità, e quindi eternità, lo scandalo cresce perché dicendo che ogni istante del mondo (ma poi ogni essente) è eterno veniamo a dire, niente di meno, che ogni istante è glorioso. Se appunto gloria vuol dire lo stare al di là della caducità e della morte.
Ma c’è un secondo scandalo che riguarda la parola Gloria nel suo significato compiuto che dice: tutto è eterno, ma allora il variare del mondo? Questo variare, che anche se noi siamo seduti ha una miriade di sfaccettature? Cosa è questo variare? La risposta – essa stessa scandalosa – è che, poiché tutto è eterno, il variare è il farsi innanzi via via degli eterni. Eterno questo nostro guardarci in questo momento che, sopraggiunto si è fatto innanzi, rispetto a quella situazione abbastanza simile che era l’istante precedente e gli istanti ancora precedenti. Quindi scandalosa questa tesi perché subito ci viene in mente questa obiezione: ma se ogni essente è glorioso, allora anche il dolore del mondo è glorioso? Anche l’agonia è gloriosa? Anche i dolori del mondo sono gloriosi? Anche Auschwitz è glorioso?
Come la mettiamo con questo tipo di obiezione?
Dicevo prima che c’è questo significato di fondo della parola gloria che è il comun denominatore della ricca fenomenologia di tale parola. Non è che si tratti di una tematica, così affrontata, che non riguardi i grandi miti e le gradi espressioni religiose. Se leggiamo verso la fine del Vangelo di Luca che cosa dice il testo ad esempio.
Ebbene Luca dopo aver narrato la passione, la morte e la resurrezione di Cristo se ne esce con questa affermazione: non fu dunque opportuno che Cristo patisse queste cose (ciò che aveva prima narrato, la passione la morte) e così entrare nella sua Gloria?
Dio, fatto uomo entra nella sua Gloria. Ma possiamo figurarci un Cristo che, oramai glorioso, siede alla destra del Padre avendo oramai dimenticato il proprio patimento? Cristo dimentica ciò per cui è divenuto salvatore dell’umanità? Nella Gloria può dimenticare il proprio patimento? Penso che tutti rispondiamo no, perché così Cristo sarebbe regredito ad una forma di insipienza. Bisogna che questo patimento lo abbia davanti, non solamente ricordandolo. Perché quando noi diciamo di ricordare qualcosa, ci riferiamo ad una immagine che lascia al di fuori di sé la concretezza di ciò che ricordiamo. Ricordiamo la giornata di ieri, ma l’immagine non ci restituisce tutta la densità che costituisce la giornata di ieri. Se Cristo siede glorioso alla destra del Padre, e non può dimenticare il proprio patimento, non può nemmeno limitarsi a ricordarlo, se il ricordo è semplicemente l’immagine di una concretezza perduta. E allora?
Allora il patimento subito dal Cristo deve essere lì presente, in carne ed ossa, perché se mancasse qualcosa a questo patimento Cristo regredirebbe da capo a quell’insipienza che prima avevamo escluso. Questo per dire che l’obiezione che ci viene spontanea, tutti i dolori del mondo sono anch’essi eterni in quanto essenti, è un’obiezione che possiamo riferire anche alla situazione cristica. Un cristiano non può accettare l’idea di un Cristo che abbia dimenticato il sacrificio da lui compiuto. Dico questo non perché il pensiero filosofico debba accodarsi alle varie forme, pur grandissime, del mito. Anzi, dicevamo prima, la filosofia nasce come negazione di ogni forma mitica. Insomma dico questo perché inevitabilmente sentendo la tesi che tutto è eterno si fa avanti la tesi che anche il dolore patito dall’umanità, nel presente, nel passato e nel futuro, sia eterno e che quindi noi avremo sempre a che fare con il dolore. Ma in che modo?
Qui la divaricazione rispetto al racconto cristiano si fa netta. Questa volta mi riferisco alla fine dell’Apocalisse di Giovanni, dove Giovanni dice: col giudizio finale diverrà nulla il vecchio cielo e la vecchia terra, essi si annienteranno. Ecco: il passato diventa niente; risulta chiaro che questa affermazione è in totale rotta di collisione con l’affermazione che ogni istante è eterno, ma il Cristianesimo dice questo, oramai, insieme al senso comune dell’Occidente del pianeta, insieme alla scienza, insieme alle altre religioni, soprattutto quelle monoteistiche, le quali religioni parlano delle creature prodotte come ex nihilo e cioè dicendo che “di per sé” sono niente. Le cose hanno bisogno, per uscire dal niente, di una forza originariamente salvifica e conclusivamente salvifica che per quanto riguarda il cristianesimo culmina nel concetto di resurrezione. Prima di diventare gloriosi si annientano e poi occorre la Grazia di Dio perché vengano, daccapo, rimessi nell’Essere e fatti uscire dal Nulla.
Insistiamo ancora sul carattere scandaloso che si porta dietro il tetto della casa del destino a cui ho fatto riferimento prima, perché avevo iniziato a dire che analizzando il significato autentico del concetto di Gloria, dobbiamo dire che se il variare delle cose è il sopraggiungere degli eterni allora Gloria significa che questo sopraggiungere non ha mai termine, è uno sviluppo all’infinito che oltrepassa tutto ciò che va, via via, sopraggiungendo. Allora oltrepassa anche tutte le forme del mito che noi possiamo chiamare, raccogliendole tutte in una categoria, le forme della terra isolata dal destino. Gloria è l’infinito oltrepassamento. E questo è, in un qualche modo, ancora più scandaloso, perché vuol dire la nostra destinazione alla vita eterna. Mi rendo conto che queste affermazioni devono fare i conti con tutta un’esperienza filosofico-scientifica, ma anche artistica, in cui la modernità – e soprattutto la contemporaneità – ha allontanato ogni pretesa metafisica di dire qualcosa al di là dell’esperienza. E certamente se parlo così è perché credo che questi conti che la modernità ha fatto nei confronti della metafisica, siano conti sbagliati.
