Di Mattia Cardenas
All’interno di un fascicolo dedicato alla tradizione del pensiero politico italiano (dal Risorgimento alla contemporaneità) può sembrare del tutto estrinseco il richiamo a Díkē di Emanuele Severino (Adelphi, Milano, 2015, pp. 374) il cui asse fondamentale ruota attorno ad un’analisi, come di consueto in grande stile, delle più antiche categorie del pensiero filosofico. Di fronte alla crisi economico-finanziaria nonché politica del nostro tempo, il contenuto del volume (ma il discorso può ovviamente estendersi all’intera opera del filosofo bresciano) può, quantomeno, apparire ‘astratto’. Ma così non è: poiché la radice ultima che è sottesa alle dinamiche concrete dell’attualità è da Severino ricondotta proprio all’origine del più remoto pensiero greco, che inaugura lo spazio entro il quale si costituisce l’intera storia dell’Occidente, ossia del «mortale».
Díkē o più comunemente «giustizia» è, oggi, l’adeguazione, sempre più estesa a livello planetario, degli enti alla tecnica, che lungi dal rappresentare una deviazione dall’originario pensiero greco, ne è, invece, l’estrema coerentizzazione. Come Severino mostra a più riprese nel corso del volume (a partire da un confronto serrato con l’heideggeriano Der Spruch des Anaximander) adíkia, «ingiustizia», è, oggi, il tentativo, destinato al fallimento, di impedire l’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi da parte della tecnica. Si tratta di comprendere come tale predominio sempre più incontrastato della tecnica che determina, ad esempio, l’impossibilità della democrazia intesa quale argine contro gli squilibri provocati dalla globalizzazione finanziaria, poggi proprio sul volto greco di Díkē, che Severino non esita però a definire ‘sfigurato’.
Ciò che sta all’origine della tecnica e che ne garantisce e ne legittima l’attuale egemonia è l’incapacità, da parte delle categorie classiche del pensiero filosofico e che giungono fino a noi, di stabilire l’autentico volto di Díkē, ossia della Verità incontrovertibile – di ciò che negli scritti severiniani viene definito «Destino della necessità». Ed è all’interno di tale frattura, che coinvolge il senso della Verità, che si inserisce l’inevitabilità della tecnica, ossia di ogni agire, e quindi anche di quelle forme particolari di azione che sono, a mero titolo esemplificativo, la «politica», l’«economia», il «diritto». L’autentico volto di Díkē – della Verità immutabile, incontrovertibile: ossia, negli scritti di Severino, dell’apparire dell’eternità dell’essente in quanto essente («Destino») – non può essere quello stabilito dalla epistème greca che evoca sì l’Inviolabile – ossia il limite oltre cui díkē, la necessità, non consente di andare – ma al contempo autorizza la violazione di quel limite, dal momento che ciò che è, l’essente (to on) è pensato e vissuto originariamente come un niente. La Díkē evocata dal pensiero greco e che domina tutta la storia del «mortale» è appunto l’Occidente, ossia lo spazio entro cui si costituiscono i rimedi (gli immutabili) al fine di preservare l’ente che, di per sé, è considerato e perciò vissuto come un niente. In questo senso Díkē è l’essenza stessa del nichilismo, ossia dell’ epamphoterízein dell’ente tra l’essere e il niente. La forma greca dell’essente è la forma estrema del nichilismo poiché ciò che viene a stabilirsi tra l’ente e la sua positività (tra la cosa ed il suo è) è un legame strutturalmente contingente, legato cioè ad una concezione temporale del principio di non contraddizione (bebaiotate arché).
