La forma logica della relazione necessaria: la deduzione
Si è soliti contrappore il processo deduttivo a quello induttivo. Si tratta bensì, in entrambi i casi, di procedimenti logici, ma le conclusioni dei due processi hanno caratteristiche molto diverse. La conclusione del processo induttivo è ampliativa del contenuto informativo delle premesse. Essa è tratta per generalizzazione da casi particolari e, pertanto, non può esibire il carattere dell’universalità e della necessità, proprio perché estendere a tutti i membri di una classe (insieme) le proprietà riscontrate in uno o in alcuni membri di quella classe (insieme) costituisce un saltus logico.
Il quantificatore universale affermativo “tutti”, che pure è essenziale per formulare una legge o per configurare una categoria, non trova effettiva legittimazione dal processo generalizzante, così che la conclusione può avere solo una valenza statistica-probabilistica. Come direbbe Popper, per affermare che “tutti i cigni sono bianchi” o “tutti i corvi sono neri”, bisognerebbe osservare veramente tutti i cigni o i corvi, e questo è impossibile. Precisamente per questa ragione, Hans Reichenbach colloca l’induzione nell’ambito della “scoperta scientifica”, perché è solo mediante questo processo logico che la scienza accresce le proprie conoscenze e, quindi, va avanti, nonostante le sue conquiste siano sempre passibili di revisione.
Di contro, il processo deduttivo è strutturato in modo tale che le conclusioni cui mette capo presentano i caratteri dell’universalità e della necessità, anche se esse non sono ampliative del contenuto informativo delle premesse. Per questa ragione, Reichenbach lo considera centrale nel “contesto della giustificazione” della scoperta scientifica. Tale giustificazione si configura nel dedurre da ipotesi di leggi generali, ottenute mediante generalizzazioni induttive, asserti osservativi che vengono confrontati con l’esperienza, giacché solo il confronto empirico può “corroborare” tali ipotesi di leggi (non “verificarle”, come ci ricorda Popper) oppure “confutarle”. La deduzione degli asserti osservativi si ottiene mediante un processo che, proprio per la ragione che non è ampliativo, non fa che esplicitare ciò che è contenuto nelle premesse, così che gli asserti empirici vengono dedotti da asserti universali o, meglio, generali.
Tuttavia, proprio su questo punto si apre una importante questione teoretica. Quale valore dare al processo deduttivo? Già Poincaré aveva fatto notare a Peano quello che definiva il “paradosso della deduzione”. Così egli scriveva:
«Una dimostrazione veramente fondata sui principi della Logica Analitica si comporrà di una successione di proposizioni; le une, che serviranno da premesse, saranno delle identità o delle definizioni; le altre si dedurranno dalle prime passo a passo; ma benché il legame tra ogni proposizione e la successiva si percepisca immediatamente, non si vedrà di primo acchito come si sia potuti passare dalla prima all’ultima, in modo che si potrà essere tentati di considerarla come una verità nuova. Ma se si rimpiazzano successivamente le diverse espressioni che vi figurano con le loro definizioni e se si eseguirà questa operazione finché è possibile, non resteranno più alla fine che delle identità, di modo che tutto si ridurrà a una immensa tautologia» (Poincaré 1908, 210-211)
Il carattere tautologico della deduzione, come è noto, è stato ribadito con forza da Wittgenstein, in modo tale che ci si viene a trovare nella necessità di riflettere sul concetto stesso di relazione di conseguenza logica (o di implicazione logica) che costituisce la struttura stessa del processo deduttivo.
Il concetto di “implicazione”, è questo ciò che intendiamo dire, risulta indubbiamente fondante, ma esso è altresì concetto intrinsecamente problematico. Il suo valore fondante, dunque indiscutibile e indimostrabile, viene affermato dallo stesso Russell, il quale riconosce nell’implicazione (per le proposizioni) e nell’induzione (per le classi) i momenti cruciali dell’articolarsi della logica. Proprio perché fondamentale, l’implicazione risulta indefinibile: «per lo studio tecnico della Logica Simbolica, è utile prendere come unico concetto indefinibile quello di implicazione formale» (Russell 1971, p.39).
