Fuori dai luoghi comuni

Spazio e società sono da sempre elementi di un binomio inscindibile, caratterizzato da un rapporto di reciproca influenza. L’architettura, che si configura come studio plastico dello spazio, è in grado di esercitare un potere sulla realtà sociale. Spesso questa influenza può svilupparsi con esiti negativi, assumendo talvolta una forma coercitiva, a volte una forma emarginante. Si rende così necessaria una riflessione su un’architettura del sociale, il cui scopo è quello di permettere l’adempimento di una vita buona, prendendo alcuni esempi proposti dall’architettura e dall’urbanistica contemporanee.

L’architettura, nella sua natura più intima, si configura come una filosofia plastica dello spazio, il quale, plasmato e modificato in base alle necessità contingenti, non rimane inerte, ma viene pensato appositamente per essere vissuto e abitato. L’architettura è da sempre da una parte arte e filosofia, dall’altra necessità pratica di costruire un luogo dove l’attività umana possa svolgersi. Di conseguenza, si instaura una reciproca relazione di influenza e trasformazione tra la costruzione di spazi, luoghi, città ed edifici e la società umana. Nelle pagine che seguono prenderemo in considerazione la principale letteratura sul rapporto tra spazio e società (paragrafo 1), per poi analizzare quali forme di influenza intercorrono fra queste due dimensioni (paragrafo 2). Dapprima prenderemo in considerazione le forme di potere negative (spazio coercitivo ed emarginante), infine passeremo in rassegna alcuni esempi proposti dall’architettura e dall’urbanistica contemporanee per favorire lo sviluppo di una architettura del sociale, che favorisca una società più inclusiva, dove ognuno possa adempiere al raggiungimento di una vita buona (paragrafo 3).

1.- Spazio e società
Il ruolo fondamentale che il concetto di spazio occupa nei confronti della società è un’acquisizione di vecchia data da parte dell’architettura e della filosofia. Secondo Simmel (2018), lo spazio in sé è una forma assolutamente inerte, che solo quando vissuto dall’essere umano acquista una dimensione sociale, generando un rapporto di mutua dipendenza (746): 

Non è la forma di una vicinanza o distanza spaziale a creare i fenomeni particolari del vicinato o dell’estraneità […]. Anche questi sono fatti prodotti unicamente da contenuti psichici […]. Non già lo spazio, bensì l’articolazione e la riunione delle sue parti, che trova il suo punto di partenza nell’anima, riveste un significato speciale.

Quando parliamo della dimensione degli imperi o della numerosità della popolazione in una certa area, non dobbiamo pensare allo spazio come una forma pura che si applica alla realtà: è solo quando questo spazio viene vissuto dall’uomo che acquista specifici confini, viene riempito o svuotato, generando relazioni di prossimità e lontananza, di relazione e conflitto. L’essere umano, con la sua «anima», con il suo pensiero, vive lo spazio e lo abita, interagendo con esso e conferendogli un significato particolare. Un esempio pratico proposto da Simmel è quello del «centro di rotazione» (766): la fissità di un oggetto di interesse o di un immobile favorisce la formazione di un centro di gravità attorno al quale iniziano a svilupparsi relazioni sociali tra individui, facilitando la formazione di una collettività che condivide un comune senso di appartenenza. Il caso tipico è quello delle parrocchie, che creano punti stabili di ritrovo con lo specifico scopo di richiamare a sé una comunità religiosa divisa e isolata, ma esempi altrettanto validi sono riscontrabili in ogni ambiente che abbia la tendenza a generare un centro di rotazione attorno a un interesse specifico, che sia il lavoro, lo sport o lo studio.  

