Logica e Linguaggio per la Storia

In una conferenza del 1924 sul concetto di tempo, Heidegger sosteneva che «la possibilità di accedere alla storia si fonda sulla possibilità secondo la quale un presente sa essere di volta in volta futuro. (…) La filosofia non arriverà mai a capire la storia fintanto che la analizzerà come oggetto da considerare secondo il metodo. L’enigma della storia risiede in ciò che significa essere storico» e questo enigma è determinato interamente dal modo in cui viviamo il nostro rapporto con il tempo.

Dieci anni più tardi, in un corso di lezioni del semestre estivo del 1934, Heidegger ritorna sull’idea in base alla quale l’essenza della storia significa interrogarsi sul nostro rapporto con il tempo. Ma stavolta il percorso è molto più lungo e complicato, anche a causa delle sue vicende personali. Nell’aprile di quell’anno Heidegger aveva dato le dimissioni come rettore della facoltà di Friburgo dopo appena un anno dal conferimento dell’incarico. Il giorno dell’inizio del corso la sala era piena di funzionari del partito nazionalsocialista curiosi di conoscere la posizione dell’influente filosofo in merito al tema annunciato, Lo Stato e la scienza. Dalla cattedra da cui prese la parola, Heidegger informò invece che l’argomento del corso era cambiato: non più la politica ma il rapporto tra logica e linguaggio. La sala si svuotò rapidamente, a rimanere furono soltanto gli studenti. Il filosofo cominciava anche da un punto di vista teorico a prendere le distanze dalla politica per attingere di nuovo alle profondità del pensiero.

Il valore della logica
Heidegger parte dal Logos nella convinzione che la logica non è un addestramento al procedere del pensiero ma «il misurare con i passi dell’interrogazione gli abissi dell’essere». Il suo valore risiede nella capacità di distruggere la logica tradizionale, impresa che Heidegger conduce attraverso la ricerca sulle origini del termine Logos, cosa che il filosofo compie praticamente in tutti i suoi testi interrogando i frammenti di Eraclito. Da essi emergono due insegnamenti: da un lato quello per cui gli uomini sono insipienti, perché non capiscono quello che ascoltano; dall’altro l’idea che il volgo, o la maggior parte degli uomini, vive secondo il proprio intendimento seguendo ciò che è comune e non il Logos. Questa incapacità di intendere il vero significato del Logos è all’origine di tutti i mali. 

La logica si manifesta con il linguaggio. Dalla domanda della logica, che intende il linguaggio come proprietà essenziale dell’uomo, siamo condotti alla domanda su chi è l’uomo. Una volta giunti a determinare l’essenza dell’uomo, continua Heidegger, ci si accorge che il suo tratto distintivo è, nonostante le ambiguità, proprio la storia. A patto però di tenere a mente che essa non è mera successione di avvenimenti in senso naturalistico né movimenti meccanici che regolano il corso degli eventi, «così come le eliche dell’aereo che hanno portato all’incontro tra Hitler e Mussolini a Venezia». C’è qualcosa di molto di più per far sì che un certo evento sia detto e considerato storico. 

La logica, prima di essere la tecnica del pensiero, è «il nome dato al compito di preparare una generazione costruita sul sapere, tale cioè che sappia e voglia sapere, tale cioè che sia in condizione di sapere». Le lezioni del filosofo tedesco riposano su questo fondamento: se infatti il sapere non sa di essere sapere, non è affatto un sapere. Ma questa è la condizione storica dell’uomo, il suo interrogarsi manchevole, il fatto che l’uomo non è presso se stesso, cosa che si riflette nel suo continuo agitarsi. 

Dalla coscienza all’Esserci
Potremmo dire che l’uomo non giunge a comprendere il suo essere storico finché non matura una coscienza adeguata. Anche se Heidegger non ama parlare di coscienza, egli tuttavia ne esprime il suo più profondo significato. Che cosa sono infatti i termini da lui utilizzati, come ad esempio la “decisione” e  “l’apertura decidente”, se non l’intenzionalità, propria della coscienza, che conferisce all’atto il suo senso più proprio? La decisione infatti rimanda all’accadere futuro e questa presa di posizione nasce da quell’atto intenzionale che mira ad uno scopo. 

