Nell’analisi del rapporto tra Oriente e Occidente un ruolo fondamentale spetta a due grandi figure del pensiero del novecento: Julius Evola e René Guénon. Come ha scritto lo storico e filosofo Andrea Scarabelli, «i due furono attenti diagnosti della crisi della modernità, costituendo quasi un unicum in quel panorama frastagliato ed eterogeneo che siamo soliti chiamare Kulturcrisis». Ai due si può aggiungere anche il nome del tedesco Oswald Spengler soprattutto a motivo della distinzione, utilizzata da tutti e tre per leggere lo sviluppo storico delle società umane, tra Kultur (Civiltà) e Zivilisation (Civilizzazione). Si tratta di un’opposizione nata nell’ambito della cultura tedesca in cui il termine negativo è quello di Zivilisation in quanto indica, secondo le parole dello stesso Guénon, «la tendenza a ridurre ogni cosa al solo punto di vista quantitativo, tendenza talmente radicata nelle concezioni scientifiche degli ultimi secoli (…) da permettere di definire la nostra epoca il regno della quantità». Continue Reading
La politica, l’arte di dissimulare e di non “discordar” coi tempi
Il Riccardo II dà inizio alla seconda tetralogia di Shakespeare la quale, composta tra il 1594 e il 1599, si riferisce agli anni che hanno preceduto la guerra delle due rose (1455-1485). Si tratta di un lungo prequel in cui Shakespeare, ripercorrendo gli eventi che a partire dalla fine del XIV secolo hanno portato alla guerra civile, vede riconosciuto il suo successo come drammaturgo. Il Riccardo II, mentre esamina la legittimità del potere e il funzionamento del sistema, narra il peccato originale della politica: l’incapacità di risolvere i conflitti. Proprio questo sembra determinante per la politica, la capacità di imprimere una direzione nel momento in cui insorge uno stallo, un’impasse. E non importa la modalità, pacifica o violenta che sia, con la quale viene posto fine al conflitto ma il fatto che esso non sia procrastinato all’infinito. La politica ha orrore del vuoto e vuole soluzioni, il contrario di quello che fa Riccardo che sbaglia tutti i linguaggi e tutti i tempi finendo per rovinare in modo inglorioso. Continue Reading
Il dissenso mal riposto dell’ortolano
Vàclav Havel, drammaturgo e poeta scomparso nel 2011, è stato prima presidente della Cecoslovacchia dal 1989 al 1992 e poi della Repubblica ceca fino al 2003. Durante gli anni del comunismo, Havel si è particolarmente distinto per la sua opposizione al regime (culminata con il celebre documento del dissenso Charta 77) che gli costò il carcere per 5 anni. Il suo saggio più conosciuto è Il potere dei senza potere, uscito nel 1979. A distanza di oltre 40 anni le sue tesi si sono rivelate profetiche non solo per il regime dell’Est Europa in cui viveva ma anche per aver colto alcune linee di sviluppo delle democrazie occidentali. In quel saggio, Havel indicava la rivoluzione esistenziale come unica strada per il rinnovamento della politica: la consapevolezza dell’antitesi tra vita nella verità e vita nella menzogna, grazie anche alla forte ispirazione morale che la sottende, è il segnale per intraprendere la strada di una nuova consapevolezza e partecipazione civile.
Tuttavia vanno anche segnalate le ambiguità del fondamento filosofico delle proposte di Havel che riposa su una chiara ed esplicita matrice di origine heideggeriana: «una nuova esperienza dell’essere», «un rinnovato ancoraggio all’universo, una riassunzione della responsabilità suprema» fino al «solo un Dio ci può salvare». Se Havel non manca di riservare critiche verso la società post totalitaria (ancora più totalitaria di quella precedente), è curioso osservare come egli riponga le sue speranze su uno dei pensatori più totalitari del secolo scorso.