Proviamo a scalfire un poco questa seconda affermazione, cioè che la Gloria è l’indefinito aprirsi della pianura degli eterni che ci si fa innanzi oltrepassando tutto ciò che è via via sopraggiunto. Anche in questo caso non posso che limitarmi a cenni.
Se qualcuno volesse approfondire il tema, il teorema che si tratterebbe di comprendere è che: una connessione necessaria non può incominciare ad essere. Faccio un esempio: se io chiedessi, supposto che la matematica sia un sapere incontrovertibile (oramai in realtà non lo pensa più nemmeno la matematica, si pensi a Gödel), la proposizione 1 + 1 = 2, ha incominciato ad essere vera ad un certo momento e prima non era vera? Io penso che se abbiamo capito la premessa della domanda, allora penso che tutti loro mi risponderanno “no”.
Allora, quell’uguale (=) è il nesso necessario che unisce ciò che sta a sinistra e ciò che sta a destra dell’uguale stesso. Questo è un esempio per dire che un nesso, un qualsiasi nesso necessario, se è necessario, non incomincia ad esser vero e necessario ad un certo punto del tempo. Affianchiamo a questo esempio la seguente considerazione: abbiamo detto che gli eterni sopraggiungono, ma dove? Noi siamo abituati a considerare l’uomo come quella povera cosa che, per milioni di anni non è esistita, poi incomincia ad esistere, e poi non esisterà più e poi passerà ancora gran tempo finché l’entropia cosmica non condurrà a ciò che Leopardi la quieta e il silenzio altissimo del nulla. Direi che perlopiù noi ci muoviamo in questo modo, nel considerare l’uomo. Le scienze biologiche, antropologiche, rafforzano questa nostra convinzione. Però la filosofia aveva incominciato a portare innanzi un concetto dell’esser uomo ben più ampio di questo. Perché quelle epoche remote, rispetto alle quali noi diciamo di esser sopraggiunti ad un certo momento, e quelle epoche forse ancor più remote, nel futuro, rispetto a cui diciamo che non ci saremo più, non sono forse qui, vicinissime, proprio perché ne parliamo, e si manifestano, perché se non si manifestassero non potremmo nemmeno parlarne? Allora questo sarebbe un primo pilastro che avrebbe bisogno di ben altro commento da tener presente nel mio tentativo di spiegare il sopraggiungere degli eterni. Gli eterni appaiono in questo apparire che non è semplicemente una nostra coscienza individuale misurabile, magari identificabile al cervello che si mette sul tavolo anatomico e si dice “questa è la mente di chi era il possessore di questo cervello”. Ma anche qui le cose non vanno perché il cervello che è sul tavolo anatomico è all’interno di un laboratorio, e tutta una serie di cose che appaiono, che sono incluse nell’apparire che a questo punto non possiamo più chiamare come nostra coscienza, ma merita il nome di apparire trascendentale.
Allora tutti gli eterni sopraggiungono nell’apparire, ma l’apparire è nulla? No, è un essente. Quindi è eterno. Ma noi siamo questo apparire. Quindi noi siamo l’eterno apparire del sopraggiungere degli eterni. E questo apparire è una stanza vuota che viene via via riempita? Nemmeno.
Tutto quanto sto tentando di descrivere, in un modo che rispetto al contenuto è un balbettio, è appunto il contenuto del destino. Nessuna cosa può apparire senza ciò che le conviene essenzialmente, cioè senza il destino. Quindi, tutto quanto stiamo dicendo non è qualcosa che sta prima, poniamo, nella testa di un tizio – sia pure Aristotele – che poi entra nella nostra testa, in un vuoto dove noi saremmo privi di quella sapienza che attraverso il linguaggio, invece, ci raggiunge. Noi siamo l’apparire di questa sapienza; di più: noi siamo l’eterno apparire di questa sapienza. Ma prima non avevamo incominciato a dire che nessun nesso necessario può incominciare? Sì. Allora, se qualcosa – un eterno – si facesse innanzi e chiudesse il nostro spettacolo in modo che non avesse ad apparire alcunché d’altro, se per esempio questo fatto qui chiudesse il processo del farsi innanzi degli eterni, accadrebbe che questo istante si unirebbe necessariamente a quello sfondo che un momento fa dicevamo costituire l’arredamento necessario ed eterno dell’apparire nel quale noi consistiamo. Nulla di ciò che sopraggiunge può essere inoltrepassabile. Se fosse inoltrepassabile incomincerebbe a stabilire un nesso necessario col destino che in noi eternamente appare, in modo analogo a quello per cui l’1 + 1 incomincerebbe ad essere, ad un certo punto, = 2. Tutto ciò che sopraggiunge spinge oltre. Per quello che prima, parlando dello scandalo del concetto di Gloria, dicevo che siamo destinati alla Gloria e cioè siamo destinati all’infinito oltrepassamento di tutto ciò che sopraggiunge, e quindi all’infinito oltrepassamento di ciò che abbiamo chiamato la terra isolata dal destino, cioè la terra dell’insieme dei miti, nei quali noi, per lo più, viviamo.
