La Lichtung come origine dell’ominazione
Il problema della nascita dell’uomo ritrova nel paradigma darwiniano e nel fideismo creazionistico le due direttrici principali più note. Ma le moderne scienze etologiche, paleontologiche ed antropologiche hanno tracciato un nuovo percorso di ricerca. Peter Sloterdijk – in Domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung ((In P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger [2001], tr. it. di A. Calligaris e S. Crosara Bompiani, Milano 2004.)) – ha analizzato le più recenti scoperte scientifiche ((Per fare due esempi cui l’autore si riferisce costantemente: UEXKÜLL, Ambiente e comportamento [1934], tr. it. di P. Manfredi, il Saggiatore, Milano, 1967; D. CLAESSENS, Das Konkrete und das Abstrakte. Soziologische Skizze zur Anthropologie, Surhrkamp, Francoforte, 1980.)) e le ha interpretate attraverso le categorie filosofiche heideggeriane e spengleriane, mostrando una terza possibile interpretazione del “divenire uomo”.
Il concetto centrale di domesticazione si delinea a partire dalla nozione heideggeriana di Lichtung (da lichten, diradare), che indica la creazione di una radura attraverso l’atto di “fare spazio” ((Cfr. le precisazioni di Franco Volpi sul termine Lichtung nel Glossario in M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2001, p. 600.)). A tale nozione, Sloterdijk unisce il concetto di «antropotecnica», mutuato dalle tesi dell’antropologia storica, secondo cui la formazione della “specie uomo” si configura come un prodotto o un risultato paranaturale. L’autore intende interpretare l’estatica posizione dell’uomo nel mondo come una condizione in sé “tecnogena” ((Sloterdijk, Domesticazione, cit., p. 122.)). In questa interpretazione si ritrova una implicita associazione dell’idea spengleriana sul rapporto originario fra l’uomo e la tecnica ((O. Spengler, L’uomo e la tecnica. Ascesa e declino della civiltà delle macchine [1931], a cura di E. Mattiato, Piano B, Prato 2008, scil.)) con le nozioni heideggeriane di Lichtung, e-stasi ed essere-nel-mondo attraverso un rapporto comparato con le moderne scienze della natura, come l’etologia e l’antropologia storica. Da questa prospettiva, la Lichtung emerge in seno a due avvenimenti fondamentali: 1) Il divenire mondo del “pre-mondo” (l’ambiente–Umwelt); 2) Il divenire uomo dei “pre-ominidi”.
La nozione di Lichtung riguarda dunque da un lato quel che Heidegger chiama «la meraviglia di tutte le meraviglie: lo scoprire che in generale l’ente è» – nella misura in cui «“è” significa essere aperto, in un modo assolutamente semplice, del tutto sorprendente ed esposto, per gli uomini che meditano sul fatto che sono “nel mondo” o presso l’“essere”» ((Sloterdijk, Domesticazione, cit., p. 122.)) – e dall’altro la questione scientifica dell’emersione della specie “uomo” a partire dalla peculiare trasformazione di un tipo di “essere vivente”. In questo senso l’autore intende andare oltre Heidegger. D’altra parte, egli non intende incappare nell’errore comune a tutte le suddette scienze, compreso l’evoluzionismo, che presuppongono «“l’uomo” per poi ritrovarlo in qualche modo negli stadi preumani» ((Ivi, p. 123.)). Il presupposto di Sloterdijk è invece che il concetto di uomo sia intimamente legato alla sua storia e che il processo di ominazione riguardi il «dramma silenzioso del suo creare spazi» ((Ivi, p. 125.)) . L’uomo condivide con l’animale una simile origine biologica, ma, in quanto prodotto antropotecnico e paranaturale, s’innalza ad uno statuto ontologico che lo rende più vicino agli dei che ai suoi simili. Rispetto all’animale, che vive nell’ambiente circostante (Umwelt), l’uomo diviene qualcosa di mostruoso (Ungeheuer), in quanto il suo apparire nella Lichtung consiste nell’abitare un “mondo”. In tal senso, la Lichtung (che coincide col “divenire uomo”) ((Ivi, p. 126: «[…] Lichtung e divenire uomo sarebbero due espressioni per dire la stessa cosa».)) è un’e-stasi; lo è in quanto indica un’apertura dell’anello-gabbia che circonda l’Umwelt e che non permette alcun tipo di “creazione”. La radura dell’ambiente coincide con la creazione e l’abitazione del mondo. Il “venire al mondo” è dunque caratterizzato da una rottura dall’anello-gabbia dell’Umwelt verso un Fuori di cui l’animale ha un’esperienza limitata o addirittura nulla.
