Vàclav Havel, drammaturgo e poeta scomparso nel 2011, è stato prima presidente della Cecoslovacchia dal 1989 al 1992 e poi della Repubblica ceca fino al 2003. Durante gli anni del comunismo, Havel si è particolarmente distinto per la sua opposizione al regime (culminata con il celebre documento del dissenso Charta 77) che gli costò il carcere per 5 anni. Il suo saggio più conosciuto è Il potere dei senza potere, uscito nel 1979. A distanza di oltre 40 anni le sue tesi si sono rivelate profetiche non solo per il regime dell’Est Europa in cui viveva ma anche per aver colto alcune linee di sviluppo delle democrazie occidentali. In quel saggio, Havel indicava la rivoluzione esistenziale come unica strada per il rinnovamento della politica: la consapevolezza dell’antitesi tra vita nella verità e vita nella menzogna, grazie anche alla forte ispirazione morale che la sottende, è il segnale per intraprendere la strada di una nuova consapevolezza e partecipazione civile.
Tuttavia vanno anche segnalate le ambiguità del fondamento filosofico delle proposte di Havel che riposa su una chiara ed esplicita matrice di origine heideggeriana: «una nuova esperienza dell’essere», «un rinnovato ancoraggio all’universo, una riassunzione della responsabilità suprema» fino al «solo un Dio ci può salvare». Se Havel non manca di riservare critiche verso la società post totalitaria (ancora più totalitaria di quella precedente), è curioso osservare come egli riponga le sue speranze su uno dei pensatori più totalitari del secolo scorso.
L’alibi dell’ideologia, valevole in ogni regime
Il potere dei senza potere è strutturato in tre parti. Nella prima egli prende in esame l’ideologia la cui funzione è quella di fare da alibi, fornendo cioè all’uomo l’illusione di essere in sintonia con l’ordine dell’universo. In questo modo però l’apparenza viene spacciata per realtà e la vita comincia ad essere percorsa da menzogne ed ipocrisie. Per mostrare il modo in cui l’uomo è costretto a vivere nella menzogna, Havel porta l’esempio dell’ortolano il quale solo accettando l’ordine e il rituale stabilito (nel caso specifico, quello di affiggere nel suo negozio la scritta “Proletari di tutto il mondo unitevi”) può essere tollerato dallo Stato. Ogni comunità politica infatti è retta da una precisa ideologia che, introducendo sempre e comunque un certo livello di menzogna, ha il compito di regolare i rapporti con gli individui.
L’ideologia acquista un ruolo sempre più importante tanto che i fatti che avvengono nel sistema sociale e politico dipendono, per la loro stessa esistenza, dalla loro adeguazione al contesto ideologico. Non solo. Per Havel il potere ha a che fare più con l’ideologia che con la realtà con la conseguenza che è il potere ad essere al servizio dell’ideologia e non viceversa: è dunque quest’ultima che funge da ponte tra la realtà e i cittadini. Questo stato di cose produce la conseguenza secondo cui, nel sistema post-totalitario (come Havel definisce questo tipo di società politica) il potere si trasmette in modo fluido grazie alla legittimazione rituale (e non, come avveniva nei regimi classici, con la gara e la lotta per la successione). Nella società post totalitaria il potere diventa anonimo finendo così per dissolvere ogni qualità umana: di fatto i politici di tale sistema sono degli ingranaggi che non contano più nulla come individui. Questa forza del sistema è chiamata da Havel “autocinèsi” e rappresenta il potere dell’ideologia sulla realtà. Il sistema post-totalitario è vero e proprio auto totalitarismo in quanto esso coinvolge ogni uomo nella struttura del potere affinché egli rinunci alla propria identità: tutti sono schiavi e complici del sistema, dall’ortolano fino ai capi di governo. Se nessuno è libero, allora cade la distinzione tra governanti e governati la cui linea di divisione si colloca all’interno di ogni uomo, secondo un’accezione platonica in base alla quale l’uomo che non riesce a governare se stesso non è nemmeno in grado di vivere nella comunità politica.
Quando appellarsi alla legge?