L’Apocalisse dice che la terra vecchia sarà annientata, ed avevamo rilevato che questa affermazione è in rotta di collisione con l’affermazione che tutto è eterno. Recuperiamo anche il concetto dell’eternità del dolore e dell’agonia. Sì, tutto è eterno anche il dolore e l’agonia, ma non nel senso che debba essere annullato, o debba essere conservato così come si presenta, ma nel senso che è infinitamente oltrepassato.
Ancora una volta ci serviamo del racconto evangelico: Cristo è nella Gloria, ricorda la totalità del proprio patimento, ma questo ricordo non sommerge la Gloria che oltrepassa infinitamente il patimento. Se noi immaginiamo una felicità che ignori il patimento saniamo qualcosa di vano. La felicità include necessariamente il patimento, come infinitamente oltrepassato.
Concludo. Dicevo prima che quanto noi sentiamo, per esempio nel linguaggio che ora si fa sentire, non è qualcosa che ci dica un contenuto di cui noi si sia privi. Ci troviamo piuttosto nella condizione dei cacciatori che guardando gli uccelli vogliono catturarli, e in questa loro bramosia non tengono conto del cielo che si staglia sullo sfondo del volo degli uccelli. Allora: il cielo, che il cacciatore non cura, siamo noi. Noi come eterno apparire degli eterni e come eterno apparire del sopraggiungere degli eterni. Il cacciatore non intende il volo degli uccelli come un sopraggiungere degli eterni, lo intende come ciò che vuole dominare e catturare. Ma la volontà di catturare, dominare, prevalere, di vincere è la volontà di potenza che oggi sta scatenando sulla terra tutta una molteplicità di conflitti. Questa volontà di dominio che è presente nelle cose abiette come nelle cose nobili, presuppone la dimenticanza di ciò che noi abbiamo chiamato destino, di ciò che noi siamo. Noi siamo il cielo che crede di essere i cacciatori. Altre volte dico che noi siamo re che si credono mendicanti; questa volta possiamo concludere dicendo che la regalità che noi siamo, questa regalità che ci destina alla Gloria infinita, è la negazione più radicale della volontà di potenza. È la negazione più radicale dell’ignoranza che ci fa dimenticare appunto il nostro essere l’eterno apparire del destino.
Ammiro moltissimo la strategia comunicativa e la forza eccentrica del suo pensiero. Il prolema, però, è che questa «necessità» si fonda sul proncipio di non-contraddizione, che è un principio vero esclusivamente nel campo della logica. Che un triangolo non possa non avere 3 lati è una proposizione vera quanto insensata, giacché «esistente» solo nel linguaggio.
Il punto è che «1+1» e «2», così come «i triangoli» non «esistono». Per cui applicare al reale, all’esistente un concetto che domina tali astratti concetti è qualcosa di arbitrario, perciò di non-necessario.
«Il destino della necessità» è una teoria, senz’altro valida, come ogni teoria che vuole rispondere a un quesito di per sé senza risposte, ma resta una teoria.
Quindi si è nella gloria anche prima dell’obbligata necessità di rivelarsi dell’essente, prima dell’apparire? Poi chiedo: dopo la mia morte il mio essente si risolverà o continuerà identico? E se diminuisse ogni volta? Ho paura che in tal senso mi toccherà vivere anche dopo la mia dipartita per qualcosa che l’essente non ė riuscito a risolver-si.
Gentile Enzo,
stando al pensiero di Emanuele Severino, la risposta alla sua prima domanda non può che essere sì, e potrebbe risultare interessante cercare di capire il perché sia così.
A ben vedere, il cuore della riflessione severiniana sta nel fatto che la categoria del tempo (inteso come successione di istanti all’interno della quale è possibile individuare un prima e un poi) viene di fatto svuotata di senso dall’unione di “essere” inteso come esistenza e “essere” inteso come identità, in un unico significato. Perciò, esistere ed essere identici a come si appare sono due cose inscindibili (affermazione che rende necessariamente contraddittoria ogni configurazione del mondo alternativa a quella effettiva, di qui il dominio della necessità). Mettendo ora tra parentesi tutte le questioni che potrebbero emergere relativamente a questa posizione, ciò che ne consegue è una sostanziale universalizzazione di ogni particolare. Stando così le cose, l’intendere il “sé” così come la tradizione occidentale ha fatto fino ad oggi risulta del tutto impossibile in quanto anche l’individuo non è altro se non l’espressione di una necessità. La stessa morte, viene totalmente svuotata del suo pathos per ridursi a mero succedersi di diversi stati dell’essere sé di ogni ente, che in quanto tale non si fa mai nulla. Perciò anche se non si possono aggiungere ulteriori predicazioni a quanto già apparso rispetto ad un ente dopo la sua fuoriuscita dal cerchio dell’apparire rispetto al modo dell” “essere vivo” (quindi dopo la morte), cionondimeno non si perde alcunché di quanto apparso inerentemente ad esso. Questo non significa sicuramente che vi sia un’anima che sopravviva alla morte in quanto ente cosciente in grado di guardare “da fuori” il mondo e per così dire “scoprirne la verità”. In tal senso perciò non dovrebbe esserci di che aver paura. Restano sicuramente molti gli interrogativi che possono emergere in proposito, ma rispetto alla tua questione spero di aver risposto con sufficiente chiarezza.