Se da una parte sembra essere la dimensione sociale a popolare e influenzare quella spaziale, dall’altra, quando l’azione umana si configura con l’intento specifico di modificare e plasmare lo spazio, questo assume un ruolo primario nel modellare il tipo di società che si verrà a creare. Questo tipo di azione performativa è ben visibile nell’architettura e nell’urbanistica, intesa come configurazione razionalizzata dello spazio urbano. Già nel V secolo a.C., nell’epoca del razionalismo greco di Socrate e dei sofisti, Ippodamo da Mileto, considerato uno dei primi architetti e urbanisti della storia, comprese lo stretto rapporto che intercorre tra spazio e società. Secondo quanto ci testimonia Aristotele (Viano 2002, 1267b 22 – 1268a 15), Ippodamo ideò il concetto di città pianificata, che applicò in primis alla sua nativa Mileto, dopodiché si spostò ad Atene e qui tracciò le strade del Pireo. Aristotele sapeva bene che Ippodamo non si limitò solo all’azione urbanistica, ma «fu il primo a concepire e teorizzare una visione della polis, del suo territorio e del suo corpo sociale, ispirata a una sistematica e probabilmente simmetrica e armonica ripartizione e suddivisione in parti delle sue componenti. Fu il primo, insomma, a “progettare la città”» (Giangiulio 2015, 118-119). 

Se da un lato l’ordinamento spaziale della città rispondeva a un’esigenza pratica, dall’altro doveva avere un effetto diretto sull’ordinamento sociale: nell’ottica ippodamea, dal buon ordinamento urbano sarebbe derivato direttamente il corretto ordinamento socio-politico della polis, favorendo il buon funzionamento della democrazia. 

2.- Il potere dello spazio
In Spazi politici, Carlo Galli riflette come lo spazio giochi un ruolo fondamentale nei sistemi politici della storia, dall’antichità al presente della globalizzazione. Lo spazio in questione è quello «delle rappresentazioni spaziali implicite, grazie alle quali il pensiero politico si sorregge», ma che allo stesso tempo viene organizzato dalla politica, generando ambienti «di collaborazione e di conflitto, di ordine e disordine, di gerarchia e di uguaglianza, di inclusione e di esclusione, di confini e di libertà, di sedentarietà e di nomadismo, di marginalità e di centralità» (Galli 2001, 11). Così come la politica forma lo spazio e ne è allo stesso tempo sorretta, analogamente la società si configura all’interno di ordini spaziali e contribuisce a modificarli. Ne deriva che le geometrie politiche descritte da Galli sono sia le «architetture del pensiero politico moderno», sia quelle del sistema sociale.

Fatta questa premessa, due sono le modalità in cui la gestione architettonica e urbanistica dello spazio può esercitare un potere negativo sulla realtà sociale, sull’asse della categoria interno/esterno: a) spazio coercitivo, b) spazio emarginante.

a) Lo spazio utilizzato nella sua accezione coercitiva è oggetto dell’analisi di Foucault (1993). In questo classico della filosofia del Novecento, Foucault osserva come il «potere disciplinare», nato tra il XVI e il XIX secolo, abbia portato alla nascita di luoghi di controllo e sorveglianza per punire e correggere chi viene considerato un errore nella società (217): 

l’asilo psichiatrico, il penitenziario, la casa di correzione, lo stabilimento di educazione sorvegliata, in parte gli ospedali – in generale tutte le istanze di controllo –, funzionano su un doppio schema: quello della divisione binaria (pazzo – non pazzo, pericoloso – inoffensivo, normale – anormale); e quello dell’assegnazione coercitiva, della ripartizione differenziale (chi è o deve essere; come caratterizzarlo, come riconoscerlo; come esercitare su di lui, in maniera individuale, una sorveglianza costante, ecc.).

Il modello architettonico che descrive queste strutture per antonomasia è il Panopticon benthamiano: una struttura circolare suddivisa al suo interno in tante celle e una torre centrale dove un sorvegliante può osservare tutti con un solo colpo d’occhio, sfruttando la particolare conformazione delle celle, che permettono di vedere le silhouettes del detenuto, pazzo, malato, scolaro, mentre questi non sanno mai se sono osservati o meno.