Il rapporto che l’Occidente instaura tra l’ente e la sua positività è quindi di natura intrinsecamente fattuale, non necessaria. La tecnica, in cui consiste ogni agire, è quindi frutto dell’isolamento che la coscienza ontologica dell’Occidente produce tra la cosa ossia tra un non-niente e la sua positività, il suo essere, il suo è. La produzione di un certo ente A da parte di B è possibile, sostiene Severino, se A è originariamente isolato da tutte le relazioni che esso possiede con la totalità degli enti (e con il suo negativo) – di modo che, entro questa separazione originaria, esso sia effettivamente un prodotto – un qualcosa che può venir ad essere e che ritornerà a non essere. Díkē è la dimensione del diventar altro, della tecnica e quindi di ogni agire. Il volto autentico di Díkē, che viene ad assumere i tratti del «Destino», come indicato negli scritti di Severino e che, in queste pagine, trovano motivi di approfondimento e di integrazione importanti quali una «fondazione ulteriore» dell’eternità dell’essente in quanto essente (si veda particolarmente il cap. IV della Parte seconda, pp. 192-205), non consente alcuna adíkia poiché afferma la necessità dell’essente in quanto essente, ossia istituisce un legame necessario tra la cosa ed il suo è. L’ente non è più libero di oscillare (epamphoterízein) tra l’essere e il niente, ma è eterno. È necessariamente: poiché viene a stabilirsi l’autocontraddittorietà della posizione (nichilistica) che identifica l’essere al suo estremo opposto, ossia al nulla. Il «Destino», la Verità incontrovertibile, si pone, negli scritti severiniani, quale immediata autonegatività del negativo del Destino ossia dell’apparire dell’eternità dell’essente in quanto essente, per cui il volto autentico di Díkē è originariamente negazione di tutte le sue negazioni. Il Destino è perciò l’assolutamente altro dalla «fede» e, anzitutto, da quella fede che viene ad identificarsi con la storia del nichilismo, ossia con quella dimensione evocata dal più remoto pensiero greco e che ha nell’attuale dominio della tecnica il suo esito più coerente. La fede è l’essenza della volontà, ma ogni fede, sostiene Severino, è dubbio. La fede è senz’altro negazione delle negazioni del contenuto in cui la fede ha fede, tuttavia impone il carattere formale della verità a ciò che non è verità. La fede è sì certezza: ossia negazione delle negazioni di un certo contenuto. Ciò nondimeno, tali negazioni non sono lo stare del Destino ossia non sono l’immediata autonegatività del negativo del Destino. La fede è dunque decisione, cioè volontà: volontà, anzitutto, che gli enti possano diventare il loro altro. Il volto autentico di Díkē non consente che fede e volontà possano costituirsi concretamente: il «mortale», ossia colui che è persuaso del diventar altro, ossia del «divenire» degli enti, può credere di volere poiché, si è già ricordato, pone l’isolamento tra la cosa ed il suo è, ed isola la fede dal dubbio, che viene respinto nell’inconscio; ma in realtà non ottiene nulla di ciò che crede di volere. Fede e volontà sono illusioni, le illusioni del «mortale», il quale crede (anche se questa ‘credenza’ è da lui ritenuta l’evidenza suprema) che possa intervenire sugli enti – modificare col proprio agire il corso degli eventi. Un soggetto che decide ha volontà, ha fede: è convinto che ogni ente possa divenir altro da ciò che è. È in altri termini persuaso che mediante mezzi sia possibile raggiungere degli scopi. Ma Díkē mostra che il contenuto di ciò che il «mortale» ritiene l’evidenza suprema – l’esistenza del diventar altro – è fede, ossia è l’attribuzione del carattere formale della verità ad un contenuto che non è l’immediata autonegatività del negativo che è propria del «Destino».
Fuori della dimensione nichilistica dell’Occidente non esiste l’ente in quanto prodotto di una volontà – ma vi è, invece, l’apparire di un ente. Più correttamente: Díkē è appunto l’apparire dell’eternità dell’essente in quanto essente, ossia l’apparire della necessità. L’ente è originariamente sottratto alla dimensione tecnica dell’agire, di ogni agire, e si esprime nella sua eternità, il che equivale all’impossibilità di esser oggetto di qualsiasi modificazione, di qualsiasi volontà che possa farlo diventare altro. Díkē mostra cioè l’impossibilità dell’isolamento, dell’alienazione che coinvolge l’intero Occidente. La volontà quindi non ottiene il proprio fine anche quando crede di averlo ottenuto – poiché l’agire, lo scopo progettato e, successivamente, realizzato, sono mere illusioni: frutto cioè della fede che isola l’ente dalla sua positività originaria.
Ciò non significa che nell’orizzonte dischiuso da Díkē sia impossibile concepire una volontà e con ciò un agire. La dimensione del Destino infatti non è negazione del divenire, ma della sua interpretazione astratta. Vi è una volontà di Díkē: concretamente parlando è l’unica volontà non contraddittoria, poiché sta. La volontà del Destino è appunto l’apparire di ciò che sta e che Díkē, la «giustizia», non può non volere. È l’unica volontà possibile: l’apparire dell’eternità dell’essente in quanto essente, ossia l’apparire della necessità. Ogni agire che non sia concretamente interpretato quale volersi del Destino è un agire nichilistico – un agire che presuppone la nientità dell’ente. Una fede che il discorso filosofico di Severino ha da tempo messo in discussione e che merita una particolare attenzione non soltanto (come è ovvio) tra i cultori della pura teoresi, ma anche tra coloro che riflettono ed operano all’interno di quella forma particolare di prassi che è la «politica».
Questa recensione di Mattia Cardenas è stata pubblicata per la prima volta il 16 giugno 2016 su Filosofia Italiana.