La formazione della mano e l’uso del mezzo duro
Nel passaggio dall’Umwelt al mondo, Sloterdijk pone lo spazio mediano della sfera. Essa rappresenta lo spazio del “poter essere”, in cui avviene la domesticazione ed in cui appare per la prima volta la Lichtung. In netto contrasto col darwinistico struggle for life, che si fonda sulla sopravvivenza dei più forti (o dei più adatti), la sfera si configura come una serra in cui gli animali possono sviluppare un potere plastico grazie alle «speciali condizioni climatiche che si sono autoprodotti» ((Ivi, p. 137. I presupposti scientifici di questo discorso risiedono nello studio di Hugh Miller (Progress and Decline. The group in Evolution, Pergamons Press, Oxford 1964).)). La sfera, in quanto serra che permette a certi animali di usufruire di una sorta di “lusso ambientale”, risponde spazialmente alla domanda sul passaggio spazio-temporale dall’ambiente al mondo. Essa è la condizione di possibilità mediana di questo passaggio. «Lo sferico», precisa l’autore, «è il valore medio tra l’impermeabile chiusura dell’animale nell’anello dell’ambiente e la luminosa [Lichten] apocalissi dell’essere» ((Ibidem.)). In questo passaggio avviene la formazione della mano. I presupposti di questo discorso sono riconducibili a Spengler:
Che cos’è l’uomo? In che modo è diventato uomo? La risposta suona: con la comparsa della mano […]. Essa distingue non solo il caldo e il freddo, il solido e il liquido, il duro e il molle, ma anche il peso, la forma e il luogo delle resistenze, insomma le cose nello spazio ((Spengler, L’uomo e la tecnica, cit., p. 54.)).
Spengler teorizza l’apparizione dell’uomo, in aperto contrasto con l’evoluzionismo, come un evento improvviso. Il carattere predatorio configura solamente un dominio teorico del mondo; è l’apparizione della mano a rendere l’uomo il dominatore pratico. In questo preciso attimo si inscrive la nascita dell’uomo. L’evento improvviso “che fa epoca” schiude il concetto filosofico di evento [Ereignis]; tale interpretazione della nascita dell’uomo si oppone apertamente alla teoria processuale (o progressiva) dell’evoluzionismo. L’attivazione della mano è immediatamente legata all’uso dell’arma e, ancor più, alla sua fabbricazione:
Tutto sorge insieme e improvvisamente. […] Ma non soltanto la mano, l’andatura e l’atteggiamento dell’uomo debbono essere sorti contemporaneamente; anche […] la mano e lo strumento. La mano disarmata per sé sola non ha valore. Essa esige l’arma, per diventare a sua volta un’arma. Come lo strumento si è foggiato sulla forma della mano, così, viceversa, la mano si è foggiata sulla forma dello strumento. È assurdo voler separare queste cose nel tempo (( Ivi, p. 56.)).
Non c’è dunque un vero e proprio processo del divenire uomo. C’è un lampo tecnico che schiude la figura umana. Ciò che fa dell’apparizione della mano il tratto caratteristico della nascita dell’uomo è infatti la sua inseparabilità dallo strumento che verrà impugnato:
Nessun altro animale da preda sceglie l’arma. L’uomo non solo la sceglie, ma la fabbrica […]. Con ciò conquista una terribile superiorità nella lotta contro i suoi simili, contro gli altri animali, contro l’intera natura. È questa la liberazione della costrizione della specie, fatto unico nella storia dell’intera vita sul pianeta.
Con ciò è sorto l’uomo.
Ha reso la sua vita indipendente, al massimo livello, dai condizionamenti del corpo ((Ivi, p. 57.)).