Il problema è che la coscienza, come aveva scritto in Essere e Tempo, non dice nulla e «il Chi del chiamante è piuttosto l’Esserci nel suo spaesamento, l’originario e gettato essere nel mondo in cui il chiamante è così poco familiare al se stesso quotidiano che gli appare come voce esterna». La diffidenza nei confronti della coscienza appare in modo esplicito anche nel corso del 1934 in almeno due aspetti.

In primo luogo, se l’accadere dell’umano è intenzionale e connesso al sapere, la storia può accadere senza che se ne abbia notizia. In questo senso l’accoppiamento di storiografia (intesa come notizia storica) e storia è insensato. Il motivo è spiegato in base ad un non semplice ragionamento che comincia dall’idea secondo cui la storiografia è parte dell’atteggiamento scientifico prevalente che si determina in base alla concezione della scienza. A sua volta la scienza è fondata sul sapere e questo sapere poggia sull’essenza della verità la quale, per ultima, è governata dal modo in cui l’uomo sta nell’ente. Se dunque il modo di questo stare nell’ente è sbagliato, sbagliata sarà la stessa storiografia, il modo cioè con il quale giungono a noi le notizie che pretendono essere storiche. Di storico, al contrario, non c’è nulla, soltanto una volgare curiosità in cui la coscienza viene messa fuori gioco fin dall’inizio.

In secondo luogo, se è vero che Heidegger parla di intenzionalità, essa non è guidata in modo immanente dall’Io cartesiano, bensì in modo trascendente dall’Esserci che fa dell’uomo non un Io ma un Se stesso. In cosa consiste questa trascendenza? In che modo e quando l’uomo può dire di essere un se stesso anziché un Io? L’Io cartesiano condanna l’uomo ad un vuoto isolamento così come dimostra, sostiene Heidegger, l’appiattimento mostrato dal liberalismo a partire dal XIX secolo. L’uomo può invece dire di essere un Se stesso nel momento in cui riannoda i legami con la comunità e con la tradizione, realizzando l’autentica trascendenza. La tradizione è allora il vero ed intimo carattere della storicità grazie alla quale siamo consegnati al futuro.

Storia come responsabilità per il futuro
Tutto ciò significa tornare ai vecchi slogan sul popolo a cui si appartiene e alla tradizione di cui siamo anelli tra passato e futuro? L’
Heidegger del corso su logica e linguaggio non ne è più sicuro. Essere storicamente infatti «non è qualcosa che si porta in giro come un cappello né si afferra come una maniglia della porta». Essere storicamente significa piuttosto un decidere che si rinnova continuamente e che annulla quel paralizzante “tutto è già stato” che conferisce all’epoca la condizione dell’ignavia storica. Non più  irrevocabili parole d’ordine, che il regime nazionalsocialista cominciava a spargere come veleno, ma interrogazioni sul nostro rapporto con il tempo in cui la misura della decisione che ne emerge ha il nome di responsabilità verso il futuro. La conclusione è che quando si pensa, si deve prima di tutto chiarire il luogo (passato, presente o futuro) in cui si pensa: la filosofia consiste in questa essenziale dislocazione.


Riferimenti bibliografici

Heidegger, Martin. 1998. Il concetto di tempo. Adelphi. Milano (ed. orig.1989)
Heidegger, Martin. 2006. Essere e Tempo. Longanesi. Milano. (ed.orig.1927)
Heidegger, Martin. 1998. Logica e Linguaggio. Christian Marinotti Edizioni
Safranski, Rüdiger. 2013. Ein Meister aus Deutschland. Fischer Taschenbuch Verlag. Frankfurt am Main

Foto su Unsplash Luka Slapnicar

Insegnante con dottorato di ricerca in Filosofia. Vive e lavora a Nocera Umbra, autore del podcast che prende il nome dal suo motto: Hic Rhodus Hic salta.

Lascia un commento

*