Grazie ad Andrea per la sua esaustiva spiegazione che ho letto più volte con attenzione e interesse. Tuttavia mi rimangono delle perplessità. Anche seguendo Severino, in che cosa consiste questa gioia infinitamente grande a cui saremmo destinati? E non dipende anche da quando la verità si afferma? Cioè, se la gloria arriva tra 10-20 anni magari sperimento questa famosa gioia, ma se arriva tra 1000 anni?
Io mi fermerei al concetto dell’immutabile che comprende l’apparire di cui si può parlare e il non apparire su cui è difficile esprimersi e quindi è meglio abbandonarsi al mistero. Magari ciò non porta alla gioia ma forse è un piccolo passo per sottrarsi alla follia della tecnica che tutto vuole controllare e dominare. Saluti a tutti.
È già da sempre arrivata, e non arriverà mai completamente (solo ad infinitum).
Temo che per Severino sia parimenti “follia” abbandonarsi al mistero… esattamente come affidarsi alla tecnica.
Ma — ribadisco — il problema “fondamentale”, prima ancora che interrogarsi circa l’esito di quanto ancora non appare, a me pare sia questionare SE “veramente” sia l’essere dell’ente ad apparire.
E se non sia questa (= la pretesa di pensare l’essere, la presunta necessità che l’essere appaia e che sia destinato quindi ad apparire completamente) la VERA ed insuperabile “follia” ed “errore”.
Ciao MC,
sei sempre un bacchiniano in pantaloncini corti…..( per l’entusiasmo…), volevo dirti che i tuoi commenti alla “Gloria” mi son piaciuti moltissimo…
a) Scrivi:”…in quanto il sopraggiungere è un “presentarsi” esso implica che ciò che è in un certo momento del processo di disvelamento (…) “non sia” quel che sopraggiunge in seguito…
Domando-osservo: a far sì che ciò che “sia” lo stesso, è il concetto di sopraggiungere: se qualcosa sopraggiunge, cioè incomincia ad apparire, significa che prima non appariva…se quello che prima non appariva non è lo stesso di quello che poi appare, allora non possiamo dire che incomincia ad apparire…
b) Scrivi: “e, quindi come potrebbe ancora apparire l’apparire di ciò che appare e, di nuovo, a chi apparirebbe se, stante la struttura duale dell’apparire come “apparire ad altro”, l’apparire richiede una alterità ..”?
Ma la struttura dell’apparire è “duale…come apparire ad altro…”? e questo ” altro” dall’apparire appare? e come fa ad apparire se è l’altro dall’apparire?…la soluzione a queste domande non è che l’apparire appare a sé…e che appunto questo autoriflettentesi apparire è il concreto e l’originario apparire?
Un caro saluto Marco
Marco
Ci sono aspetti del pensiero del prof. Severino che mi lasciano perplesso pur considerandolo di grandissimo valore, interessante e stimolante.
“Siamo destinati ad una gioia infinitamente piu’ intensa di quello che le religioni promettono”. “I nostri morti ci aspettano”. La mia domanda è: che cosa vuol dire il prof. Severino? Che c’è una parte di noi che rimane cosciente dopo la morte? Il suo è un pensiero sistematico, logico fino ad un certo punto ma poi assume toni religiosi, di fede. Mi sembra che si passi da un linguaggio logico razionale ad uno fideistico religioso. Su Severino si potrebbe parlare per mesi ma mi fermo qui con i miei dubbi…
Grazie a tutti per l’articolo e i commenti.
In effetti, l’introduzione del tema della Gloria porta con sé tutta una serie di interrogativi, in linea con quelli sollevati da Alessandro, che lasciano pensare ad una certa deriva fideistica della riflessione di Severino. La questione però, pur conservando una certa problematicità, non è così semplice come potrebbe apparire.
A mio avviso è utile premettere che all’interno del destino della verità non c’è, né può in alcun modo esserci, la “morte”, bensì c’è solo l’uscire dal cerchio dell’apparire – un uscire che certamente non allude all’annullamento dell’ente uscito, ma rispetto al quale, nondimeno, resta estremamente difficile esprimersi, perché appunto non appare, e parlare di ciò che non appare ci espone facilmente al rischio di assumere derive fideistiche -, quindi non ha senso parlare di un “dopo la morte”.
Dal confronto con il testo del 2001 “La Gloria”, si ha modo di capire che la questione verte intorno all’imporsi come evidente di questo “indefinito aprirsi della pianura degli eterni”; quindi alla destinazione, da parte della verità, ad apparire anche come tale dopo la lunga parentesi nichilista. Ma Severino come può sostenere che ciò che ancora non appare (l’imporsi dell’eternità di tutti gli enti come Verità) sia ciononostante destinato ad apparire, senza cadere nel mito? Per comprendere la risposta a tale domanda, è indispensabile avere una certa dimestichezza con il contenuto di “Destino della necessità”, ossia con l’opera che costituisce la prima parte del discorso concluso in “La Gloria”. Qui infatti, egli parla dell’intramontabile cerchio dell’apparire, come dello sfondo immutabile rispetto al quale appare l’incominciare e il cessare di apparire degli enti eterni (il cielo che il cacciatore non coglie). Questo soltanto resta eternamente immutato e immutabile in quanto apparire trascendentale, cioè in quanto condizione stessa della possibilità che si dia un apparire; tutto quanto in esso appare (e qui entriamo nel vivo di “La Gloria”) non può che passare. Lo stesso vale per il nichilismo, cioè per la persuasione dell’evidenza del divenire, che con il suo pensare l’ente libero tanto di essere, quanto di non essere (quindi contingente), apre sul mortale la prospettiva della morte quale estremo dolore.