Nella terza parte Havel discute quello che potremmo definire il vero e proprio paradosso della legalità espresso dalla seguente domanda: ha senso appellarsi alle leggi (ovvero all’essenza dello Stato di diritto) quando esse sono spesso solo una facciata dietro la quale si cela la manipolazione totalizzante? La risposta è possibile a seguito della riflessione sulla funzione dell’ordinamento giuridico nel sistema post-totalitario. Questo infatti è ossessionato dal bisogno di legare ogni cosa con leggi e regolamenti, secondo le direttive del sistema burocratico. L’ordinamento giuridico per Havel svolge due funzioni essenziali: quella di alibi (ed in questo senso esso rimanda all’ideologia) e quello di strumento insostituibile di comunicazione rituale interna al potere. L’appellarsi alla legge dal canto suo soggiace ad un’ambivalenza da cui trarsi d’impaccio: se da un parte infatti il riferimento alla legge è legato alla necessità di simularne la validità (così come avviene nei sistemi post-totalitari) dall’altra però essa è anche un atto di vita nella verità che minaccia l’impalcatura della vita nella menzogna. La legge quindi assume un ruolo centrale in questo: essa è sempre e solo uno dei modi per tutelare ciò che è meglio nella vita rispetto al peggio ma non crea mai il meglio da sé. Il suo compito è di carattere servile e dal suo rispetto non viene garantita una vita migliore. Le virtù della legge riposano fuori della legge.
Vita autentica e vita inautentica
Ma è nella seconda parte, quella centrale, che Havel sviluppa il motivo più celebre del saggio, quello della contrapposizione tra vita nella menzogna e vita nella verità. Essa ha come presupposto la ribellione dell’ortolano il quale, ribellandosi al menzognero rituale quotidiano, decide di violare le regole del gioco e di mettere in pratica la libertà: «La sua ribellione sarà un tentativo di vita nella verità». Essa tuttavia, riecheggiando l’antitesi heideggeriana tra vita inautentica e vita autentica, contiene gli elementi più evidenti della contraddizione: quella cioè di chi intende esprimere un programma anti totalitario appoggiandosi su una filosofia totalitaria. Ripercorriamo allora a grandi linee il percorso che conduce Heidegger a favorire una visione in cui lo Stato predomina sull’individuo. Il filosofo tedesco sviluppa la sua riflessione a partire dalla questione dell’essere, considerata come l’unico tema della filosofia. Il senso dell’essere per Heidegger è stato dimenticato, la sua essenza è sfuggita alla riflessione occidentale: l’essere quindi non coincide con la presenza perché l’essere è più della presenza (differenza ontologica): in cosa consista questa differenza risiede il compito della riflessione metafisica. Se l’essere si offre in molti modi, il modo principale è l’esserci (Dasein) grazie al quale abbiamo la possibilità di porci in una sorta di precomprensione che vale come base di partenza dell’indagine. Tuttavia la nostra conoscenza dell’Esserci non si fonda su una capacità teoretica bensì sul lavoro quotidiano che svolgiamo nel mondo e questo compito è immerso nell’inautenticità (la vita nella menzogna di Havel). In che modo allora l’Esserci può riacquistare la sua autenticità, ovvero la vita nella verità? Per Heidegger attraverso due momenti: da una parte il pensiero della morte da cui proviene la risolutezza necessaria per affrontare la vita; dall’altra con l’idea del destino in base al quale l’esserci viene determinato attraverso l’accadimento della comunità del popolo, figura che assume ruolo centrale rispetto all’individuo. Vita per la morte e idea del destino rappresentano gli elementi che ci permettono di comprendere che l’esistenza come tale è impossibile, cioè non è fondata su alcunché, ma è radicalmente libera. Una libertà che tuttavia è radicata nell’Evento, realtà risvegliata da un pastore dell’essere, il Führer, il quale solo è in grado di mettere il nostro pensiero sulla strada giusta conferendogli forza d’urto. Ecco perché, come scrive nei Quaderni Neri, è necessario «trovare un nuovo coraggio per il destino in quanto forma fondamentale della verità» in un seguire in cui il compito supremo è suddiviso tra lo Stato e il popolo.
Havel conclude volgendo l’attenzione a ciò che più è essenziale: la crisi dell’odierna civiltà dovuto al potere planetario della tecnica. Ma il dominio della tecnica, ricorda lo stesso Heidegger, non è qualcosa di materiale bensì «una marcata forma di spirito, del sapere e della risolutezza». Scrive Severino in un commento tagliente: «Il pensiero di Heidegger rende esplicita l’ontologia dello storicismo. L’Essere lascia essere gli enti, e dunque lascia essere anche quel suo prolungamento che è la dominazione della tecnica. L’Essere lascia essere la civiltà della tecnica, in tutte le sue forme. Lascia essere anche il nazionalsocialismo». In questa aporia c’è tutto il senso del saggio di Havel e del coraggioso quanto sprovveduto (filosoficamente) ortolano.
Riferimenti bibliografici
- Havel, Vàclav. 1991. Il potere dei senza potere. Milano: Garzanti.
- Heidegger, Martin. 2015. Quaderni Neri, 1931/1938 [Riflessioni II-VI]. Milano: Bompiani.
- Severino, Emanuele. 1997. La follia dell’angelo. Milano: Rizzoli.
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