L’alibi dell’ideologia, valevole in ogni regime
Il potere dei senza potere è strutturato in tre parti. Nella prima egli prende in esame l’ideologia la cui funzione è quella di fare da alibi, fornendo cioè all’uomo l’illusione di essere in sintonia con l’ordine dell’universo. In questo modo però l’apparenza viene spacciata per realtà e la vita comincia ad essere percorsa da menzogne ed ipocrisie. Per mostrare il modo in cui l’uomo è costretto a vivere nella menzogna, Havel porta l’esempio dell’ortolano il quale solo accettando l’ordine e il rituale stabilito (nel caso specifico, quello di affiggere nel suo negozio la scritta “Proletari di tutto il mondo unitevi”) può essere tollerato dallo Stato. Ogni comunità politica infatti è retta da una precisa ideologia che, introducendo sempre e comunque un certo livello di menzogna, ha il compito di regolare i rapporti con gli individui.
L’ideologia acquista un ruolo sempre più importante tanto che i fatti che avvengono nel sistema sociale e politico dipendono, per la loro stessa esistenza, dalla loro adeguazione al contesto ideologico. Non solo. Per Havel il potere ha a che fare più con l’ideologia che con la realtà con la conseguenza che è il potere ad essere al servizio dell’ideologia e non viceversa: è dunque quest’ultima che funge da ponte tra la realtà e i cittadini. Questo stato di cose produce la conseguenza secondo cui, nel sistema post-totalitario (come Havel definisce questo tipo di società politica) il potere si trasmette in modo fluido grazie alla legittimazione rituale (e non, come avveniva nei regimi classici, con la gara e la lotta per la successione). Nella società post totalitaria il potere diventa anonimo finendo così per dissolvere ogni qualità umana: di fatto i politici di tale sistema sono degli ingranaggi che non contano più nulla come individui. Questa forza del sistema è chiamata da Havel “autocinèsi” e rappresenta il potere dell’ideologia sulla realtà. Il sistema post-totalitario è vero e proprio auto totalitarismo in quanto esso coinvolge ogni uomo nella struttura del potere affinché egli rinunci alla propria identità: tutti sono schiavi e complici del sistema, dall’ortolano fino ai capi di governo. Se nessuno è libero, allora cade la distinzione tra governanti e governati la cui linea di divisione si colloca all’interno di ogni uomo, secondo un’accezione platonica in base alla quale l’uomo che non riesce a governare se stesso non è nemmeno in grado di vivere nella comunità politica.
Quando appellarsi alla legge?
Nella terza parte Havel discute quello che potremmo definire il vero e proprio paradosso della legalità espresso dalla seguente domanda: ha senso appellarsi alle leggi (ovvero all’essenza dello Stato di diritto) quando esse sono spesso solo una facciata dietro la quale si cela la manipolazione totalizzante? La risposta è possibile a seguito della riflessione sulla funzione dell’ordinamento giuridico nel sistema post-totalitario. Questo infatti è ossessionato dal bisogno di legare ogni cosa con leggi e regolamenti, secondo le direttive del sistema burocratico. L’ordinamento giuridico per Havel svolge due funzioni essenziali: quella di alibi (ed in questo senso esso rimanda all’ideologia) e quello di strumento insostituibile di comunicazione rituale interna al potere. L’appellarsi alla legge dal canto suo soggiace ad un’ambivalenza da cui trarsi d’impaccio: se da un parte infatti il riferimento alla legge è legato alla necessità di simularne la validità (così come avviene nei sistemi post-totalitari) dall’altra però essa è anche un atto di vita nella verità che minaccia l’impalcatura della vita nella menzogna. La legge quindi assume un ruolo centrale in questo: essa è sempre e solo uno dei modi per tutelare ciò che è meglio nella vita rispetto al peggio ma non crea mai il meglio da sé. Il suo compito è di carattere servile e dal suo rispetto non viene garantita una vita migliore. Le virtù della legge riposano fuori della legge.