La destinazione alla Gloria perciò, consiste nella destinazione al farsi evidente della verità dell’essere in sostituzione della persuasione che tale evidenza sia invece il contenuto del nichilismo; cioè il divenire. Tale oltrepassamento Severino lo inserisce all’interno del destino della verità perché, se il nichilismo fosse destinato a permanere all’interno del cerchio dell’apparire senza passare mai, ciò finirebbe per farne una parte costitutiva dello sfondo stesso. Il nichilismo cioè, verrebbe a porsi come un ente che una volta entrato nel cerchio dell’apparire ne diventa una parte integrante. Ammettere una simile possibilità, equivale a prospettare l’eventualità che esista un punto d’arresto dell’inoltrarsi della terra (cioè della totalità di tutto quanto è contenuto all’interno del cerchio dell’apparire), coincidente con il momento in cui sono apparsi tutti gli enti destinati a permanere incessantemente nel cerchio dell’apparire; quindi a prospettare uno stato definitivo. La qual cosa, oltre che inserire uno scopo arbitrario quale culmine del destino, pone come necessaria l’unione tra lo sfondo e un sopraggiungente, cioè pone come necessaria (quindi eterna) un’unione che incomincia. Ma se si può pensare come necessario solo qualcosa di cui immaginare l’inesistenza è contraddittorio, ecco che siamo pervenuti ad una contraddizione che fa crollare l’intero ragionamento.
Per cui, la destinazione alla Gloria, è la destinazione al farsi evidente della Verità. Un’asserzione, che trova il proprio fondamento nell’impossibilità che l’incominciante ad apparire, sia destinato a permanere all’infinito.
Ciao Andrea, grazie per l’intervento, molto interessante ed utile ai fini della comprensione dei temi in oggetto.
Non ripeterò le mie riflessioni di cui sopra (già comunque parziali ed insufficienti, pur insieme ad altre poste a margine di un precedente articolo su RF, «Le cose perse e salvate di Emanuele Severino»), che, almeno per me, restano comunque problematiche… ma porrei la questione nei seguenti termini, che mi appaiono fondamentali:
prima di tematizzare la non nichilistica “uscita dal cerchio dell’apparire” – sui cui riporti la nostra attenzione – che innegabilmente non attesta alcun annientamento di quanto non appare più (ma, appunto, solo il suo non apparire, non esser visto più empiricamente o fisicamente),
ebbene prima di porre mente al senso dell’uscita dall’apparire, io mi permetterei di riportare la considerazione su “che cosa” stia originariamente (trascendentalmente quindi da sempre) nell’orizzonte dell’apparire, cioè del pensiero:
l’essere dell’ente o, piuttosto, il suo non-essere (inteso in senso platonico come “qualcosa” di altro, di diverso nell’essere… “qualcosa” che, quindi, non è l’essere come tale ma non può nemmeno essere una qualche alterità che “stia” autonomamente rispetto all’essere e, quindi, non possa non risolversi in un “dileguare”, annullandosi interamente nell’essere stesso, il quale essere è – e deve essere – originariamente “fuori-apparire” sempre [non perché presupposto ad esso, ma perché risultante come eccedente, cioè precedente, rispetto all’apparire]… oppure nessun apparire sarebbe intelligibile, cioè nulla apparirebbe affatto: infatti, apparire è autentico se ciò che appare “appare perché è” e non “è poiché appare”).
A mio avviso, individuare quale tratto fondamentale (essenza, essere) dell’ente il suo consistere in un “non nulla” lascia, in verità, tutto sospeso alla (a mio parere irrisolvibile) aporia del nulla e della sua negazione, proprio mentre dovrebbe spiegare e rendere intelligibile tutto.
Un po’ cercavo di indicare dove stiano le difficoltà in tale snodo speculativo ma ritengo, che in modo ben più rigoroso e sintetico di quanto sia a me possibile, si sia espresso nel breve passaggio – sotto linkato – uno dei più raffinati e profondi teoreti italiani, a Severino ben noto, e che al pensatore bresciano riservò, tra i primi suoi lettori, acutissime osservazioni ed obiezioni (quasi mai corrisposte, purtroppo, e non solo dal pensatore bresciano… “purtroppo” per la filosofia e per il dibattito teoretico, prima che per i singoli autori):
http://goo.gl/6WlOrH
(G. R. Bacchin, Anypotheton, Bulzoni , Roma 1975, pp. 252-254)
Si tratta di due pagine scarse, che vale la pena di leggere e meditare… e, se possibile, criticare facendo eventualmente le veci speculative dello stesso Severino (cosa non alla mia portata).
…………………
Riprendendo l’intervento di Andrea:
se «resta estremamente difficile» circa lo statuto dell’ente uscito dall’apparire, forse è ancor più difficile fondare senza aporie irrisolvibili (quindi senza contraddizione, stricto sensu) che ad apparire sia l’essere dell’ente, ossia l’ente nella sua interezza, l’intero essere dell’ente.
