I sentieri e la palude

Nell’articolo pubblicato un paio di settimane fa (“Quando l’essere è più della presenza”) siamo portati subito, senza preamboli, nel cuore della filosofia heideggeriana con una tesi, espressa nel titolo, sulla quale intendiamo continuare la riflessione.

L’essere è più della presenza
Essere “più” non significa essere maggiore in una comparazione, essere più esteso, più profondo, più bello ecc., ma significa essere “oltre”, essere sempre oltre la semplice presenza. Essere oltre significa trascendere. Ciò allora significa che l’essere è sempre su un piano differente e superiore rispetto alla semplice presenza. Ma in che senso “superiore”? Abbiamo detto che non vi è una comparazione possibile, dunque perché superiore? Superiore in senso logico, e cioè superiore nel senso che ciò che trascende non è sul medesimo piano di ciò che viene trasceso ma ne è il fondamento, cioè lo rende possibile. Non solo allora l’essere non coincide mai con la presenza ma ne è la condizione di possibilità. In Heidegger porre la questione dell’essere è allora porre la questione della trascendenza dell’essere: rispetto alla presenza l’essere è trascendentale. Si può allora dire che la presenza fattuale di cui noi soltanto abbiamo esperienza è resa possibile da una “presenza trascendentale” che è ciò che veramente è. E che è ciò che fa questione, è cioè la “cosa” del pensiero, ciò che deve essere pensato e che è degno di essere pensato. 

La questione dell’essere
La questione dell’essere deve essere posta, afferma con veemenza Heidegger. Essere e tempo è la prima battaglia che Heidegger ingaggia con la questione della possibilità di pensare l’essere senza fare riferimento all’ente.  Heidegger perderà questa battaglia, non tanto perché l’intenzione fosse sbagliata, quanto per il modo in cui Essere e tempo fu accolto e compreso da chi lo apprezzò e lo lesse come il fondamento di una nuova filosofia dell’esistenza dell’uomo, e non come una filosofia dell’essere, secondo invece l’intenzione di Heidegger. Il vero intento di Heidegger era di interrogare l’uomo ma solo allo scopo di raggiungere l’essere.  Evidentemente qualcosa è andato storto, come ammette lui stesso nei Quaderni Neri:

«Se si fosse compresa solo a grandi linee la questione dell’essere, se si fosse cioè capito che essa è la domanda per eccellenza – che da Platone a Hegel non ve n’è un’altra, e ciò che viene in seguito non conta niente -, se si fosse compreso soltanto questo non si sarebbe potuto fraintendere Essere e tempo come un’antropologia o come una “filosofia dell’esistenza ”, né si sarebbe potuto fare di esso un uso improprio. Si sarebbe appena intravisto che l’accento messo sul singolo e sulla singolarità dell’esistenza non è che un antidoto contro l’interpretazione distorta dell’esser-ci come “coscienza” e “soggetto” e “anima” e “vita”; che però il problema non è la singolarità del singolo esistente, bensì solo un passaggio casuale verso la soli-tudine (Allein-heit) dell’esser-ci, nella quale accade la uni-versalità (All-einheit) dell’essere» (Heidegger 2015, 28)

Si può notare come la prima grande opera teoretica di Heidegger abbia avuto un destino molto simile alla prima grande opera teoretica del suo maestro Husserl. Le Ricerche Logiche iniziano infatti con una estrema, netta e definitiva confutazione di ogni possibile fondazione della logica sulla psicologia, e in genere di fondare la verità sui meri fatti, implicando quindi la negazione di un fondamento finito e determinato della logica stessa. Ma poi, nel corso delle ricerche, il discorso di Husserl sembra ricadere sulle questioni psicologiche relative alla coscienza, ai vissuti, agli atti. Così, un po’ spiazzati, i primi lettori delle Ricerche Logiche lodavano la grande confutazione dello psicologismo ma si dichiaravano interdetti in merito al ritorno all’ambito psichico per la fondazione della conoscenza. Sappiamo che in questo senso Husserl non riuscirà a mantenere la sua posizione senza far riferimento alla filosofia trascendentale di Kant. 