Ciò che l’implicazione postula è, a rigore, la propria intelligibilità e la postula senza dimostrarla, poiché formalmente la dimostrazione coincide con l’implicazione e si risolve interamente in essa. Si potrebbe aggiungere che l’implicazione non soltanto è il principio fondamentale, ma, più radicalmente, è l’essere principio di ogni principio; il principio, infatti, è tale perché implica il principiato, cioè ciò che deriva da esso, e, senza l’implicazione del principiato, esso non sarebbe principio affatto.
Se non che – e questo ne costituisce la problematicità – l’implicazione viene considerata, da un canto, come un nesso intrinseco, in quanto necessario, ma, dall’altro, come un nesso estrinseco, proprio per il suo vincolare due identità distinte e, quindi, autonome. Ciò equivale a dire che l’implicazione si trova a dover conciliare due aspetti che sono tra di loro inconciliabili: la necessità del vincolo, che, decretando il suo valore intrinseco, impone il carattere tautologico della deduzione; la sua estrinsecità, la quale soltanto consente di differenziare l’antecedente dal conseguente, in modo tale che essi si presentino con una forma che li identifica come diversi.
Proprio per il suo valore fondante, un valore «attribuito» ad essa nonostante la sua costitutiva problematicità, la nozione di conseguenza logica ha valore metalogico: «la nozione di conseguenza è una nozione metalogica e se è vero che il calcolo logico si effettua “secondo” il rapporto di principio e conseguenza, non ne segue che tale rapporto entri “in” questo calcolo» (Blanché 1968, p. 29).
La problematicità della relazione di conseguenza logica
Quelle evidenze, che la logica riconosce come indiscutibili, allorché ci si colloca a livello metalogico risultano problematiche e, in taluni casi, addirittura contraddittorie, a muovere dal concetto stesso di relazione di conseguenza logica. Per riflettere criticamente sul concetto indicato, prendiamo avvio da un passo di Simona Sacchi, che giudichiamo molto significativo:
«Le inferenze compiute durante il processo deduttivo mirano a rendere esplicite delle conclusioni che sono già presenti, seppure implicitamente, nelle premesse date. Lo scopo del ragionamento deduttivo è, quindi, quello di ‘svelare’, di trovare cose che non conosciamo a partire da ciò che già conosciamo. A differenza dell’induzione non vengono aggiunte nuove informazioni» (Sacchi 2007, p. 55)
Che cosa, dunque, viene esplicitato? Il contenuto informativo presente nelle premesse, ma non esplicito. Tuttavia, v’è una notevole differenza tra l’esplicitazione offerta dal sillogismo e quella offerta dal calcolo proposizionale. Il sillogismo, infatti, intende valere quale dimostrazione, dunque quale dimostrazione della verità di un nesso, nesso che consente di passare dalle premesse alla conclusione. Ricordiamo, per chiarire il concetto, il passo di Aristotele, che compare negli Analitici Primi, nel quale viene appunto definita la deduzione, che Aristotele identifica con il sillogismo:
«Il sillogismo, inoltre, è un discorso in cui, posti taluni oggetti, alcunché di diverso dagli oggetti stabiliti risulta necessariamente, per il fatto che questi oggetti sussistono. Con l’espressione ‘per il fatto che questi oggetti sussistono’ intendo dire che per mezzo di questi oggetti discende qualcosa, e d’altra parte, con l’espressione ‘per mezzo di questi oggetti discende qualcosa’ intendo dire che non occorre aggiungere alcun termine esterno per sviluppare la deduzione necessaria» (Aristotele, I, 1, 24 b)
Il passo di Aristotele viene ripreso e riformulato mirabilmente da un altro grande logico, Giuseppe Gerolamo Saccheri, in un’opera, Logica demonstrativa, che è del 1697. Scrive Saccheri:
«Una conseguenza è il far procedere, ovvero l’inferire una verità da un’altra […]. Si dice che vale l’inferenza da una verità a un’altra, ovvero da un termine all’altro, quando si dà una connessione necessaria tra l’uno e l’altro, ovvero quando l’uno non può stare senza l’altro. […] Al contrario si dice che non vale l’inferenza dall’uno all’altro, quando l’uno può stare senza l’altro […]. Ogni volta che l’inferenza da un termine all’altro è valida, il termine dal quale parte l’inferenza valida si dice antecedente, e quello verso il quale procede l’inferenza valida si dice conseguente» (Saccheri 1697, I, 6, 61-62)
Il sillogismo, dunque, non è una semplice esplicitazione di un contenuto implicito presente nelle premesse; esso, infatti, intende valere come una autentica dimostrazione logica, in forza della quale si offre una ragione, un «per che», ossia un medio che legittima il passaggio dall’antecedente al conseguente. Non si vorrebbe, insomma, presupporre il nesso logico, ma si intenderebbe dimostrarlo. Le questioni che si aprono sono almeno due: la prima questione concerne il significato dell’espressione «nesso necessario»; la seconda questione concerne la sua «dimostrazione».