L’uomo rispetto agli animali si libera dunque dalle costrizioni della specie e dai condizionamenti del corpo perché possiede la mano, che è la condizione necessaria affinché egli possa sviluppare un rapporto simbiotico con l’arma. Questo rapporto è all’origine della tecnica: ovvero dell’uso e, ancor più, della fabbricazione dello strumento. Quel che Heidegger definisce Lichtung, in Spengler è l’insorgenza sincronica della mano e dello strumento – dell’uomo e della tecnica. In questa direzione, Sloterdijk sostiene che tramite una pietra – o più genericamente, attraverso il “mezzo duro” – il preominide sviluppa una reazione positiva alle insidie dell’ambiente, distaccandosi dalla corrispettiva reazione negativa della fuga ((Sloterdijk, Domesticazione, cit., p. 143: «Mentre la fuga è l’evitamento negativo dei contatti corporei indesiderati, la tecnica della pietra produce un evitamento positivo, che si trasforma in un potere».)). Da questo momento egli sviluppa un potere, una scelta fra due opzioni possibili. I gesti di colpire e tagliare delineano uno spazio rispetto ai contatti corporei indesiderati, ponendo un medium prototecnico fra l’animale e la natura. L’atto di “colpire” e “tagliare” intorno a sé, sostiene Sloterdijk, «vale per l’ambito della prossimità, che diviene manipolabile […]» ((Ibidem.)), ma è attraverso il lancio che il preominide supera lo spazio più prossimo e crea nuovi spazi – ampliando così il suo “mondo”. Ne viene che la sede primigenia della “casa dell’essere” non è il linguaggio, come afferma Heidegger, bensì il pre-linguaggio del tagliare e lanciare e, ancor più, la sua successiva formalizzazione tecnica ((Ivi, p. 149.)). È dunque dalla distanza creata con l’ambiente che viene premiata una specie piuttosto che un’altra, e non il suo contrario. Con ciò il paradigma darwiniano è destituito di fondamento.

Il linguaggio come trasposizione
Il ruolo del linguaggio schiude uno sviluppo ulteriore. Esso permette una trasposizione e stabilizzazione delle condizioni viziate dell’uomo nella fase che precede l’e-stasi del mondo – ovvero, nella fase di iper-insulazione che genera le condizioni privilegiate della serra. Il tratto fondamentale del linguaggio, che caratterizza profondamente la condizione umana, nonché la nascita e lo sviluppo delle civiltà, è quello di trasformare l’ek-stasi in una en-stasi; ovvero, in una nuova chiusura – stavolta artificiale, antinaturale e nuovamente viziata – della condizione spaziale dell’uomo. Gli uomini sono perciò degli esseri viventi che, prima ancora di “venire al mondo”, vengono alla serra – una serra che «per loro significa il mondo» ((Ibidem.)). In tal senso, Sloterdijk interpreta il concetto di Cura (Sorge) heideggeriano come una costante stabilizzazione della condizione viziata dell’uomo, senza la quale egli non avrebbe alcuna chance di sopravvivenza.
Il viziare obbliga ad avere cura e l’aver cura stabilizza la condizione viziata. Ciò che Heidegger chiama “la cura” è l’autoassicurazione di questa condizione viziata ((Ivi, p. 152.)).
Da queste considerazioni di carattere spaziale, deriva una diversa percezione del tempo. Nella Cura si esprime anche il senso del tempo di questi mammiferi, che devono «divenire animali-da-cura [Sorge-Tiere] […] che si riorganizzano per il giorno successivo e per quello che viene dopo, poiché già ora vivono più nel passato e nel futuro che nel presente continuo dell’animale» ((Ivi, pp. 152-153.)). L’uomo “lussureggia ontologicamente e fisiologicamente” in quanto vive nelle serre; e «un giorno queste serre […] si chiameranno civiltà [Kulturen]» ((Ivi, p. 153. Trad. leggermente modificata da Nicht Gerettet, Versuche nach Heidegger, Suhrkamp 2001, p. 193. Riteniamo infatti che qui Sloterdijk con Kulturen si riferisca alle civiltà, in quanto trasposizioni evolute delle serre (cfr. Ivi, cit., pp. 163-165), piuttosto che alle “culture”.)). La storia della civiltà e della cultura umane sono in quest’ottica interpretate come trasposizioni della sfera-serra del pre-uomo; ovvero, la riproposizione delle condizioni viziate che in origine lo hanno liberato dal rapporto con l’ambiente, schiudendo la sua essenza mostruosa.