Ebbene con Essere e tempo la storia sembra ripetersi: inizialmente Heidegger sostiene e spiega perché non si debba mai intendere l’essere come un ente (e ciò implica la distruzione di tutta la storia dell’ontologia) salvo poi ancorarsi ad un ente, speciale finché si vuole, ma sempre un ente, ovvero l’esser-ci. E così l’accoglienza di Essere e tempo e la sua interpretazione esistenzialistica conducono Heidegger ad un radicale ripensamento, cioè alla famosa svolta. Qui Heidegger, contrariamente al suo maestro, rifiuta in blocco tutto il trascendentalismo di origine kantiana pur con tutte le possibili evoluzioni. Lo rifiuta perché Heidegger non vuole entrare nella discussione centrata sul rapporto fra il soggetto e l’oggetto. Nega cioè valore alla discussione gnoseologista perché essa rinchiude il soggetto in maglie strette che non ne consentono l’autentica espressione, che è quella di essere apertura all’essere. Piuttosto Heidegger tornerà agli albori della filosofia greca, cercherà fra le molecole nascoste del linguaggio delle origini delle vie di fuga da un pensiero schiacciato sul soggetto.  Così leggiamo nei Quaderni Neri:

«Oggi (marzo 1932) mi si è reso del tutto chiaro il punto in cui tutta la mia precedente produzione scritta (Essere e tempo; Che cos’è la metafisica?; Kant-Buch e Dell’essenza del fondamento I e II) mi è divenuta estranea. Estranea come un sentiero abbandonato che si perde tra l’erba e i cespugli – un sentiero che si tiene per sé il fatto di condurre nell’esser-ci in quanto temporalità» (Heidegger 2015, 26)

Dopo Essere e tempo
Pur con tutte le raccomandazioni del caso, l’esser-ci di Essere e tempo non riesce a non ricadere nell’alveo concettuale di un soggetto coscienzialisticamente inteso, proprio ciò che Heidegger non voleva. Non lo voleva perché secondo lui in tal modo inevitabilmente si sarebbe finito per intendere la coscienza sola per la valenza gnoseologica, cioè funzionalistica. Della complessità della coscienza, che egli vuol determinare in termini esclusivamente ontologici, la concettualizzazione che si fonda sul soggetto-coscienza vede solo la coscienza funzionale, al servizio del pensiero tecnico, incapace di autenticità. Quest’aspetto a nostro avviso resta fermo in tutta la produzione heideggeriana. Ci sembra di poter dire che non fu l’intenzione di Essere e tempo a dover essere modificata: “noi dobbiamo pensare l’essere e non intenderlo come ente” resta il nocciolo del pensiero heideggeriano, sempre. Ma l’espressione di questa intenzione, la concreta esposizione, ha dato luogo ad interpretazioni che anziché portare verso l’essere, si inviluppano in se stesse restando incentrate su un esser-ci, di cui si seguono le vicende esistenziali, che non riesce a uscire da un mondo congelato di semplici presenze, nonostante la nausea che il soggetto prova. Ci sembra anche di poter dire che più che le critiche negative, ciò che affonda Essere e tempo nella testa di Heidegger è il modo in cui le presunte comprensioni positive esplodono e riscuotono successo. 

Secondo noi, quindi, Heidegger non ha mai svoltato rispetto alla sua intenzione originaria, ma ha ritenuto insufficiente e troppo fraintendibile il modo di espressione di Essere e tempo. Tuttavia, il problema non è una questione di stile espositivo, di capacità di scrittura. Il problema è ben più grave. Heidegger, vedendo come Essere e tempo sia stato frainteso, si accorge di un fatto: il nostro tempo non è in grado di pensare l’essere.  Disperante situazione per un filosofo dell’essere. E così giunge a comprendere che il compito della filosofia non sarà più quello di cercare di dire l’essere, bensì di preparare alla comprensione seminando indicazioni di pensiero, sperando che arrivi il tempo in cui tali semi sapranno maturare e portare frutti. Per questo dopo Essere e tempo, la produzione letteraria di Heidegger assume la veste di sentieri, di tentativi di preparazione di un pensiero in grado di accogliere il modo di pensare l’essere senza intenderlo come ente e che quindi non possa fraintendere, come accaduto con Essere e tempo, il valore ontologico dell’esser-ci, che deve essere solo e soltanto indicazione dell’essere e non mai oggetto egli stesso di contemplazione. 