Per approfondire la prima questione, vorremmo muovere dai passi citati e chiedere a Saccheri, ma anche ad Aristotele e a tutti i logici che sulla premessa della «deduzione necessaria» hanno eretto il loro sistema, come sia possibile affermare, da un lato, che l’inferenza impone la connessione necessaria e dunque l’impossibilità di considerare un termine a prescindere dal riferimento all’altro termine («l’uno non può stare senza l’altro», ossia l’uno non si pone senza l’altro, non è “sé” se non in quanto si relaziona all’“altro”), e poi, dall’altro lato, che, sempre nell’inferenza, i termini vengono mantenuti come dotati ciascuno di una propria identità, per sua natura autonoma, onde consentire il loro distinguersi, così che il primo viene definito antecedente e il secondo conseguente.
Orbene, a noi sembra che la necessità, detta della connessione, imponga di pensare la differenza (l’altro termine) non più come qualcosa (un’ipostasi) che sia collocabile al di fuori dell’identità – così come la rappresentazione della relazione suggerisce –, ma, per contrario, come intrinseca e costitutiva dell’identità medesima. La conseguenza è che non solo la relazione non può venire interposta (posta in uno spazio intermedio rispetto ai suoi termini), ma altresì che l’identità stessa deve venire considerata non più come un dato, un immediato (dicevamo: un’ipostasi), ma come l’atto stesso del riferirsi o, se si preferisce, come una mediazione in atto.
Ciò da cui non si può prescindere, insomma, è la consapevolezza che la relazione è bensì una figura logica fondamentale, ma configura un costrutto logico che concilia due aspetti tra di loro inconciliabili: l’indipendenza dei termini, che sancisce la loro differenza, cioè il fatto che l’identità che contraddistingue l’uno non è l’identità che contraddistingue l’altro, nonché la loro dipendenza, cioè il fatto che l’uno si pone solo perché si riferisce all’altro.
La relazione, in breve, è il presupposto inevitabile su cui si erige l’universo empirico e l’universo del discorso, ma non per questo può venire assunta come l’innegabile, cioè come la verità stessa. Essa, anzi, si pone violando quell’incontraddittorio, che è universalmente considerato l’unico vero principio, come vedremo poco oltre.
La seconda questione, come dicevamo, concerne la dimostrazione del «nesso logico». A questo proposito, vorremmo ricordare che, come nota lo stesso Copi a proposito del sillogismo «Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è uomo; dunque, Socrate è mortale», è per la ragione che l’uomo è intrinsecamente mortale che si arriva alla conclusione che «Socrate è mortale». In questo senso, il termine medio del sillogismo, cioè lo «essere uomo», non compare nella conclusione, ma costituisce ciò in virtù di cui si passa dalle premesse alla conclusione medesima. Si può passare dalle premesse alla conclusione per la ragione che al concetto di «essere uomo» immane intrinsecamente lo «essere mortale». La relazione tra i due concetti è considerata, pertanto, universale e necessaria, dal momento che l’uno implica necessariamente l’altro.
In questo caso, dunque, l’esplicitazione è precisamente esplicitazione di un nesso e coincide, almeno idealmente, con la dimostrazione della sua verità. Diciamo «idealmente» perché, in effetti, non si dimostra per quale ragione all’essere uomo immane l’essere mortale, ma, piuttosto, si dà per scontato tale nesso: lo si assume. Lo si assume come se non fosse necessario dimostrarlo, dal momento che esso si mostra e si mostra con il darsi dell’esperienza.
