Lo studio dei grandi testi filosofici è l’ispirazione originaria di RF perché crediamo che solo in un loro attento ascolto sia possibile il ritorno a quell’universitas filosofica ormai scomparsa dietro le ragioni sia pur legittime della struttura e del ruolo. Si tratta di una questione tanto di contenuti quanto di metodo. Per i contenuti, in quanto solo con lo studio diretto dei grandi testi è possibile sperare di avere grandi pensieri: filologia e filosofia sono sorelle strette. Per il metodo, in quanto non si tratta soltanto di leggere ma di dialogare co’ l’antiqui spiriti (intesi evidentemente non solo in termini cronologici ma soprattutto spirituali) per comprendere anche le condizioni grazie alle quali un pensiero riesce a farsi scrittura mantenendo la sua ricchezza e fecondità. La serie, ogni quarta domenica del mese, sarà aperta proprio con questo tema attraverso uno studio su Filosofia dell’espressione di Giorgio Colli, testo di grande complessità consistente in un coraggioso tentativo di scavare fino al punto in cui il pensiero si unisce alla vita, istante immane in cui l’intuizione si fa scrittura.
Un pensare antico per un’unica verità
Pochi dispositivi del pensiero hanno la capacità di suggestionare la mente umana come l’intuizione, specialmente quando essa si faccia innanzi a chi si stia inerpicando lungo il sentiero della verità. Un lampo, una folgorazione che d’impatto sembra aprire orizzonti nuovi e inesplorati e che paiono perfino capaci di riallacciare le trame interrotte di ragionamenti ancora acerbi. Si pensi a Nietzsche e al suo eterno ritorno, il pensiero più abissale che lo sorprese mentre passeggiava in Engandina, o al celebre eureka! di Archimede quando intuì la spinta idrostatica e si mise a correre per le vie di Siracusa tanto era smanioso di raccontare quanto scoperto. Una potenza rivelatrice che poi però, deve sempre scendere a compromessi con le vie della ragione e del linguaggio per essere condivisa, e il cui racconto, parola dopo parola, sembra svilirne la forza, indebolirla, diluirla fin quasi a renderla irriconoscibile ai nostri stessi occhi. Parlare del Colli pensatore è un compito molto arduo, sia per la straordinaria capacità di sviscerare i contenuti del pensiero, degna della sua grande fama da filologo, sia per la sua profonda contaminazione con la semantica del mondo presocratico. Come scrisse Nietzsche, altro autore a lui particolarmente caro, in Al di là del bene e del male, «quando guardi a lungo nell’abisso l’abisso ti guarda dentro»; ecco forse la metafora più efficace per esprimere cosa significò lo studio degli antichi per Colli. Lo portò a pensare con i loro stessi occhi. Quegli occhi ingenui di chi sente ancora molto da vicino il mondo e non ha paura di scavarne la concretezza alla ricerca della verità, perché non c’è nessuna soggettività a frammentare il logos, nessuna somma di prospettive da sistematizzare con metodo scientifico alla ricerca di una visione comune. C’è solo il mondo, la vita e il nostro farne parte, un fatum e il suo articolarsi di fronte agli sguardi coraggiosi di coloro che per primi hanno insegnato all’uomo a pensare. Non lo nasconde Colli, le condizioni che portarono all’emersione del pensiero filosofico in Grecia furono uniche e mai più replicate, ma da quel piccolo bagliore emerse il mondo.
Parmenide, Eraclito, ma anche pensatori meno noti come Empedocle; è ricchissimo il mosaico degli interlocutori scelti da Colli. Pur nella diversità degli approcci però, c’è un tratto che sempre ritorna, una consapevolezza che poi farà balzare in avanti la sua riflessione fino a Kant: la verità è incomunicabile. Non inaccessibile, sia chiaro, non si possono porre limiti alla potenza dell’intuizione, tuttavia, i mezzi della ragione sono inadeguati a renderne conto fedelmente. La vera natura del mondo resta un noumeno del quale possiamo conoscere rappresentativamente solo gli aspetti fenomenici. La conoscenza quindi, non è che l’approcciarsi a qualcosa che rimanda ad altro, senza però che questo altro possa mai essere nominato. Cos’è dunque, la vita? Come si può vivere questa condizione di ricerca che più ci avvicina alla “sostanza del mondo” più parimenti ce ne allontana? «Chi tenta di interpretare il mondo come un enigma è mosso da un istinto serio, ferreo, profondo, violento, quasi per il presentimento che infondo alle cose vi sia un filo conduttore, scoperto il quale sia possibile tracciare il disegno per uscire dal labirinto della vita e, insieme, da un istinto giocoso, lieve, avido di imprevisto, dall’ebbrezza di chi toglie con meditata lentezza i veli all’ignoto» ((G. Colli, Filosofia dell’espressione, Adelphi, Milano 1996, p.236.))
L’unica via, sembra dirci Colli, è quella dell’accrescimento, dell’innalzamento della nostra natura ad un livello superiore, capace di danzare sulla duplicità di gioco e violenza in cui si articola questa realtà rappresentativa. Per questo il confronto con un’opera come Filosofia dell’espressione può rivelarsi tanto fecondo, perché percorrendo le sue pagine ci si avventura in viaggio a ritroso capace di risalire il percorso involutivo del pensiero sino a recuperarne la luce originaria. Dunque: «Alla fine il riso, oppure? Sì, ma il riso è uno spasmo espressivo. I dadi sono gettati e ancora rotolano: eppure, quando si arrestano, mostrano qualcosa che non è un giuoco». ((Ivi, p.237.))
L’astratto è un tramite per giungere, per alludere allo svolgimento emozionale … DN, 106