A gennaio del 2019, alla soglia dei novant’anni, Emanuele Severino ha dato alle stampe un nuovo libro, Testimoniando il destino. L’intento dichiarato di questo volume è una “discussione” intorno agli scritti di Severino, una sorta di auto-riflessione che il filosofo bresciano compie su tutto quello che, dal 1958 — anno di uscita de La struttura originaria — ad oggi, è andato scrivendo. In altre parole, Testimoniando il destino vuole «coltivare il segno» rappresentato dall’insieme degli scritti severiniani. Poiché l’unica cosa che dobbiamo (non possiamo) fare è, appunto, coltivare il segno, lasciando il campo nel quale il segno si manifesta, alla sua natura. «Quella pianura non ne ha bisogno. Non può nemmeno esser posseduta da alcuno. Essa è anzi l’essenza profonda per la quale si è qualcuno». Questo intento generale, nel libro di Severino, si costituisce di varie nervature che l’autore sembra voler ripercorrere e chiarire.
In primo luogo il testo gli è utile per dare conto, in maniera strutturata e consequenziale (non cronologica) del sistema filosofico sviluppato da La struttura originaria in poi. Questa operazione è chiara già guardando l’indice del testo; ciascuno dei quindici capitoli affronta un tema specifico, ed è commentato e ampliato dalle postille che compongono la seconda parte del libro.
In secondo luogo, in Testimoniando il destino Severino compie un’operazione di emendazione di alcune dissonanze presenti nel complesso dei suoi scritti; dissonanze che appaiono, però, solamente ad uno sguardo ampio sull’intero sistema e che ci consegnano — ci sia permesso di dire — un “processo evolutivo” delle opere severiniane che, passo passo, abbandonano i residui di nichilismo che i primi testi portavano ancora in seno.
In terzo luogo, in questo testo Severino mostra la necessità del suo stesso parlare e dire, la necessità di testimoniare il destino, appunto. Questo testimoniare è necessario (come ogni apparire) ma va capito, studiato e approfondito. Perché testimoniare il destino (e per destino Severino intende la verità, il destino della verità) significa togliere la contraddizione del quale la terra isolata dal destino (ovvero la realtà del nostro tempo, una terra isolata rispetto al destino della verità, dallo sfondo) è invece invasa. Testimoniare il destino non aiuta a velocizzare il processo di oltrepassamento della terra isolata dal destino e il sopraggiungere della terra che salva, ma è il “senso” del filosofare, è ciò che ci permette di non rimanere a bagno nella non verità della terra isolata che pensa gli enti come provenienti dal nulla e al nulla destinati.
È in questo contesto che Severino snocciola alcune questioni interne a tale processo, ovvero la natura e il rapporto del linguaggio (che sia linguaggio della terra isolata o linguaggio che testimonia il destino, il quale è comunque un linguaggio della terra isolata) con il destino, e la necessità che ogni sopraggiungente sia oltrepassato, e quindi che anche la solitudine di questa terra sia oltrepassata da una terra che salva e da un sempre maggiore toglimento della contraddizione, diretta verso la Gloria.
Ma andiamo con ordine.
La struttura originaria
Nel corso del libro, ogni riferimento teoretico che Severino propone e ciascuna forma di “dialogo teoretico” fra le sue opere, si appoggia su La struttura originaria. Questo testo, che Severino pubblicò nel 1958 quando era ancora docente alla Cattolica di Milano, scrive, è «il terreno dove i miei scritti successivi ricevono il senso che è loro proprio». Eppure, in Testimoniando il destino il filosofo bresciano ne evidenzia alcuni limiti e alcune difficoltà linguistiche. Il nucleo essenziale de La struttura originaria, dice Severino, è «circondato da un alone», perché sebbene riesca a «portare alla luce l’«inaudito», rompendo con la storia del mortale, esce dall’urto portandosi addosso dei frammenti della barriera infranta» (p. 99), ovvero è ancora infetto dal nichilismo pervasivo della terra isolata dal destino. Tale atmosfera, un certo «clima teologico-nichilistico» (p. 101) Severino lo rintraccia anche in alcuni suoi scritti successivi, soprattutto in alcune venature dei saggi che compongono Essenza del nichilismo. (Essenza del nichilismo che contiene lo strappo decisivo di Severino dalla tradizione cattolica.)