La questione della coscienza deve essere posta
Questa ricostruzione generale può risultare plausibile, se però si è consapevoli del fatto che ridurre un pensiero profondo e complesso come quello heideggeriano a poche righe di sintesi inevitabilmente toglie all’attenzione molta ricchezza speculativa. L’esplosione del pensiero heideggeriano nei molteplici sentieri, non tutti sempre intelligibili, quantomeno a noi, impone la ricerca di un punto fermo: pensare l’essere senza riferimento all’ente. Pensare l’essere come “di più” della presenza è il tormento che percorre Heidegger per tutta la vita. Per il filosofo, ciò ha questa conseguenza: che non si può pensare la coscienza se non in termini oggettivanti.  Qui, a nostro avviso, si nasconde la problematica fondamentale che è bene portare in luce, e la domanda che si impone è la seguente: è veramente possibile pensare alla presenza senza riferimento a ciò per cui una presenza è tale, e cioè la coscienza? Possiamo parlare di presenza per trascenderla nell’essere senza considerare la coscienza che rende possibile a un qualcosa qualunque di essere presente, mentre è essa stessa, la coscienza, trascendimento della presenza? Domande queste che non troveranno facili risposte, ma che, per citare lo stesso Heidegger, devono essere poste. Che il “tema” coscienza, il rapporto soggetto-oggetto, possano concludersi nelle aporie che da Cartesio a Hegel sono state percorse è innegabile; ma è altrettanto innegabile che la riflessione sulla coscienza debba necessariamente cadere nelle aporie? 

Giovanni Romano Bacchin, il filosofo a cui fa riferimento la scuola di metafisica classica, cui chi scrive appartiene, ebbe a dire che la relazione soggetto-oggetto è la “palude” nella quale si estenua il pensiero moderno. Ma, nondimeno, non si può evitare di incontrarla. Totalmente inutile credere di schivarla, essa si ripresenta nascosta in ogni termine che si usa per eluderla. Bisogna affrontarla e superarla. Se avesse senso parlare di un “compito” del pensiero, questo sarebbe il suo compito: superare e dominare la palude in cui il pensiero si arena. Va detto, come Bacchin sostiene spesso, che se non si affronta la questione della coscienza, la si subisce. Subirla vuol dire, in termini heideggeriani, intendere l’essere come mera presenza. Se la si supera, invece, si può accedere ad un pensare che, proprio per la sua intima natura dialettica, non perde mai l’essere come centro e fine del proprio movimento, senza però illudersi di possederlo. 

 

Riferimenti bibliografici

  • Bacchin, Giovanni Romano. 1965. I fondamenti di filosofia del linguaggio, Assisi: Istituto Editoriale Universitario.
  • Bacchin, Giovanni Romano. 1975. Anypotheton. Roma: Bulzoni.
  • Heidegger, Martin. 1976. Essere e tempo, Milano: Longanesi.
  • Heidegger, Martin. 1980. Tempo ed essere. Napoli: Guida.
  • Heidegger, Martin. 2015. Quaderni neri, Riflessioni II-VI. Milano: Bompiani.
  • Husserl, Edmund. 1968. Ricerche Logiche.  Milano: Il Saggiatore.

Foto di Håkon Grimstad su Unsplash

Nato a Bologna, dove ha studiato e si è laureato in filosofia teoretica. Attualmente è ricercatore presso l’Istituto di ricerche filosofiche DiaLogos e redattore della rivista Cum-Scientia.

Lascia un commento

*