Ciò che si intendeva valesse come una autentica dimostrazione logica, la dimostrazione del nesso logico che sussiste tra antecedente e conseguente e che legittima il passaggio dal primo al secondo, si rivela, a rigore, una semplice constatazione empirica. Ovviamente, questo configura un problema, dal momento che l’intenzione è quella di cogliere nessi universali e necessari, laddove l’esperienza mostra (e non di-mostra!) soltanto connessioni contingenti, che possono venire generalizzate solo induttivamente.
In effetti, Aristotele considera la deduzione una dimostrazione logica, ma il problema della universalità del nesso permane e permane in un duplice senso: sia perché, lo si è visto, tale universalità non viene dimostrata, ma solo assunta; sia perché il nesso, se ha effettivamente valore universale e necessario, deve venire pensato come intrinseco, ma, se viene pensato come intrinseco, allora è dissolutore dell’identità tanto dell’antecedente quanto del conseguente.
Riferimenti bibliografici
– Aristotele, Analitici Primi.
– Saccheri, Giuseppe Gerolamo. 1697. Logica demonstrativa.
– Poincaré, Henri. 1908. Les derniers efforts des Logisticiens, in Science et Méthode. Paris.
– Blanché, Robert. 1968. Logica e assiomatica. Firenze: La Nuova Italia (ed. orig. 1957-1959).
– Russell, Bertrand. 1971. I principi della matematica. Roma: Newton Compton (ed. orig. 1903).
– Sacchi, Simona. 2007. Psicologia del pensiero. Roma: Carocci.
Signora Ultima, apprezzo il cambiamento di tono e il riconoscimento dell’uso strumentale da Lei compiuto del mio articolo. Personalmente, se desidero parlare di ciò che interessa a me, allora scrivo un mio articolo. Se, invece, mi riferisco al lavoro di un altro, allora tengo in conto il senso della sua argomentazione e su quello mi esprimo. Cos a che Lei non ha fatto né dopo la prima parte né dopo la seconda. Rispetto, tuttavia, la Sua scelta. Con cordialità, Aldo Stella
Spett.le Sig. Stella,
Ho letto il suo articolo, ed ecco le mie considerazioni a riguardo (ho messo tra virgolette le parti del Suo testo).
“La conclusione del processo induttivo è ampliativa del contenuto informativo delle premesse. Essa è tratta per generalizzazione da casi particolari e, pertanto, non può esibire il carattere dell’universalità e della necessità, proprio perché estendere a tutti i membri di una classe (insieme) le proprietà riscontrate in uno o in alcuni membri di quella classe (insieme) costituisce un saltus logico.”
“Il quantificatore universale affermativo “tutti”, che pure è essenziale per formulare una legge o per configurare una categoria, non trova effettiva legittimazione dal processo generalizzante, così che la conclusione può avere solo una valenza statistica-probabilistica. Come direbbe Popper, per affermare che “tutti i cigni sono bianchi” o “tutti i corvi sono neri”, bisognerebbe osservare veramente tutti i cigni o i corvi, e questo è impossibile.”
La questione del processo induttivo è foriera di non poche perplessità, sotto vari punti di vista: la principale delle quali è che esso sia un processo “empirico”, e la secondaria delle quali è che, come è usualmente ritenuto, il processo empirico ampli le premesse di partenze.
La situazione riguardo i cigni neri e bianchi è ben peggiore di quanto di solito non si creda:
– Se la campionatura fosse composta da esemplari infiniti? Perchè nessuno ha valutato la questione? Per capirsi: conosce la Congettura di Goldbach? E’ un ipotesi che afferma che ogni numero pari uguale o superiore a 4 è intendibile come somma di due numeri primi, anche identici. Abbiamo quattro miliardi di miliardi di conferme, appunto da 4 a quattro miliardi di miliardi, che le cose stanno così: per ciò la Congettura è vera, o anche solo credibilmente vera? No.