Il nucleo essenziale, però, rimane intatto e, oggi come allora, rappresenta la vera torsione che Severino ha imposto alla filosofia del Novecento. Sì, perché è realmente inaudito dire che il vero senso del divenire non è quello che pensa l’ente come niente (poiché proviene e torna nel nulla, oscillandovi), bensì il divenire è l’apparire e lo scomparire dagli eterni, un “movimento” dedotto da una incontrovertibile verità: l’essente in quanto essente è eterno.
Emendazione dal nichilismo
Dunque da questa presa di coscienza — ma anche da altre rilevanze che Severino via via nel testo porta alla luce, come alcune tesi che ne La morte e la terra, testo del 2011, vengono contestate dal suo stesso autore ed emendate — Testimoniando il destino acquisisce una coerenza ancora maggiore. Poiché il testo è (anche) una meta-riflessione sui meccanismi di testimonianza; potremmo dire che, ad un piano più profondo, questo libro ci racconta come i grandi puzzle abbiano bisogno di una necessaria e continua messa a punto, e che la filosofia ha sempre a che fare con la non-filosofia.
In tal senso Severino — in piena continuità con quanto aveva iniziato a fare già con Destino della necessità — elimina ogni residuo di “libertà”, ogni iato che possa dare adito ad interpretazione (interpretare è separare, separare è far cessare, far cadere nel nulla), ogni tesi che possa in un qualche modo rimandare all’idea di una possibilità. Ripetiamo, come già fatto in altri testi (su tutti, e in maniera potente, ne La Gloria, testo del 2001, sebbene di quelle tesi si dia ampio e inedito conto, ad esempio nel capitolo VIII, pp. 129-148), in Testimoniando il destino Severino risponde inequivocabilmente alle domande lasciate aperte al termine di Destino della necessità.

La solitudine del nostro tempo dev’essere oltrepassata, come tutte le configurazioni saranno oltrepassate da nuove configurazioni. Non c’è niente di definitivamente inoltrepassabile in questa dimensione nella quale gli eterni appaiono e scompaiono, poiché «se un sopraggiungente fosse inoltrepassabile, esso incomincerebbe ad esser definitivamente e quindi necessariamente unito allo sfondo; il che è impossibile — appunto perché un nesso necessario è impossibile che incominci a essere». È dunque necessario che la terra isolata venga oltrepassata dalla terra che salva, ma questa sarà un aprirsi «del cerchio originario a spettacoli sempre nuovi degli eterni. Questa apertura all’infinito è la Gloria» (p. 130).
Continuare a testimoniare
Qual è, dunque, in questo quadro fortemente regolato dalla necessità, il ruolo della filosofia? Cosa significa testimoniare il destino? Che senso ha testimoniare il destino in un tempo nel quale — come quello della Tecnica imperante — l’isolamento della terra dallo sfondo appare così profondo?
Severino prima di rispondere a queste domande compie un grandioso ragionamento intorno alla relazione che intercorre tra linguaggio e destino. Sì, perché testimoniare è un’operazione che si fa attraverso il linguaggio, qualunque tipologia di linguaggio anche quello matematico, ad esempio. Il linguaggio è una forma del nichilismo, un’espressione della terra isolata perché è «volontà che qualcosa sia segno di qualcos’altro» (p. 231), e in Severino la volontà è Follia. In entrambe le modalità attraverso le quali il linguaggio si presenta, ovvero il linguaggio come testimonianza della terra isolata e come testimonianza del destino, esso altera il proprio messaggio. Altera la cosa che intende descrivere perché la designa, ne fa un segno. Tuttavia il linguaggio non dice, alterandolo, l’opposto del destino, bensì altera solamente quella parte di contenuto che il segno vuole segnare.