E, dovendo l’essere dell’ente “apparire”, conseguentemente – pur ad infinitum – “essere” ed “apparire” non potranno non coincidere, ma con esiti insostenibili che dovrebbero non sfuggire:
a chi apparirebbe l’apparire totale ed infinito del tutto infinito?
come si potrebbe distinguere tra “essere” ed “apparire” laddove ogni residualità ontologica tra questo e quello sia interamente consumata e risolta?
e, quindi come potrebbe ancora apparire l’apparire di ciò che appare e, di nuovo, a chi apparirebbe se, stante la struttura duale dell’apparire come “apparire ad altro”, l’apparire richiede una alterità che , invece, la Gloria deve togliere?
La totale e piena “evidenza”, pensata fino in fondo, non può essere un effettivo “apparire”… perché esige che sia tolta proprio quella dualità che è strutturale all’apparire, anche trascendentalmente inteso (= ne costituisce l’intelligibilità).
Se, come correttamente rileva Andrea, è contraddittorio porre «come necessaria l’unione tra lo sfondo e un sopraggiungente, cioè pone come necessaria (quindi eterna) un’unione che incomincia», ciò non varrà anche per la “totalità (infinita) dei sopraggiungenti”?
Infatti, la totalità (infinita) può essere qualcosa di altro, un plus ontologico, rispetto a tutti i suoi elementi (finiti)?
A me sembra che aut questa “cattiva infinità” è destinata a restare aperta – ma una totalità del positivo (cioè di tutto ciò che è) che resti aperta, che “totalità” è: aperta a cosa, manchevole di cosa? -,
aut essa deve compiersi, conchiudendosi, ma anche in tal caso – essendo infinita – quale chiusura sarebbe pensabile, senza far valere un “limite” – senza di cui chiusura non si dà – che contraddirebbe l’infinità stessa?
Direi anche così:
il contenuto dello sfondo è, in realtà (contro ogni volontà contraria), ‘sempre’ costitutivo dello sfondo: infatti, se ogni contenuto venisse oltrepassato – e non può non essere oltrepassato, iuxta Severino – , anche lo sfondo verrebbe con ciò oltrepassato (resterebbe “sfondo” di che cosa?).
Ma, allora, non è aporetica ed infondabile forse proprio quella “distinzione” (che è analitica, mentre dovrebbe essere dialettica!) ‘astratta’ nella sua analiticità che è tutt’uno con la sinteticità (entrambe presupponenti come posti i loro elementi), TRA “sfondo” E “contenuto”?
ossia no è inaccettabile proprio la declinazione del pensiero come “relazione” ALL’essere – anziché, appunto, come identità dialettica di pensiero ed essere, dialettica quindi mediata, e non certo immediata, o mediata sulla base di una immediatezza ‘originaria’ (tutta presupposta e presuppositiva), la quale non può non permeare della propria immediatezza anche ogni successiva mediazione – ?
Ovverosia:
il «mito», come stigmatizza Andrea, che sembra appalesarsi nell’esito ultimo della teoresi severiniana, non è forse presente ed operante già alla fonte, nel primo passo? (o, meglio, “prima” del primo passo, cioè nei presupposti subìti, e nella stessa assunzione come “posto” di quel finito che hegalianamente io continuerei a intendere come intimamente ed insalvabilmente contraddittorio, ovvero come qualcosa di in-stabile, anzi a rigore nemmeno un “qualcosa” ma piuttosto un atto di puro autotoglimento… ma di salvezza c’è ‘veramente’ bisogno, se il finito “si toglie” non nel nulla, bensì – sempre hegelianamente – nell’infinito che esso stesso “è”, ma appunto tale da esigere la “fine del finito”, il suo finire in se stesso e da se stesso?).
Non in modo peregrino, spero, aggiungerei – en passant e brachilogicamente – questa riflessione:
lo «intramontabile cerchio dell’apparire» (lo sfondo ed il contenitore di ogni apparire, che sarebbe però esso stesso – in quanto è anch’esso qualcosa ossia un non-nulla – contenuto di se stesso, apparendo appunto come sfondo, distinto da ciò che in tale sfondo si staglia) tale nozione ‘traduce’ fedelmente o, piuttosto, ‘tradisce’ clamorosamente il teorema dell’attualismo gentiliano per cui l’atto di pensiero (l’apparire severiniano) non può mai divenire esso stesso un pensato?
Ovvero, con parole di Gentile:
«Ogni tentativo che si faccia, si può avvertirlo fin da ora, di oggettivare l’Io, il pensare, l’attività nostra interiore, in cui consiste la nostra personalità, è un tentativo destinato a fallire, che lascerà sempre fuori di sé quello appunto che vorrà contenere; poiché nel definire come oggetto determinato di un nostro pensiero la nostra stessa attività pensante, dobbiamo sempre ricordare che la definizione è resa possibile dal rimanere la nostra attività pensante, non come oggetto, ma come soggetto della nostra stessa definizione, in qualunque modo noi si concepisca questo concetto della nostra attività pensante. La vera attività pensante non è quella che definiamo, ma lo stesso pensiero che definisce.» (G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, I, 6)»
Domanda:
se esso è sempre quello “che definisce”, quale legittimità può avere la “definizione” che identifica “pensare” con “apparire”?
Non è questo stesso un ‘definitum’ e non un ‘definiens’, ossia un mero dato dello stesso apparire (pensare) che dovrebbe fondare l’apparire stesso, involvendosi con ciò in una petitio principii?
Grazie, alla prossima.
Marco
E’ possibile avere in formato mp3 l’audio della lezione? Ve ne sarei infinitamente grata… Grazie!
