Quei Nazisti dei Romani

Nella storia del pensiero esistono delle tesi che, a causa della loro eterodossia, sono spesso emarginate fino ad essere rimosse. È il caso di quella contenuta in Riflessioni sulle origini dello hitlerismo di Simone Weil, saggio pubblicato nel 1939.  La tesi è semplice: l’eredità politica e militare dell’antica Roma è stata ripresa e attualizzata nei tempi moderni dalla Germania nazista. Simone Weil affronta la questione dal lato più scomodo formulando un’osservazione che dà la misura della sua profondità: «Certo è per noi difficile arrivare ad ammettere una specie d’identità tra il nostro nemico (la Germania, ndr) e la nazione a cui la letteratura e la cui storia costituiscono quasi esclusivamente la materia di quelli che noi chiamiamo studi umanistici». Eppure tutto ciò non la trattiene dall’idea secondo la quale il fenomeno della Germania totalitaria trae il suo nutrimento politico e culturale nella storia di Roma, tanto repubblicana quanto imperiale (e non solo da Cesare come si legge in alcune recensioni).

Il modello della politica di potenza di Roma
La riflessione di Weil traccia un vero e proprio identikit dello stato totalitario. Per fare ciò la filosofa si serve dell’esempio storico dell’antica Roma, analizzato attraverso le opere dei grandi scrittori dell’epoca, in modo particolare le Storie di Polibio. Da esse si evince che né prima né dopo (almeno fino all’età moderna) si ebbero organismi politici simili a quello di Roma la quale, con la sua politica di costante aggressione, non solo ha minacciato ma ha anche annientato la libertà stessa del mondo. Per riuscire in questa impresa, i Romani hanno riunito l’organizzazione materiale, i princìpi politici e la gestione dei sentimenti pubblici.

Dal punto di vista dell’organizzazione materiale è nota la disciplina dei Romani a partire dallo strumento che ha consentito loro di diventare i dominatori del mondo, l’esercito. In questo senso la madre di tutte le guerre fu quella contro Cartagine, la cui sconfitta fu il crollo dell’ultimo bastione all’espansione romana. Si tratta dell’unica differenza rispetto ai tempi moderni in cui la Germania di Hitler non riuscì a sgretolare l’ultimo argine contro il suo dominio costituito dall’Inghilterra. 

Il segreto del successo dei Romani fu la gestione dei successi militari che consentì loro di estendere il dominio a tutto il mondo allora conosciuto. La propaganda fu in questo lo strumento principale. Ma l’esercizio del potere fu anche accompagnato da meccanismi psicologici uniti ad un sistematico quanto raffinato utilizzo di alcuni principi politici.

Il primo era quello di conservare il massimo prestigio in tutte le circostanze, annichilendo resistenze e rimostranze vittimarie dei popoli sconfitti. Questo avveniva con la pratica di radere al suolo le città e di massacrare le popolazioni sconfitte. In questo modo i vinti non avevano più letteralmente la possibilità di esprimere il proprio punto di vista e di consegnare alla storia i documenti dell’ingiustizia patita. 

Un secondo principio fu la negazione del principio pacta sunt servanda: i Romani furono maestri nel violare i patti sottoscritti salvaguardando le apparenze. Persuasi nel rifiutare l’idea che la forza bruta fosse sufficiente per imporsi, i Romani seppero crearsi fama di buona lealtà con l’esercizio di crudeltà studiata e premeditata. Per fare ciò, essi dovevano dare l’apparenza di coloro che facevano le guerre per legittima difesa, insieme all’intima convinzione di essere coloro che venivano attaccati. Tale aspetto si univa a quello della buona fede, tanto che «i Romani – osserva Weil – godevano di buona coscienza anche in mezzo ai crimini». Una coscienza così impermeabile alla verità ebbe come conseguenza la debolezza del pensiero: di fatto, l’unico pensiero originale che i Romani seppero concepire fu quello di un popolo destinato ad essere padrone del mondo. In questo senso il giudizio è tranciante: «La vita spirituale a Roma era ridotta quasi a un’espressione della volontà di potenza» e autori come Ennio, Virgilio, Orazio, Cicerone, Tito Livio e Tacito hanno sempre scritto con un fine politico. 

Il terzo aspetto della gestione romana del potere fu quello della manipolazione dei sentimenti. L’idea principale che i Romani ebbero a instillare fu la percezione secondo la quale il nemico non aveva scampo. La perfidia fu il tratto più importante e il terrore lo strumento del dominio. La forza di Roma, unita alla crudeltà implacabile del suo esercizio, era talmente schiacciante che il dominio, assunto come cieca forza della natura, finiva per paralizzare gli animi dando la sensazione di essere una necessità.

Il rapporto tra Germani e Tedeschi
L’analisi di Weil aggiunge a tale quadro un altro elemento per nulla scontato: l’idea cioè che tra i Germani e i Tedeschi non c’è la minima parentela. Questa osservazione trae spunto dallo studio delle opere di Tacito sulla Germania. Da queste si vede come l’inclinazione alla guerra dei Germani era dovuta al loro disprezzo per il lavoro, esattamente l’opposto dei Tedeschi con la loro inclinazione per il lavoro ostinato e disciplinato. Se gli antichi Germani amavano la guerra, i moderni Tedeschi amano il dominio per esercitare il quale c’è bisogno della pace, la pax romana. Se i Germani di Tacito erano liberi, i Tedeschi sotto il governo di Hitler sono schiavi: i popoli antichi non conoscevano un potere assoluto e arbitrario, quelli moderni invece sembrano esserne alla ricerca e trovano nei Romani l’esempio più convincente. 

