Dicevamo, nello scorso saggio, che la domanda intorno alla realtà si converte nella domanda intorno alle cose che si presentano nell’esperienza ordinaria. La caratteristica fondamentale delle cose è che esistono. Con l’espressione “cosa”, del resto, è possibile indicare un qualunque oggetto, proprio in quanto “gettato di fronte” (ob-iectum) al soggetto. Certamente, può variare il campo dell’esistenza delle cose, nel senso che alcune si collocano nell’esperienza sensibile e altre nell’universo dei pensieri o delle fantasie. Tuttavia, il tratto distintivo di ciò che esiste (dell’esistente o ente) è che si presenta sempre come dotato di una propria forma determinata, una forma, cioè, che consente di riconoscerlo e di distinguerlo da ogni altro esistente (ente).
In primo luogo, ciò significa che non è possibile disgiungere l’esistenza di qualcosa dalla sua determinatezza, nel senso che ciò che esiste si manifesta sempre in una forma che consente di determinarlo. In secondo luogo, se consideriamo gli esistenti che appartengono all’universo percettivo-sensibile, che viene assunto dal senso comune come la vera realtà, allora si deve notare che ciò che esiste si caratterizza per il fatto che manifesta una presenza e tale presenza viene in una qualche misura rilevata dai nostri sensi.
Se, ad esempio, sono in un mezzo pubblico, rilevo la presenza di molteplici persone oltre che di molteplici oggetti. Ciò mi induce ad affermare che quelle cose (incluse le persone) esistono e io considero la loro esistenza come la più naturale delle mie constatazioni. Esistenza e rilevamento di presenza sono così vincolati che spesso vengono confusi, cioè non si presta la necessaria attenzione al fatto che la prima è frutto del secondo: senza un rilevamento non è possibile affermare alcuna esistenza.
Osservando ciò che mi circonda nel mezzo pubblico, sono indotto a pensare che tutte quelle cose (incluse le persone) esistano indipendentemente da me, nel senso che penso di rilevare la loro presenza a causa della loro esistenza, e non viceversa. Se non che, tale convinzione prescinde da un fatto estremamente rilevante e cioè dal fatto che, se io non fossi salito in quel mezzo pubblico, l’esistenza di quelle cose (cioè la loro presenza in esso) almeno da me non sarebbe stata rilevata. Che cosa implica questa notazione? Implica forse che quelle cose esistono perché ci sono io che le rilevo?
Il punto è nodale. Le domande che si impongono sono le seguenti: se non ci fosse stato un qualunque io, cioè un soggetto che è salito su quel mezzo pubblico, la presenza di quelle cose sarebbe stata rilevata? E inoltre: se la presenza di quelle cose non fosse stata rilevata, come si sarebbe potuto dire che esse esistono? Ebbene, a noi sembra che il tema dell’esistenza sia fortemente vincolato al modo in cui si risponde alle due domande sopra formulate.
Alla prima domanda riteniamo di poter rispondere così: senza un sistema di rilevamento, non è possibile affermare la presenza di una qualche cosa, almeno se si tratta di una presenza sensibile. Di conseguenza, e questa diventa la risposta alla seconda domanda, senza la presenza di una qualche cosa, una presenza che venga appunto rilevata, non è possibile affermare l’esistenza di quella stessa cosa.
Con questa necessaria conclusione: l’esistenza delle cose sensibili si vincola a una qualche forma di rilevamento della loro presenza o, usando altre parole, esiste ciò di cui si rileva la presenza. Il tema dell’esistenza – questo almeno è il punto di vista che intendiamo sostenere – si vincola al tema della presenza e, quindi, al tema del rilevamento. Si impone così la necessità di chiarire il senso del rilevamento e le condizioni richieste affinché esso si realizzi.
La forma più comune di rilevamento è quella che si ha quando è compiuto da un soggetto, cioè da un essere umano. Tuttavia, si potrebbe far valere il fatto che l’uomo non è l’unico a compiere un rilevamento: l’esistenza di molte cose, infatti, potrebbe venire rilevata anche dagli animali.
In quest’ultimo caso, tuttavia, non può venire sottaciuto un aspetto che è della massima importanza: solo l’uomo ha coscienza dell’autentico significato di queste due espressioni. Che è come dire: solo l’uomo sa dare un significato alla “presenza” e all’“esistenza” delle cose nonché alla presenza e all’esistenza degli altri esseri viventi.
Pertanto, non si può evitare di affermare che, se l’uomo non fosse cosciente di sé e del proprio essere cosciente, non potrebbe affermare di rilevare alcunché né saprebbe dire che cosa significa “rilevare” e che cosa è, quindi, una “presenza”.
La domanda fondamentale, insomma, si rivela questa: se non si sa di rilevare, si rileva comunque? A questa domanda recentemente gli scienziati hanno dato una risposta affermativa: noi rileviamo la presenza di molte cose delle quali non siamo coscienti. In esperimenti condotti con persone, che presentano lesioni cerebrali in specifici punti, si è scoperto infatti che esse, pur dichiarando di non vedere certi oggetti, poi sanno preferirli ad altri in una lista di oggetti che li comprende. Un altro esperimento, definito della “cecità al cambiamento”, ha mostrato che molte persone registrano informazioni sul cambiamento che ha interessato determinati oggetti pur senza esserne consapevoli. Precisamente questi risultati sperimentali hanno indotto gli scienziati ad affermare che si danno anche percezioni inconsapevoli.
A nostro giudizio, l’espressione “percezione” dovrebbe venire riservata a un rilevamento cosciente. L’acquisizione di molteplici informazioni, che permangono inconsce e che vengono elaborate in forma essa stessa inconscia, mediante quelli che vengono definiti “processi cognitivi”, non può venire messa in discussione e, tuttavia, deve venire distinta dalla percezione, che si avvale bensì di quei processi, ma aggiunge la coscienza ad essi. Se non si è consapevoli del percetto, insomma, questo non può esibire una presenza e di esso, pertanto, non si può affermare l’esistenza.
A nostro giudizio, parlare di un rilevamento tacito o implicito o inconscio di una presenza è fare uso di un’espressione impropria. Non si tratta di un rilevamento per la ragione che, anche se si riceve una qualche informazione su qualcosa, non potendo disporre di tale informazione in forma cosciente non si può neppure pervenire a quel risultato che è rappresentato dalla sua percezione.
Se percepisco, ma non sono consapevole di ciò che percepisco, allora non si configura una percezione, ma solo una ricezione di uno stimolo che veicola alcune informazioni. Soltanto quando l’elaborazione delle informazioni cessa di essere solo meccanica, o sintattica, e diventa cosciente, cioè anche semantica, si configura il percetto, il quale acquista un significato nell’atto stesso in cui viene rilevato, diventando così un “esistente”.
Articoli di questa serie già pubblicati
- Il realismo contemporaneo (I) (10 settembre 2023)
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