Vita autentica e vita inautentica
Ma è nella seconda parte, quella centrale, che Havel sviluppa il motivo più celebre del saggio, quello della contrapposizione tra vita nella menzogna e vita nella verità. Essa ha come presupposto la ribellione dell’ortolano il quale, ribellandosi al menzognero rituale quotidiano, decide di violare le regole del gioco e di mettere in pratica la libertà: «La sua ribellione sarà un tentativo di vita nella verità». Essa tuttavia, riecheggiando l’antitesi heideggeriana tra vita inautentica e vita autentica, contiene gli elementi più evidenti della contraddizione: quella cioè di chi intende esprimere un programma anti totalitario appoggiandosi su una filosofia totalitaria. Ripercorriamo allora a grandi linee il percorso che conduce Heidegger a favorire una visione in cui lo Stato predomina sull’individuo. Il filosofo tedesco sviluppa la sua riflessione a partire dalla questione dell’essere, considerata come l’unico tema della filosofia. Il senso dell’essere per Heidegger è stato dimenticato, la sua essenza è sfuggita alla riflessione occidentale: l’essere quindi non coincide con la presenza perché l’essere è più della presenza (differenza ontologica): in cosa consista questa differenza risiede il compito della riflessione metafisica. Se l’essere si offre in molti modi, il modo principale è l’esserci (Dasein) grazie al quale abbiamo la possibilità di porci in una sorta di precomprensione che vale come base di partenza dell’indagine. Tuttavia la nostra conoscenza dell’Esserci non si fonda su una capacità teoretica bensì sul lavoro quotidiano che svolgiamo nel mondo e questo compito è immerso nell’inautenticità (la vita nella menzogna di Havel). In che modo allora l’Esserci può riacquistare la sua autenticità, ovvero la vita nella verità? Per Heidegger attraverso due momenti: da una parte il pensiero della morte da cui proviene la risolutezza necessaria per affrontare la vita; dall’altra con l’idea del destino in base al quale l’esserci viene determinato attraverso l’accadimento della comunità del popolo, figura che assume ruolo centrale rispetto all’individuo. Vita per la morte e idea del destino rappresentano gli elementi che ci permettono di comprendere che l’esistenza come tale è impossibile, cioè non è fondata su alcunché, ma è radicalmente libera. Una libertà che tuttavia è radicata nell’Evento, realtà risvegliata da un pastore dell’essere, il Führer, il quale solo è in grado di mettere il nostro pensiero sulla strada giusta conferendogli forza d’urto. Ecco perché, come scrive nei Quaderni Neri, è necessario «trovare un nuovo coraggio per il destino in quanto forma fondamentale della verità» in un seguire in cui il compito supremo è suddiviso tra lo Stato e il popolo.
Havel conclude volgendo l’attenzione a ciò che più è essenziale: la crisi dell’odierna civiltà dovuto al potere planetario della tecnica. Ma il dominio della tecnica, ricorda lo stesso Heidegger, non è qualcosa di materiale bensì «una marcata forma di spirito, del sapere e della risolutezza». Scrive Severino in un commento tagliente: «Il pensiero di Heidegger rende esplicita l’ontologia dello storicismo. L’Essere lascia essere gli enti, e dunque lascia essere anche quel suo prolungamento che è la dominazione della tecnica. L’Essere lascia essere la civiltà della tecnica, in tutte le sue forme. Lascia essere anche il nazionalsocialismo». In questa aporia c’è tutto il senso del saggio di Havel e del coraggioso quanto sprovveduto (filosoficamente) ortolano.
Riferimenti bibliografici
- Havel, Vàclav. 1991. Il potere dei senza potere. Milano: Garzanti.
- Heidegger, Martin. 2015. Quaderni Neri, 1931/1938 [Riflessioni II-VI]. Milano: Bompiani.
- Severino, Emanuele. 1997. La follia dell’angelo. Milano: Rizzoli.