– Anche se la campionatura fosse composta da esemplari finiti, per quanto enorme possa essere il suo numero (classico esempio: un numero pari al numero di molecole presenti nel’universo), ed anche avendola controllata tutta, ciò che si deriva è soltanto che ogni esemplare campionato fino a quel momento gode di tale caratteristica (“tutti”, in un contesto del genere, significa questo), ma soprattutto non c’è motivo di supporre che il prossimo esemplare che potrei controllare goda di quella proprietà, o per meglio dire, non possa non goderne. In altre parole, se anche controllo tutti i cigni, e constato che sono bianchi, la generalizzazione che si può fare indica semplicemente che tutti i cigni conosciuti sono bianchi, e non c’è modo di sapere, a partire dalla mera campionatura fatta, se ogni altro cigno che osserverò sarà bianco (appunto, non possa non essere bianco).
Riguardo la questione secondaria dell’ampliazione delle premesse, e della natura “empirica” del processo induttivo… Con tutta probabilità, sono quasi duemila anni che abbiamo preso una cantonata di proporzioni colossali.
Le considerazioni di prima hanno mostrato che qualsiasi generalizzazione ad excludendum (si passi il latino maccheronico) sia realizzabile con l’induzione: ma allora domanda sorge spontanea… Quando guardiamo un cigno, e vediamo che è bianco, per poi passare al prossimo, e così via, che cosa stiamo facendo?
Qualcosa di molto poco empirico e ben poco ampliativo delle premesse di partenza.
In poche parole, l’umanità da tempo immemore ha confusamente percepito il concetto di probabilità frequentistica e l’annessa legge dei grandi numeri. Voglia perdonare la noia, ma il punto è fondamentale.
Il concetto di probabilità oggettiva è ben noto a tutti: numero di volte in cui il fenomeno si presenta fratto numero di volte in cui il fenomeno si può presentare. Prendendo un dado, ci sono sei numeri raffigurati: quindi ogni numero, lanciando un solo dado, può comparire una volta su (appunto 1/6).
Ora, la legge dei grandi numeri: qualsiasi fenomeno sia suscettibile di ripetizione, e che sia esprimibile in termini di probabilità oggettiva, tende ad infinito ad eguagliare il valore probabilistico oggettivo che assume.
In altre parole, prendiamo una moneta: essa ha due facce; quanta probabilità ha di uscire una delle due facce? Chiaramente, ½. Supponiamo di lanciare una moneta infinite volte, e di annotarne i risultati: tendendo ad infinito, i risultati ottenuti, tendenzialmente imprevedibili, andranno a convergere al valore di ½, ovvero al valore di probabilità oggettivo che il fenomeno ha.
Questo ragionamento è alla base del concetto di probabilità frequentistica, ed è chiaramente questo che si fa quando si fanno enumerazioni induttive: altro non si fa che apporre casi per cercare di capire, tendendo a numeri sempre maggiori, qual’è la probabilità oggettiva di un determinato fenomeno.
Chiaramente, di “empirico” in tutto questo non c’è un bel niente, anzi c’è qualcosa di molto teorico, ed anche notevolmente avanzato, ma soprattutto, non c’è nessun ampliamento delle nostre conoscenze: il valore di probabilità oggettivo, in fenomeni del genere, almeno per periodi tempo non troppo lunghi, è fisso e già dato, e comunque è chiaro che si sta solo cercando di decifrare qualcosa di largamente già dato, e nulla di più.
“La deduzione degli asserti osservativi si ottiene mediante un processo che, proprio per la ragione che non è ampliativo, non fa che esplicitare ciò che è contenuto nelle premesse, così che gli asserti empirici vengono dedotti da asserti universali o, meglio, generali.”
“Se non che – e questo ne costituisce la problematicità – l’implicazione viene considerata, da un canto, come un nesso intrinseco, in quanto necessario, ma, dall’altro, come un nesso estrinseco, proprio per il suo vincolare due identità distinte e, quindi, autonome. Ciò equivale a dire che l’implicazione si trova a dover conciliare due aspetti che sono tra di loro inconciliabili: la necessità del vincolo, che, decretando il suo valore intrinseco, impone il carattere tautologico della deduzione; la sua estrinsecità, la quale soltanto consente di differenziare l’antecedente dal conseguente, in modo tale che essi si presentino con una forma che li identifica come diversi.”