La testimonianza del destino è dunque una contraddizione, e non una contraddizione normale ma una contraddizione C, ovvero un finito in relazione con l’infinito che non può e non riesce ad esprimersi all’interno della terra isolata.
Il superamento della contraddizione C, allora, non è dato «dalla negazione del contenuto del destino, ma dall’0ltrepassare l’astrattezza che è l’isolamento dei tratti testimoniati di tale contenuto» (p. 235). E tuttavia, come abbiamo visto, l’oltrepassamento di ogni configurazione è necessario, così come è necessario il tramonto di questa terra e di tutto quello che è “frutto” di questa terra, compreso il linguaggio che testimonia il destino.
Il destino rappresenta «lo sfondo che il linguaggio vuole testimoniare. Lo sfondo sta al di fuori della testimonianza ma la guida» (p. 236) e, malgrado la testimonianza sia inutile al fine di “velocizzare” il tramonto della terra isolata, oltre a guidarla ne richiama la necessità. Perché, scrive Severino, «la testimonianza del destino è destinata ad apparire sempre più concretamente anche e già all’interno della terra isolata» (p. 245), la quale è destinata essa stessa a tramontare e a lasciare spazio alla terra che salva.
Un processo, quello dell’oltrepassamento, che è inevitabilmente collegato alla configurazione vera del divenire (apparire e scomparire degli eterni); un processo, quello legato all’apparire sempre più concreto della testimonianza del destino, che sembra una presa di coscienza da parte dei «popoli» della Follia e dell’isolamento della terra nella quale vivono il loro tempo.
Quello che si prospetta, e che in questo libro Severino intende rimarcare ancora una volta, è tutt’altro che una dimensione nella quale si “attende” un paradiso, o una terra dove l’errore sarà completamente tolto, una terra inoltrepassabile. Eppure ogni configurazione del linguaggio, della terra isolata, e ogni attimo dell’uomo mortale che vive nella Follia, sono essenti eterni. Con questa straordinaria (e per questo terribile) verità dovremmo costantemente fare i conti.
Ma come può il mortale, in quanto errore ed errare, vedere il proprio errore e l’indicazione per la verità? Severino come può indicarla? O è errore o è verità. Tertium non datur. O forse quando parla è l’Io Trascendentale e non quello empirico? Ma il problema rimane.
Grazie
Il mortale è errore nel momento in cui è indirizzato lungo il sentiero della notte. Sul sentiero del giorno, quello in cui ogni ente non è considerato come un niente, il mortale non è in errore, ma è nella verità, nel destino. La sua domanda – avrebbe detto Severino – è una domanda viziata dal fatto che viene posta ancora all’interno del pensare occidentale in cui il mortale è mortale e non può che considerarsi tale, un re che si crede mendicante.
Le consiglio la lettura di un saggio di un giovane studioso, Giuseppe Gris, dal titolo L’escatologia del destino (edizioni Schibboleth, 2020). Non tanto per la tesi che sostiene (nei confronti della quale si può essere d’accordo oppure no); quanto per l’ottima disamina storica e teoretica della differenza ontologica che attraversa le opere di Severino da La struttura originaria a Oltrepassare. Differenza ontologica che per Severino (tanto per evitare fraintendimenti) consiste in questo: “il tutto concreto oltrepassa originariamente la totalità di ciò che appare, per cui ciò che appare, il tutto, appare solo formalmente”. (Risposta di Maurizio Morini)
Mi preme aggiungere che l’attrazione più forte del pensiero di Severino la trovo nell’impressione che la tecnica possa essere al limite della volontà di potenza . Avevo 10 anni quando sganciarono le atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Cari saluti Pietro Albonetti
Vorrei altri consigli per leggere di nuovo Testimoniando il destino.Ultimamente sono entrato nel Castello di Severino con Messinese. Ma l’attrazione del pensiero di Severino è ancora fortissima e insoddisfatta.