La vista gioca qua una funzione fondamentale, rovesciando il principio delle vecchie segrete – nascondere e privare della luce –, in favore di una visibilità totale, che denuda il prigioniero e lo priva di ogni possibilità di nascondersi (218). Nel Panopticon il prigioniero è privato della sua facoltà di osservare, mentre è continuamente sotto il controllo dello sguardo altrui. Il potere di questa struttura architettonica è quello di rinchiudere con la forza e di imporre un controllo diretto e immediato, che faccia sorgere all’interno di ogni prigioniero il dovere di comportarsi bene, o di lavorare meglio, essendo punibile in ogni momento (225). L’obiettivo finale sarà quello di formare una società di individui disciplinati e utili al sistema produttivo, nel modo più efficiente ed economico possibile.

b) Se lo spazio architettonico coercitivo sfrutta il potere della piena visibilità, in modo inverso lo spazio emarginante colpisce coloro che sono considerati fuori dalla società, al suo esterno, rendendoli perfettamente invisibili. Periferie, slums, ghetti, campi profughi, centri di accoglienza, sono tutti «non-luoghi» utilizzati per tenere fuori portata e fuori dalla vista gli outsider, coloro i quali non sono considerati parte integrante del gruppo sociale. Lo spazio svolge qua una funzione escludente, allontana e nasconde, porta all’esterno, impedendo la vista di coloro che non sono considerati accettabili all’interno della società. Come scrive Dal Lago (1999, 224):

La loro “visibilità” estrema, fastidiosa, ingombrante, perturbante non è che l’effetto di ciò che il nostro mondo proietta sulla membrana: il criminale, il povero, il clandestino, l’abusivo, il nomade, l’“estraneo” che pretende di vivere tra noi e che quindi va espulso.

Gli invisibili, definiti tecnicamente «non-persone», sono coloro che cessano di esistere per lo Stato o per la società, dal momento in cui o perdono i loro diritti (è il caso degli immigrati considerati illegittimi, che automaticamente diventano clandestini), o non sono riconosciuti socialmente (è la situazione di poveri, vagabondi, immigrati legittimi o comunità straniere residenti). In entrambi i casi, che si trovino ai confini del diritto o della società, queste «non-persone» vengono fatte sparire o allontanate, rispettivamente fuori dallo Stato o fuori dal centro della città, portate in spazi invisibili, detti appunto «non-luoghi».  

3.- Spazio e vita buona: l’architettura del sociale
In questo ultimo capitolo cercheremo di individuare degli esempi di architettura e urbanistica consapevoli degli effetti sociali della loro azione, puntando a valorizzare quei progetti che favoriscano un processo di corretto riconoscimento tra i gruppi sociali all’interno del complesso sistema urbano. Va fatta una premessa: non ci sono teorie e progetti che possano essere validi e funzionanti a priori, ma molto dipende dal contesto geo-storico in cui sono collocati. L’architettura nasce con l’obiettivo di coniugare funzionalità pratica e arte, ma sempre in un raggio d’azione contestuale, che tenta di rispondere a problemi e necessità contingenti, strettamente legati al periodo in cui si collocano. 

Detto questo, l’azione architettonica contemporanea sembra aver perso un po’ la bussola. Da un lato, negli ultimi decenni, si è osservata in Italia e negli altri paesi europei un’incapacità di saper rispondere alla crescente domanda di costruzione, dovuta all’incremento demografico e all’aumentare dei flussi migratori, portando alla nascita di periferie urbane malridotte e isolate; dall’altro, gran parte delle costruzioni contemporanee sono diventate delle pure manifestazioni della tecnica, prive di senso e di significato. Sembrano essersi avverate le previsioni di Horkheimer e Adorno (2010, 126-181): «la civiltà attuale conferisce a tutti i suoi prodotti un’aria di somiglianza». La cultura è diventata un’industria che mercifica i suoi prodotti, li replica in una totale mancanza di innovazione. È un processo di ri-produzione tecnica, di grigia imitazione, asservita al dominio totalitario dell’«illuminismo», della ragione strumentale. Anche l’architettura ha subito l’influenza di questo sistema: da una parte «le sedi decorative delle grandi amministrazioni e delle esposizioni industriali […] i palazzi monumentali, tersi come cristalli, che si vedono spuntare da tutte le parti, rappresentano la pura razionalità priva di senso», dall’altra le «case più vecchie intorno ai centri di cemento armato hanno già l’aria di slums, e i nuovi bungalows ai margini delle città cantano già […] le lodi del progresso tecnico, invitando a liquidarli, dopo un rapido uso, come scatole di conserva». Al centro della città sorgono i grattacieli splendenti, pura espressione della tecnica priva di significato, al di fuori di esse invece le periferie crescono incontrollate, come «scatole» di contenimento per abitanti, il cui unico scopo è quello di essere «produttori» e «consumatori». 