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Fantasia al potere? È la Chiesa cattolica, bellezza! (III)
Se i temi dell’amore e dell’esistenza di Dio sono importanti, quello sul potere della chiesa è il tema di fondo che agita fin dall’inizio la serie tv The Young Pope di Paolo Sorrentino. La ragione per cui il potere suscita così tanta avversione nasce dal fatto, confida il cardinale Voiello ad un suo assistente, che esso è conoscenza e governare significa prima di tutto conoscere i segreti degli uomini. Machiavellica, cinica o realista che dir si voglia è questa la ricetta che ha permesso alla chiesa di dirigere le coscienze e i destini di miliardi di persone nel corso di due millenni e di definirsi a buon diritto esperta di umanità. «Ma la chiesa muore di vecchiaia», lamenta ansimante un vecchio cardinale tra una boccata d’ossigeno e un tiro di sigaretta. «La chiesa sta diventando marginale» ripete un altro, tanto che al papa non rimane che ricevere in Vaticano il primo ministro della Groenlandia dove vive una delle ultime comunità cattoliche rimaste al mondo (magari pure senza un perché, come canta Nada in sottofondo). Le omelie del pontefice sono ormai sempre meno seguite e piazza san Pietro si svuota ogni giorno di più. Ma è proprio questa la situazione odierna della chiesa cattolica? Siamo davvero di fronte al declino dell’istituzione più longeva e potente della storia, erede dell’impero romano, madre dell’Europa, custode della tradizione religiosa dell’occidente? Nel corso dei secoli le previsioni circa la sua dissoluzione non sono mai mancate, soprattutto negli ultimi cinquecento anni quando prima la riforma luterana e poi l’illuminismo le hanno inflitto colpi micidiali. Movimenti generati dalle stesse radici cristiane si dirà e comunque, nonostante le profezie più pessimistiche, la chiesa è sempre riuscita a sopravvivere e a reagire agli annunci di morte assistendo spesso alla rovina dei suoi nemici. Quali sono allora le ragioni della sua forza spesso celate dietro la sua apparente debolezza?
La confusione di devoti e detrattori
La prospettiva di Sorrentino convince perché, a differenza di altre, non è né agiografica, né scandalistica, né paternalistica. In questo modo aiuta a riflettere anche perché descrivere la natura della chiesa non è mai stato agevole, specialmente in questi tempi nei quali Pietro è in continuo movimento per riguadagnare posizioni nel mondo moderno. Lo vediamo nei tentativi spesso confusi, contraddittori, ondivaghi dei suoi sostenitori e detrattori che contraddistingue il dibattito italiano. Da una parte gli atei devoti, conservatori o nostalgici che siano, (la galassia dei giornali cosiddetti di destra, intellettuali radical-chic alla rovescia, tradizionalisti rancorosi dagli occhi sempre lucidi) che, se non la rappresentano come ultimo baluardo contro la barbarie (quando fa loro comodo), sono pronti ad accusare la chiesa di apostasia o eresia nel momento in cui si scuote di dosso la dimensione sacrale. Questi interessati dimenticano che la natura della chiesa è invece proprio quella di essere eretica a se stessa, addirittura sovversiva, grazie alla sua capacità di rilanciare su qualsiasi tema, sia dottrinale che politico (non ultimo, ad esempio, la recente catechesi di Bergoglio che ha affermato che “Gesù si è fatto diavolo e serpente per noi” innescando l’ennesima polemica). Dall’altra progressisti, illuministi o di sinistra di tutte le specie che, o insistono sul registro ammuffito e stantìo dell’anticlericalismo (tollerando poi spesso le peggiori specie di clericalismi secolari) oppure si lanciano in teologie deboli e friabili che nulla hanno a che vedere con i ferrei fondamenti teologico-filosofici della sua dottrina (dire ad esempio che Francesco I ha abolito il peccato è una goffaggine evidente che non ha impedito tuttavia al suo autore di essere annoverato nelle collane di un’importante casa editrice italiana). Che siano laicisti incalliti di prima generazione, spretati o provenienti da vecchie appartenze (intellettuali mangiapreti, nuovi atei militanti, delusi dal presunto fallimento del concilio ecc.), tutti sono animati da una specie di risentimento che li conduce ad invocare misure spesso controproducenti: l’esempio classico è quello del periodo successivo alla proclamazione dello Stato italiano quando un cieco anticlericalismo fu il padre di decisioni politiche che alla lunga produssero i maggiori benefici per la chiesa (come ad esempio l’abolizione della facoltà teologiche pubbliche cha lasciò al Vaticano la gestione di questo fondamentale tassello della cultura). Insomma, entrambi gli schieramenti sono come quei ciechi che pretendono di descrivere la natura e la forma dell’animale dalla parte di corpo che riescono ad esaminare con la mano non riuscendo mai a coglierne l’intera grandezza.