Molte e delicate (nella loro semplicità, che – come si sa – è l’opposto della facilità) sarebbero le questioni da sollevare e discutere.
Tento una sintesi estrema, brutale.
Se la Gloria è “l’indefinito aprirsi della pianura degli eterni”, ed “eterno” è l’ente come esser-sé implicante il non-essere il proprio altro (ovvero il resto dell’intero semantico ovvero della totalità degli essenti come negata), tale cioè che l’ente, ciascun ente e tutti gli enti, si pongano come inscindibilmente connessi in una universale reciprocità e, tuttavia, irriducibilmente distinti fra loro, ebbene, se così è, una prima questione sarebbe: gli essenti sono “eterni” ossia si oppongono al nulla, IN QUANTO inseparabili dal loro essere (declinato, appunto, in un plesso duplice sintetico di identità-e-differenza) e quindi inseparabili anche da da ogni altro ente, poiché la negazione di tale vincolo universale sarebbe negazione dell’innegabilità dell’incontraddittrietà-identità (togliendosi, quindi, come negazione), oppure, viceversa, il vincolo di ogni ente, di tutto ciò-che-è (di ogni ciò-che-) dal suo essere (-è) – vincolo che implica anche la relazione con ogni altro essente – è inscindibile IN QUANTO ogni ente e la totalità degli enti si oppone al nulla?
Un’altra domanda sarebbe la seguente:
un eterno che sopraggiunga, facendo quindi essere quel tempo nel quale processualmente (un poco per volta) si manifesta, giungendo per dover togliere quell’astrattezza consistente nell’esser stato posto come non posto (ossia prima che appaia concretamente, in tutta la sua infinita ricchezza di determinazioni, il contenuto di tale posizione ancora solo immediatamente formale), in quanto il sopraggiungere è un “presentarsi” esso implica che ciò che è in un certo momento del processo di disvelamento – per quanto questo sia già originariamente posto come necessario – “non sia” quel che sopraggiunge in seguito…e così via….
Ma tale sopraggiungere, concepito come farsi presente fenomenologicamente di ciò che ancora “non era” manifesto, deve dividere l’intero: e che intero è un intero diviso?
Di più: a chi si presenta (appare) tale intero, fatto salva la trascendentalità dell’apparire (pensiero, coscienza)? Necessariamente a ciò che “non sia” ciò che si presenta, quindi, di nuovo, tale divisione (pur non separazione, bensì distinzione) è strutturale e non può venire meno, pena l’impossibilità che apparire si dia.
Ma, allora, è proprio l’inseparabilità a richiedere (e richiedere che non sia mai tolta, nemmeno ad infinitum) tale alterità irriducibile, la quale pone una frattura nella “struttura originaria” che mai potrà né dovrà venir tolta.
Non solo viene da chiedersi perché si ponga tale distinzione intimamente all’intero (totalità dell’essere) e non appaia, per così dire, tutto interamente e compiutamente, ma, più radicalmente, viene da chiedersi come e se sia pensabile un intero originariamente distinto?
Oppure è la “volontà” (in senso severiniano, ma contra Severino) di tener fermo il finito, il determinato (l’ente, le determinazioni) ponendolo come non poste, ovvero ponendole “prima” che siano poste effettivamente, ad imporre all’intero una – impossibile – divisione internamente a se stesso?
Tanto più che fare dell’intero (totalità concreta nella quale i sopraggiungenti appaiono) lo sfondo originario dell’apparire di elementi dello stesso che vengono via via a completarlo, intensificandone la concretezza, è comunque fare dell’intero una parte (sfondo, appunto, atematico distinto da ciò che tematicamente in esso appare): un “tutto relativo” è il tutto o, piuttosto, è una proiezione della parte (che come tale postula il tutto, è da esso determinata, e di certo non entra a determinarlo) ?
Un’ultima riflessione – per volontà di limitare l’intervento – sarebbe:
il significato fondamentale dell’essente come “non nulla” a quali condizioni è intelligibile?
L’essere dell’ente è tale perché nega il nulla (ma, allora, il primato ontologico vero spetta al nulla, il quale se “in qualche modo” è fatto essere, almeno quale termine di una negazione, “è” innegabile);
oppure l’essere nega il nulla perché è (e, allora, per una ragione opposta, la negazione del nulla risulta impossibile: essendo indipendetemente dal negare il nulla, l’essere non abbisognerebbe affatto di negare il nulla, quindi non si pone una negazione del tutto superflua).
Se l’essere coincidesse con tale negazione (ma Severino precisa in verità – ed è precisazione che resta problematica, a mio avviso – che la negazione del nulla appartiene all’essenza dell’essente, ma non la esaurisce…), tale negazione, “facendo essere” nel suo seno quel nulla che in sé è l’inesistente in quanto autocontraddittorio, ossia “facendo essere” il proprio oggetto (il negato cioè il nulla), con ciò stesso “farebbe essere” anche se stessa: sarebbe autocreativa, è una creatio ex nihilo sui et subiecti.
Che è l’esatto opposto della Verità dell’essere severiniana.
Molto altro sarebbe da dire, ma per ora mi fermo qui.
Grato per un confronto e con i sinceri complimenti per questo utile spazio di “pensiero”, saluto cordialmente.
MC
P.S.
“Sapere,” “essere consapevoli” della inesorabilità del Destino della Necessità è – essa stessa, in quanto coscienza, in quanto pensiero (tenendo presente che pensare è negare, che consapere è trascendere) – soggiogata alla Necessità oppure no?