La Francia vero archetipo dello Stato totalitario moderno
Storicamente, la prima nazione che ha ripreso l’esempio dei Romani è stata la Francia. Il primo regime assoluto dopo quello di Roma fu quello di Luigi XIV e il compito materiale per la sua costruzione fu svolto da Richelieu, il vero architetto dello Stato totalitario. Fu proprio il cardinale a creare una macchina anonima, produttrice di violenza e consenso, implicante il disprezzo di ogni morale e il sacrificio di se stessi. L’apparato statale francese, ripreso poi da Napoleone, è stato il vero archetipo che, in età moderna e contemporanea, ha permesso lo stabilirsi dello Stato, “il re degli orgogliosi” come usava definirlo Hobbes. Da questo punto di vista l’analisi si riallaccia ad altri testi della Weil, segnatamente Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale e Il libro del potere. In entrambi la Weil è chiara nell’indicare nello Stato le ragioni della grande malattia sociale che viviamo ancora oggi. Analisi che fanno della filosofa uno dei principali esponenti del pensiero liberale (ancorché non riconosciuta). 

Sovranità e autorità assoluta dello Stato
Le similitudini tra Romani e Nazisti non si fermano a quelle già esposte. Si potrebbe obiettare che i Nazisti, con la persecuzione sistematica di ebrei ed oppositori politici attuata tramite i campi di concentramento, si sono spinti più in là dei Romani. No, risponde la Weil, i campi di concentramento non sono niente altro che la riedizione su scala industriale dei giochi dei gladiatori, medesimo il piacere sadico e gratuito che essi esprimevano. Per quanto l’implicita analogia tra Dachau e il Colosseo possa disturbare, non di meno urtante è l’osservazione secondo la quale è sbagliato sostenere che i Romani hanno creato lo spirito giuridico in quanto, se è vero che essi si dedicarono al diritto, lo subordinarono alla sovranità e all’interesse dello Stato. Come può esserci, si chiede Weil, un ordine giuridico (che presuppone l’uguaglianza dei suoi membri e un ente capace di punire le sue violazioni) nel momento in cui i membri che lo compongono hanno forze diverse e sistematica volontà di imporsi l’uno sull’altro? Dopo la prima guerra mondiale, due sono i dogmi rimasti indiscussi: quello della sovranità nazionale e quello della centralizzazione amministrativa. Con essi, parlare di diritto è un esercizio di retorica. Si aggiunga poi che nei tempi moderni, così come a Roma, la vera obbedienza non è data al sovrano (in quanto uomo) ma all’autorità assoluta dello Stato, unica religione a cui gli uomini obbediscono.  Le diversità ideologiche (il conclamato razzismo ed antisemitismo dei Tedeschi di Hitler) non valgono per istituire una differenza significativa tra i due regimi perché, sostiene Weil, «saremmo singolarmente stupidi, ancor più stupidi dei giovani hitleriani, se prendessimo sul serio il culto di Wotan, il romanticismo neo-wagneriano, la religione del sangue e della terra, e credessimo che il razzismo sia una cosa diversa da un nome un po’ più romantico del nazionalismo».

Quello di Weil è un grande trattato sulle cause dell’oppressione e sui meccanismi di potere dello Stato. Leggendolo ci si accorge di quanto l’odierna scienza politica sia distante da una vera riflessione critica sui rapporti tra Stato e individuo e sui rapporti tra gli Stati (si veda a questo proposito il saggio sulle cause della guerra, fenomeno interno prima che esterno). Non mancano oggi i bravi commentatori, alcuni anche brillanti, come vediamo nel campo della geopolitica tornata di moda. Ma gli sguardi sono come ciechi e privi di direzione. Direzione che invece Simone Weil, con il piglio di chi ci invita a riflettere, ci prospetta con la sua profonda quanto argomentata analisi.

Riferimenti bibliografici
Weil, Simone. 2009. Riflessioni sulle origini dello hitlerismo in Sulla Germania totalitaria. Adelphi, Milano.
 

Foto di Ilona Frey su Unsplash

Insegnante con dottorato di ricerca in Filosofia. Vive e lavora a Nocera Umbra, autore del podcast che prende il nome dal suo motto: Hic Rhodus Hic salta.

2 Comments

  1. Nello stesso anno, 1939, Leo Strauss pubblicava negli Stati Uniti il saggio “The Spirit of Sparta or the Taste of Xenophon”, denunciando tra le righe la matrice spartana del nazionalsocialismo (che a me pare molto più calzante della tesi weilana). Suggestiva certo l’associazione proposta da Simone Weil, eppure sembra essere più adeguata per definire la derivazione (abbastanza scontata, tanto più che è apertamente dichiarata), del fascismo dalla romanità. Se non si tiene a mente la differenza piuttosto marcata tra nazionalsocialismo e fascismo si cade facilmente in errore.

    1. Secondo me i due pensatori scrivono, Leo Strauss tra le righe, Simone Weil sopra le righe (se vogliamo rimanere in questo registro linguistico), per denunciare due aspetti: 1) la natura intrinsecamente totalitaria di ogni Stato, sia antico che moderno; 2) rimuovere l’idea secondo cui il nazismo è un fenomeno misterioso nato senza un come e senza un perché, relegato in ambiti puramente mitici e irrazionali, mettendo in risalto la sua natura storica e strutturale. In questa operazione entrambi fanno vittime (la Weil soprattutto) che tuttavia interamente innocenti (alcuni aspetti della storia romana) non sono.

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