Un filosofo antico

L’eredità di un pensatore risiede nella visione anticipata delle cose o, più nello specifico, nella adattabilità che il pensiero deve avere rispetto al cambiare dei contesti. Si è eredi di un filosofo nella misura in cui si rintraccia una valenza – simbolica e non solo – del suo pensiero e lo si vive nella realtà contingente. 

I segni di vita che Federico Leoni (Università di Verona) ripercorre, descrivendo ciò che Henri Bergson ha lasciato al pensiero, viaggiano nel doppio senso di marcia sopra descritto. Henri Bergson, segni di vita (Feltrinelli) è infatti il volume che Leoni dedica al filosofo francese che prima di tutti e, forse più di tutti, si è riappropriato di uno sguardo greco nei confronti delle cose. Bergson è il filosofo del mutamento e del movimento, dell’intraducibile mouvant, pensatore di una nuova filosofia della natura che si sgancia definitivamente dalla rigidità del moderno. 

Leggere Bergson
Leggere Bergson è un’esperienza particolare: dietro alla sua bella prosa emerge al contempo la solidità di un pensiero articolato e ben strutturato ma anche la sensazione che non tutto sia espresso, ovvero che ci sia un senso recondito nelle parole che può distrarre. Leoni sembra conscio di questa difficoltà e quindi si prodiga per far emergere chiaramente ciò che Bergson, invece, fa solo trasparire. L’operazione si configura, quindi, come un’esegesi del sottotesto bergsoniano in una lettura totale di quello che il filosofo francese ha prodotto. 

Ed è proprio il linguaggio uno degli oggetti della modernità che Bergson sfrutta ma critica. Aver innalzato le parole a elementi di verità significa aver tracciato dei confini arbitrari in una superficie determinata: «c’è della melanconia nell’opera del linguaggio, nella sua stabilizzazione dell’instabile» scrive Leoni. Per ciò Bergson piega la lingua rendendola mobile, evitando

 di stabilizzare e chiudere, di fissare e bloccare il movimento. Esistono tre tipi di parole, dice Bergson – nomi, verbi e avverbi –: il nome è immobile perché è una definizione che in quanto tale esclude il resto; il verbo è il tentativo di mobilizzare qualcosa di immobile, ma proprio questo tentativo ne attesta il fallimento; l’avverbio, invece, «modalizza», cioè dice i modi, «è un operatore del continuo. Ha a che fare con l’intensità più che con l’estensione». L’avverbio si sgancia dalla dinamica tra nome e verbo in cui questo secondo cerca di rendere dinamico qualcosa che non può esserlo. 

«Bergson ama gli avverbi, è abbastanza chiaro. Cioè, ama i modi. C’è qualcosa che dice la cosa come sempre la stessa cosa, nome o verbo, ma c’è anche qualcosa che dice i tanti modi di quella stessa cosa, e forse che quella stessità della cosa è un’immaginazione, erroneamente sovrascritta ai suoi tanti modi» (pp. 22-23).

L’immanentismo, il monismo e Plotino
Abbiamo detto che lo sguardo di Bergson è uno sguardo antico: Bergson è il più greco fra i filosofi del Novecento, colui il quale ha aperto la strada ad altri greci del secolo scorso. La sua “grecità” sta, appunto, nell’abbandonare totalmente la prospettiva del soggetto, della fissità del nome e del verbo. Lo spostamento della conoscenza dall’esterno all’interno (è questa la definizione dell’intuizione) sembra condannare Bergson a una misticità ai limiti del filosofico. Con questo movimento, invece, egli si reinstalla completamente dentro la meccanica originaria della filosofia: «l’intuizione […] non è la facoltà di un soggetto che sa guardare le cose da dentro, ma la struttura di ogni cosa in quanto ogni cosa è un guardarsi, la dinamica di ogni complesso in quanto ogni complesso è un’autocontemplazione e un’autopoiesi. Il Bergson più mistico è il Bergson più immanentista» (p. 83).