Queste due parti varranno, grosso modo, come succinto riassunto del resto del ragionamento.
Esattamente un logico cosa intende dire quando afferma che “A implica B”, dove A e B sono proposizioni? Molto semplicemente, che, come minimo, se A è vero B non è falso. In altre parole, facendo riferimento ad una matrice a due valori di verità, vero (V) e falso (F), con tutti i possibili rapporti, ecco il risultato
V – V
V – F
F – V
F – F
Se è possibile affermare che A implica B, quel che è certo è che si esclude il secondo caso, nulla dicendo riguardo agli altri. Ciò cosa significa? Due cose, principalmente:
– La prima, prendiamo due proposizioni, A e B, entrambe vere. Ebbene, poiché A è vera e B è vera, allora è falso affermare che A è vera e che B è falsa, e pertanto A implica B. Intenda la cosa alla lettera: qualsiasi proposizione vera implica (e, pertanto, coimplica) qualsiasi altra proposizione vera, perchè appunto l’implicazione logica, e questo lo sappiamo dai tempi di Filone e di Crisippo (il “ poiché A è vera e B è vera, allora è falso affermare che A è vera e che B è falsa, e pertanto A implica B”, lo propose, per primo, Crisippo, mentre, il discorso sui valori di verità, fu principiato da Filone, e solo in tempi relativamente recenti ripreso ed approfondito). In pratica, se, come è in questo momento, le proposizioni “Il cielo è nuvoloso” e “Scrivo al computer” sono vere, per il ragionamento di prima è possibile implicare e, pertanto coimplicare che se il cielo è nuvoloso allora scrivo al computer, come, viceversa, che se scrivo al computer allora il cielo è nuvoloso.
Questo è un noto problema, per i logici: in genere lo si risolve in due modi, in base all’ambito in cui si fa riferimento, il quale un po’ argina la questione (se parliamo di fisica, matematica, chimica ecc., si presuppone che l’ambito aiuti un po’ a selezionare le proposizioni a cui facciamo riferimento), oppure, altri hanno proposto proprio di risolvere questo problema aggiungendo una sorta di assioma di rilevanza, in base alla quale proporisizioni come “Se 2 + 2 = 4 allora il cielo è nuvoloso” vengano escluse.
Come è noto, Leibniz aveva pontificato non poco sulla questione, e c’è da credere che… Avesse ragione: in realtà, tutto questo discorso potrebbe avere ben poche stranezze. Prendiamo la proposizione “Se il Krakatoa erutta, allora Edvard Munch dipinge l’Urlo”: Sig. Stella, Lei potrebbe non saperlo, ma… Sono entrambe proposizioni vere – e vera è anche l’implicazione, nel senso più usuale del termine.
E’ vero che, nel periodo in cui Munch dipinse l’Urlo, un vulcano di nome Krakatoa, in Indonesia, eruttò in maniera devastante: cenere, lapilli e quant’altro, si alzò nel cielo per centinaia e centinaia di chilometri, ma quel che più conta, è che una gigantesca nube rossastra si alzò nel cielo, e tale nube, raggiunse la Norvegia, dove Munch, su un ponte con alcuni amici, come raffigurato nel quadro, la vide, ed ebbe un attacco di panico. Fu questo fatto, nel suo complesso, che ispirò la nascita dell’Urlo.
Non ha senso che io ripeta quello che diceva Leibniz, che molto aveva pontificato in materia: basti dire che, in effetti, la nostra ignoranza delle cose del mondo è una variabile da prendere in seria considerazione.
– La seconda cosa, è una generalizzione della precedente: in ultima istanza, l’implicazione che cos’è e cosa fa? A dirla in poche parole, in pratica, dato un modello logico con un numero di valori di verità a piacere, purchè sia possibile una qualche forma di gerarchizzazione, ovvero sia possibile affermare una qualche gradazione, dal valore più basso al valore più alto, di questi valori di verità, l’implicazione logica garantisce sempre che, date due proposizioni A e B, e dato come noto il valore di verità della proposizione A, il valore di verità della proposizione B sia sempre uguale o superiore al valore di verità della proposizione A.