Fortunatamente non tutta l’architettura e l’urbanistica contemporanee sono riducibili a questo. Per concludere proveremo a proporre due esempi di architettura sociale, che sfruttino il loro potere in modo positivo, favorendo un processo di riconoscimento e di autorealizzazione nel rapporto intersoggettivo. L’esempio delle Savonnerie Heymans è particolarmente interessante: si tratta di un progetto di social housing sorto sui resti di un saponificio abbandonato a Bruxelles, in Belgio. L’obiettivo principale dei suoi creatori, il gruppo MDW Architecture, era quello di creare un ambiente plurifamiliare, comunitario, dove ognuno potesse avere i propri spazi. L’attenzione è posta sul concetto di buona abitazione, guardando alle molteplici e variegate richieste e necessità delle diverse famiglie che vi abitano, considerando le loro condizioni economiche precarie. A questo si aggiunge un occhio di riguardo al contesto ecologico, con la presenza di parchi, giardini e piccole terre da coltivare, a seguito di un importante processo di purificazione e bonifica delle terre inquinate dal vecchio saponificio. L’esito finale è la nascita di un ambiente affascinante, inclusivo e a contatto con la natura, che favorisce la formazione di un sentimento di comunità.

L’altro esempio di architettura sociale si può vedere in una corrente teorica nata negli ultimi anni, che prende il nome di architettura parassita (Marini, 2015). Il concetto è molto semplice: risolvere il problema urbano del consumo di suolo e riqualificare le zone abbandonate o problematiche, come le periferie, andando a deformare l’esistente, ovvero costruendo sopra o dentro edifici che già esistono. Si tratta di un’architettura nomade, non appartenente a nessun contesto o luogo, perfetta per adattarsi e conformarsi alle necessità contestuali, parassitando gli edifici su cui va a inserirsi. In questo modo si risponde alla crescita demografica e ai problemi sociali urbani mediante un’azione su ciò che già si ha, riqualificando e ristrutturando. È una soluzione ecologica che mira a trovare una soluzione al problema delle periferie, cercando di ricucire le fratture sociali a partire dal rimaneggiamento dello spazio fisico. In questo modo, l’architettura diventa consapevole degli effetti sociali che lo spazio ricopre, ascoltando la voce degli invisibili e il loro bisogno di essere riconosciuti come una specifica comunità e come parte integrante della città.

Riferimenti bibliografici

  • Dal Lago, Alessandro. 1999. Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale. Milano: Feltrinelli.
  • Foucault, Michel. 1993. Sorvegliare e Punire. Nascita della prigione. Torino: Einaudi.
  • Galli, Carlo. 2001. Spazi politici. L’età moderna e l’età globale. Bologna: Il Mulino.
  • Giangiulio M., 2015, Democrazie greche. Atene, Sicilia, Magna Grecia, Roma, Carocci.
  • Horkheimer, Max; Adorno Theodor W. 2010. Dialettica dell’illuminismo. Torino: Einaudi.
  • Marini Sara. 2015. Architettura parassita: strategie di riciclaggio per la città. Macerata: Quodlibet.
  • Simmel, Georg. 2018. Sociologia. Milano: Meltemi.
  • Viano, Carlo Augusto (a cura di). 2002. Aristotele: Politica. Milano: BUR.

Sitografia

MDW Architecture, 2012, “Savonnerie Heymans” ArchDaily. Accesso 26/11/2022. https://www.archdaily.com/220116/savonnerie-heymans-mdw-architecture

 

Foto di Sean Mungur su Unsplash

Nato nel 1998 a Cottanello, piccolo paese nella campagna sabina. Vive a Milano, dove sta conseguendo la laurea Magistrale in Scienze Filosofiche. Appassionato di filosofia fin dagli anni del liceo, nel tentativo di capire come il passato si intrecci con il presente.

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