Chiesa esperta di umanità e di comunicazione
La chiesa è ben più avanti di questi ingenui schieramenti i quali dovrebbero tenere a mente la cosa più semplice, ovvero quello che la chiesa dice di se stessa. E tra le tante cose, come ricordato sopra, c’è l’essere prima di tutto esperta di umanità. Un’attitudine che ne fa il punto di riferimento costante di poveri e dimenticati di ogni genere in nome di quell’uguaglianza e dignità personale la cui introduzione fu la causa del crollo del mondo antico. Un’umanità che si governa anche e soprattutto attraverso la gestione della superstizione che, sotto il nome di religione, opera costantemente nel cuore dell’uomo. In questo senso l’attenta gestione del soprannaturale e dei miracoli ha sempre costituito un esempio straordinario delle proprie capacità politiche. Nel colloquio con il giovane primo ministro italiano, Lenny Belardo (Pio XIII) dichiara che lo slogan dei sessantottini, “potere all’immaginazione”, trova nella chiesa la sua casa ideale perché il papa e Dio grondano di immaginazione. Ragionamento impeccabile visto e considerato che il libro su cui si fonda la sua autorità, la Bibbia, è la madre di tutte le immaginazioni che mai sono apparse sulla faccia dell’occidente, suggerendo fenomenologie del potere umano che discendono da un’osservazione disincantata della natura dell’uomo. Uno dei passaggi chiave della serie è poi contenuto all’inizio della seconda puntata quando il pontefice suggerisce alla responsabile marketing del Vaticano di modificare radicalmente l’immagine promozionale della chiesa. In un mondo già sovraffollato di immagini e messaggi, il look più efficace è esattamente la non immagine, l’assenza-presenza, in grado di suscitare curiosità, mistero e nuovo interesse. L’idea sottostante è che, prima di cercare nelle più sofisticate agenzie di marketing o nei consigli degli esperti di Harward, la prima e vera maestra di comunicazione è la chiesa stessa. Non è necessario risalire troppo indietro per trovare esempi. Cosa c’è di più comunicativo dell’infilarsi in un bagno chimico ben sapendo di essere notati? O di scendere al negozio all’angolo di via della Conciliazione per comprarsi un paio di scarpe? O ancora di andare a vivere nell’albergo di proprietà piuttosto che rimanere segregati nella reggia rinascimentale? Ma in questi ed altri casi non c’è da pensare a strategie pianificate a tavolino e realizzate con chissà quale perizia. Bergoglio (per rimanere agli esempi indicati) è davvero naturale come appare essere. Detto con tutto il rispetto, Nietzsche commenterebbe con una punta di malizia: «L’ipocrita che rappresenta sempre la stessa parte, cessa alla fine di essere ipocrita; per esempio i preti che da giovani sono ipocriti, divengono alla fine naturali e allora sono veramente preti» (Umano troppo umano, I, 51).
La chiesa come katechon, il potere che frena
Se The Young Pope è una riflessione sul potere della chiesa, lo è anche sulla tragicità del suo esercizio. L’incontro surreale con i pontefici della storia nell’ultima puntata è illuminante. Alla richiesta del giovane papa di conoscere la cosa più saggia, la risposta è che alla fine, più che nel Signore, è necessario avere fiducia in se stessi. «Ma questa è una banalità» – obietta Lenny Belardo. «Sì – risponde uno dei convenuti – ma noi siamo il potere, il quale altro non è che banale luogo comune». Banalità del male, si potrebbe dire. Come quello che la chiesa ha per sua natura di contenere grazie al principio paolino del katechon della seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi. «Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l’empio e il signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all’apparire della sua venuta» (2 Ts 2, 6-7). Secondo l’esegesi colui che trattiene (to katechon in greco) è appunto la chiesa la quale, nell’esercizio della sua funzione, sconta però una tragica ambivalenza: se nella sua azione previene lo scatenamento del male, essa impedisce allo stesso tempo la rivelazione finale del suo signore Gesù Cristo. Nasce con questo la teologia politica che genererà figure classiche del pensiero e della prassi politica: i due regni, i rapporti conflittuali con l’Impero e poi con gli Stati fino a giungere al Grande inquisitore di Dostoevskji che, nelle gattabuie del Vaticano dove lo ha rinchiuso, dichiara al Cristo tornato sulla terra che non della libertà ma di pane e autorità il popolo ha bisogno.