Un esempio. Conosce Lotfi Zadeh? Negli anni ’70 propose quella che oggi è nota come logica fuzzy, ovvero una logica con valori di verità intermedi fra vero e falso. Facciamo un esempio con una logica del genere: siano dati i seguenti valori di verità, ovvero 0 (falso) – 0,1 – 0,2 – 0,3 – 0,4 – 0,5 – 0,6 – 0,7 – 0,8 – 0,9 – 1 (vero). In una situazione del genere, come si costruisce un implicazione? Anzi, cosa vuol dire implicare in situazioni del genere? Molto semplicemente, quello che è stato detto prima: Se A implica B, ed ha valore di verità, poniamo, 0,3, quel che possiamo dire è che B avrà valore di verità uguale o superiore a 0,3 (lasciamo perdere, in questo caso, il valore di verità dell’implicazione stessa: in altre parole, ok che se A ha valore di verità 0,3 e B valore di verità 0,5 l’implicazione Se A allora B è legittima, ma l’implicazione stessa che valore di verità avrebbe?)
In altre parole, l’implicazione altro non è che un modo per trasformare un qualcosa in qualcos’altro, ed in logica, un stringa di simboli ben formati in un altra stringa di simboli ben formati: e ciò, naturalmente, è legittimo quando il valore di verità a sinistra, ovvero nella stringa B, è uguale o superiore alla stringa A.
Se queste considerazioni mostrano chiaramente il carattere tautologico dell’implicazione, la questione della distinzione fra antecedente e conseguente è risolta alla stessa maniera: come potrà immaginare, ogni distinzione reale fra antecedente e conseguente, molto semplicemente, non esiste.
Su questa questione, di nuovo, Leibniz aveva molto pontificato: mi limiterò semplicemente a fare una analogia. Supponiamo la proposizione “Napoleone è un numero primo”, di carnapiana memoria: chiaramente essa è falsa, ma ci mostra che la formalizzazione “esiste un solo ed un solo x per cui valga l’essere Napoleone ed y”, qualsiasi cosa si metta a posto di y, è qualcosa di già implicito in x (o in Napoleone, usando il linguaggio comune).
Per concludere, alcune considerazioni, riguardo “il quantificatore universale tutti”: è certamente vero che esso è importante in materia di legge scientifica, ma ricorda De Saussure nel Corso di linguistica generale? Egli disse in materia una cosa molto importante da tenere a mente riguardo la questione. De Saussure disse che la legge scientifica, per come essa è normalmente intesa, consta di due fattori: necessità e generalità. De Saussure continuava dicendo che, in linguistica, queste due cose non riescono a stare insieme, e quindi si avrà o l’una o l’altra, ma mai entrambe insieme: questo portava alla distinzione fra piano sincronico e diacronico.
Questa considerazione di De Saussure è molto interessante se sviluppata appieno: facciamo una semplice matrice come quella precedente, con tutti i casi possibili.
1) Necessario – Generale
2) Necessario – Non Generale
3) Non necessario – Generale
4) Non necessario – Non Generale
Ogni caso equivale ad alcuni concetti molto importanti: la 1) è la legge esatta come ad es. F = m x a; la 3) è in pratica una legge statistico-probabilistica, la 2) sarebbe il tanto vociferato caso (concetto molto sfuggente e frainteso), ed infine la 4) equivale alla nostra ignoranza riguardo un fenomeno.
Riguardo il sillogismo, esso presuppone che le due premesse siano entrambe vere e che la conclusione, con premesse vere, sia automatica ed anch’essa vera: se una o entrambe le premesse sono false, allora la conclusione è falsa, salvo la correttezza del ragionamento (in altre parole, l’implicazione è legittima anche se le premesse e/o la conseguenza è falsa).
Come giustamente nota, “Tutti gli uomini sono mortali” non è una proposizione autoevidente o altro: è una semplice asserzione empirica, la cui unica conferma è che non c’è uomo, sin’ora, che non sia mai morto. Ciò non di meno, anche se “tutti gli uomini sono mortali” fosse falsa, la proposizione “Socrate è mortale” sarebbe correttamente derivata, sebbene essa non sarebbe vera.