L’immanentismo bergsoniano si salda a un monismo di tipo plotiniano: tutta l’opera del francese appare come un tentativo di sciogliere i dualismi, di rendere evidente la loro inconsistenza. L’orizzonte nel quale operiamo costantemente non è fatto di verticalità, bensì è un piano orizzontale e in Bergson «il pensiero dell’Uno si rivela essere stato da sempre un pensiero del campo, del piano infinito, del concatenamento orizzontale». La partecipazione «di tutte le cose con tutte le cose» (p. 54) è l’unione di materialismo e misticismo, di materia e memoria, è la risoluzione massima di qualunque disegno degli estremi. Sì, perché in Bergson gli estremi (i nomi) non sono nelle cose, piuttosto sono nella descrizione delle cose. 

In questo disvelamento dell’inconsistenza delle definizioni Bergson si appoggia sempre a Plotino, quello che Leoni chiama giustamente «il filosofo greco per antonomasia», poiché egli «è il pensatore che ha pensato l’intermedio come campo assoluto, è il filosofo che ha pensato che la mediazione non è mediazione tra estremi ma invenzione degli estremi, disegno in atto degli estremi» (p. 58). Così il due è sempre un effetto dell’Uno, dell’orizzontalità in cui tutto si muove e si condensa in eventi e coaguli. L’Uno non è il fondamento che si sdoppia, piuttosto è il piegarsi continuo. Traslando la fortunata immagine deleuziana delle pieghe Leoni scrive che «l’Uno è una disseminazione di pieghe, non la grande stoffa immobile che precede quelle pieghe» (p. 61). Bergson compie una rivoluzione facendo un passo indietro, togliendo di dosso all’uomo secoli di supremazia del pensiero sull’essere, di azione sulla natura, per condurlo a ritrovare uniformità con le cose e la materia. Quello di Bergson è un monismo in cui la complessità non viene abbandonata semmai riconfigurata e posta sul medesimo piano, in cui tutto ha lo stesso valore entro un terreno orizzontale, nel quale ogni singola cosa è valorizzata poiché in rapporto con tutto il resto. Si domanda giustamente Leoni: «non è verso un orizzonte di questo genere che il nostro tempo ci chiama con un grido che ha qualcosa di disperato?» (p. 68). 

Conclusioni
La filosofia bergsoniana, l’approccio alla filosofia che Deleuze aveva correttamente definito nel suo libro il bergsonismo, esce da questo libro in tutta la sua potenza dirompente. Bergson, infatti, spogliato della retorica vitalista che lo ha troppo spesso ingabbiato (e che ha, molto di più, costretto le interpretazioni successive che sono state fatte del bergsonismo) spicca per originalità e pervicacia. Ma perché però, a distanza di un secolo, c’è ancora bisogno di togliere questo velo al bergsonismo? Leoni sembra avere sullo sfondo questa domanda mentre attraversa l’opera del filosofo francese e la s-piega, mostrando la natura piegata della stoffa. Forse la risposta sta nel fatto che si può essere bergsoniani solo se si abbandonano le certezze più potenti su cui si sono eretti secoli di pensiero: lasciar morire la natura duplice della realtà, composta di una dinamica di potenza e atto, significa sedersi nell’attualità più assoluta. Questo lasciarsi andare coincide però con il senso più greco e profondo della parola libertà.

 

Riferimenti bibliografici
– Leoni, Federico. 2021. Henri Bergson, segni di vita. Milano: Feltrinelli (collana “Eredi”)

Foto di Guillaume Didelet su Unsplash

Laureato in filosofia, lavora nel mondo della comunicazione e dell'organizzazione culturale. Coordinatore della redazione di questa rivista, ha pubblicato il saggio filosofico "Bergson oltre Bergson" (ETS, Pisa, 2018) e "La spedizione italiana al K2" (Res Gestae, Milano, 2024)

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