Chiesa di pochi o di molti? No, chiesa di lotta e di governo
Il Katechon mostra come la vera cifra della chiesa è la sua duplicità e capacità di generare sintesi dagli opposti. Hegel non avrebbe potuto pensare quello che ha pensato se non fosse stato cristiano. Il fatto di vivere un periodo storico che vede la presenza di due papi in Vaticano ce ne fornisce l’evidenza estrema. Da una parte Benedetto XVI, colui che ha introdotto l’idea della marginalità della chiesa, teorizzata fin dal 1969 quando scriveva che quella futura sarebbe stata una chiesa nella quale si sarebbe «ripartiti dai piccoli gruppi, da movimenti laicali e da una minoranza che rimetterà la fede e la preghiera al centro dell’esperienza», secondo quella che fu poi definita la dottrina della minoranza creativa. La formula, coniata dallo storico inglese Arnold Toynbee, prospettava l’idea che le civiltà crollano per declino interno e le minoranze creative sono dunque la migliore risposta alle crisi di civiltà. L’allora cardinale non mancava di ricordare che per la chiesa si stavano preparando tempi difficili ma che tale minoranza sarebbe stata attiva nel dibattito pubblico. «La chiesa può essere moderna proprio essendo antimoderna» scriveva Ratzinger nel 1997, delineando un programma di governo molto simile a quello descritto da Sorrentino nella sua serie (proprio ieri Il Foglio gli ha dedicato un inserto speciale in occasione dei suoi novant’anni intitolato “The young Pope”).
Dall’altro assistiamo invece alla strategia di Bergoglio, primo gesuita e primo papa americano della storia (il che molto probabilmente aprirà la porta ad un vero Lenny Belardo nel prossimo futuro, visto anche l’attivismo della chiesa a stelle e strisce). Arrivato dalla fine del mondo, con Francesco I la chiesa (tra le cui definizioni più care c’è quella di “popolo in cammino”), si è anche guadagnata l’accusa di populismo, accusa talmente generica che non aiuta a comprendere nulla di un pontefice che fa dell’empatia con il proprio corpo politico la dimensione più efficace della propria azione politica. Al di là di ogni valutazione, quello che colpisce è ancora una volta la capacità di incarnare la dimensione di governo con la popolarità. Genio che si realizza anche nella nota formula ambrogiana della casta meretrix grazie alla quale la chiesa può legittimarsi agli occhi dei propri fedeli chiedendo loro di fare quello che dice ma non di fare quello che fa. E poi ancora nell’enciclica che ha segnato il rilancio del progetto culturale cristiano, quella fides et ratio unite per raggiungere la verità di cui il prossimo anno si celebrerà il ventennale. La chiesa dà peso a Dio, direbbe Sorrentino, quasi a tradurre quel principio spinoziano (che essa conosce fin troppo bene) secondo cui «la religione riceve la forza dalla sola decisione di quanti hanno il diritto di comandare in quanto Dio non ha alcun regno particolare sugli uomini se non attraverso i detentori del potere» (TTP, XIX, [7]). Istituzione da sempre per sua natura globale, la chiesa (fin da Woytila) ha compreso prima di tutti la crisi attuale degli stati ed è oggi in posizione migliore di altri per fronteggiare le nuove sfide a livello mondiale.
In questo giorno di Pasqua auguriamo così lunga vita a quella che, in nome ancora della sua duplicità, è stata ed è amica e nemica della filosofia: noi di RF saremo forse anche considerati un’associazione di atei (non devoti però) ma sappiamo riconoscere le cose serie. Giordano Bruno scrive nel De l’infinito che i veri filosofi hanno sempre favorito le religioni a patto però che esse non diventino “orrendi mostri” che imprigionano la libertà di pensiero alla quale, a scanso di equivoci, non rinunceremo nemmeno se lo volessimo.