Come sarebbe possibile “pensare” la necessità senza distinguersene?
Il punto è caro Giovanni, che purtroppo secondo la proposta filosofica del professor Severino, le tue più che legittime domande, cadono all’interno della follia. Questo perché non tengono conto di un passaggio che, per quanto brutale possa suonare, risulta centrale e in “Destino della necessità” appare chiaramente. Dal punto di vista della Verità, noi e i nostri desideri, pur essendone una parte eterna, non abbiamo alcuna importanza perché non abbiamo il potere di alterare in alcun modo l’ordine con il quale il cerchio dell’apparire ci fa cogliere il sorgere e il tramontare degli enti. L’eternità di ciò che appare, ne implica l’eterna predeterminazione. detto in parole più semplici: gli individui sono tutt’altro che al centro nell’ordine del mondo, così come la loro volontà, i loro desideri, le loro paure. nessun filosofo potrà mai “decidere” di inaugurare l’inizio della fine della Terra isolata dalla Verità incontrovertibile perché nessuno ne ha la potenza, anche se lo vorrebbe. Se è inscritto nel destino dell’essere che un tale auspicio si verifichi allora niente potrà impedire che ciò si verifichi, così come nessuno potrà “decidere” di farlo se è vero il contrario, e cioè che un simile auspicio non è destinato a verificarsi. A questo punto però, c’è da fare i conti con la nostra quotidianità, che tutto sembra tranne un contesto predeterminato all’interno del quale non giochiamo un ruolo attivo. Se si accettano i presupposti severiniani sopra rapidamente espressi, non resta che l’accettazione di essere destinati a vivere la condizione di enti finiti che, per dirla spinozianamente, non potranno mai assumere la prospettiva dell’infinito, ossia della Verità. Di fatto sembra non restare altro che un intellettualismo etico, un sapere che pur non essendo in grado di influire volontariamente sull’ordine delle cose, per lo meno ci pone in una dimensione di consapevolezza. Un simile approdo però, è tutt’altro che una resa dell’individuo alla necessità, la quale resta incontrovertibile sia che se ne condividano le manifestazioni, sia che si respingano; perché è proprio qui che subentra la Gloria. La presa di consapevolezza, da parte degli enti, dell’eternità di ogni singola determinazione dell’Essere, altro non è che una manifestazione di quell’inizio della fine della Terra isolata dalla Verità incontrovertibile. L’entrare nel cerchio dell’apparire di questa consapevolezza è già il segnale che il raggiungimento della Gioia eterna potrebbe essere inscritto nel destino della Terra. Forse anche tu come molti altri cerchi risposte che facciano promesse più gratificanti di un “domani vedremo se era necessario”, d’altronde a questo ci ha abituato la cultura mitica all’interno della quale siamo immersi, purtroppo però questo è il destino delle parti, la prospettiva del Tutto continuerà a sfuggirci, almeno fino al nostro tramonto.
Buongiorno Andrea, volevo ringraziarla perché le sue risposte in merito all’intervento del Maestro mi sono state molto utili per comprendere meglio alcuni punti del suo pensiero che studio da qualche anno. Non sono un filosofo, sono un filologo e, anche per questo, ascoltando il Prof. Severino, nascono dubbi in continuazione. Vengo alla domanda e mi scuso se sarà banale. Non riesco ancora a capire perché sia necessario che il passaggio degli eterni debba apparire sulla Terra isolata dal destino, come se la Terra avesse un ruolo particolare nella filosofia di E. Severino. Perché gli eterni devono apparire sulla Terra? Qual è la particolarità della Terra? Il passaggio degli eterni deve per forza apparire da qualche parte? Mi fermo e la ringrazio.
Meravigliosa conclusione del professor Severino: noi siamo quel cielo (lo sfondo nella traiettoria di mira del cacciatore) di cui il cacciatore non si cura, ma la sua volontà di potenza, vuole la morte degli uccelli in volo. Vedo in questa metafora il cacciatore come tutti i detentori di Potere pubblico che vogliono appunto il Potere e il dominio di tutte le cose anche dell’esser cosa degli Umani. Ma mi domando: come sarebbe possibile, qui ed ora sulla Terra isolata dal destino che la volontà di potenza si trasformi semplicemente in volontà di vivere, allontanando da se il desiderio di Potere e di dominio? Sarà mai possibile che i filosofi dell’avvenire (i filosofi dell’essere, i nuovi filosofi quelli liberi e indipendenti,quelli alla Severino per intenderci) possano un giorno inaugurare l’inizio della fine della Terra isolata dalla verità incontrovertibile, e finalmente incamminarci nel sentiero del Giorno? E’ possibile la Gloria di tutti gli esseri umani qui ed ora o fra mille anni sulla Terra? Io vedo la Terra come l’inferno. E’ possibile pensare l’annientamento di tutti i miti del sentire comune, per instaurare il paradiso in questa vita? Io sono molto pessimista e mi rispondo di no non è possibile. E allora che vuole la filosofia? Vuole eliminare l’angoscia e il dolore dell’attesa della morte, dicendo che in verità siamo eterni e che subito dopo la morte poiché siamo liberi dalla contraddizione raggiungiamo la Gioia eterna. Sinceramente, pur ammirando il professor Emanuele Severino, questo mi sembra poco. Se la vita è lotta, questa lotta deve essere combattuta in nome della Pace e dell’Amore su questa Terra con la speranza che un Giorno non sia mai più isolata da destino e dalla Verità e Giustizia.