Distinti saluti
Ultima
Signora Ultima, trovo veramente singolare il suo commento. Innanzi tutto è singolare il fatto che scriva un commento, prima della fine dell’articolo stesso: era uscita solo la prima parte. In secondo luogo è singolare che non si interessi del contenuto dell’articolo né di ciò che con esso si intende dimostrare, ma prenda a pretesto alcune frasi decontestualizzate per parlare di quello che vuole lei, e cioè dell’induzione e delle equivocazioni cui è andata incontro, cosa che non ha alcuna rilevanza nell’economia del mio articolo, In terzo luogo, il fatto che parli della deduzione non prendendo affatto in considerazione le mie obiezioni, ma confermando ciò che io dico, e cioè che si tratta di una tautologia, ma usando un tono come di chi vuole dare lezioni: lei mi chiede di continuo se conosca autori o scritti. Non le sembra singolare rivolgersi in questo modo a chi, come lei, ha a cuore la ricerca? Infine, trovo singolare che si nasconda dietro uno psuedonimo. Perché non usa il suo nome e cognome? Cosa la spinge a non farlo? Con cordialità, Aldo Stella
Spett.le Sig. Stella,
In contesti come quello della Rete, è abbastanza usuale che si risponda anche “work in progress”: si trova un contenuto che desta il proprio interesse, in questo caso perché anche io ho riflettuto sulla questione, e si commenta; posso riconoscerLe, in effetti, di aver dato per scontato quello che forse non lo era, ovvero che la divisione in parti non arrivasse ad inficiare in maniera completa l’intendimento delle sue posizioni. In effetti, quando Lei dice che la seconda parte dell’articolo potrebbe cambiare le carte in tavola, ha perfettamente ragione nell’affermarlo.
Riguardo il contenuto dell’articolo, l’ho letto più volte, e, per esperienza, posso assicurarLe che fenomeni del genere capitano: se ritiene che le mie considerazioni siano andate di palo in frasca, non ho motivo per dirLe che sbaglia nel vederla così; ovviamente, da parte mia, la buona fede è totale.
Ho citato alcuni estratti del Suo articolo per questi motivi: 1) Era un modo per ancorarmi al Suo testo, permettendoLe di capire a quali punti mi allacciavo; 2) Ovviamente, si tratta dei punti che, più di tutti, mi sono sembrati pregnanti e salienti del testo (scelta, ci mancherebbe altro, perfettamente soggettiva: se naturalmente ritiene che io abbia sbagliato… – Hmm… Ricorda Heidegger e la questione dell’interpretazione di Essere e tempo: tutti l’avevano letto in termini esistenzialistici, sebbene Heidegger dica chiaramente che quello che gli importa è l’essere, e che l’esserci viene affrontato in quanto ed esclusivamente perché è il momento in cui l’essere si autocomprende; a quel che ricordo, lo dice chiaramente nell’Introduzione – esempio, credo, perfettamente calzante della questione).
Riguardo l’induzione, Lei ne parla nel testo, e mi sono limitata a segnalarLe il mio punto di vista sulla questione, ovvero che, a parere della sottoscritta, ci sia stato un grosso abbaglio sulla questione, praticamente da millenni.
Riguardo la deduzione, il senso della mia posizione è proprio questa: che le Sue conclusioni non implicano contraddizione. Quel che voglio dire, è che la natura sostanzialmente tautologica del ragionamento, e tutti i problemi che ne conseguono, possono, per quanto assurdi possano sembrare, essere perfettamente coerenti e possibili (io stessa ho rincarato la dose a quanto da Lei sostenuto: pensi al discorso “Se 2 + 2 = 4 allora domani sorge il sole” e l’esempio di Munch e del Krakatoa, ciò serviva proprio per far vedere che, in effetti, il discorso raggiunge livelli praticamente parossistici).
Porto un analogia, nella speranza di risultare più chiara: il Suo ragionamento mi ha ricordato Aristotele e, più in generale, coloro i quali sostenevano che il concetto di infinito attuale è contraddittorio perché, se lo si ammettesse, il tutto sarebbe uguale alla parte.
Questa affermazione è vera: infatti, pensiamo ad un semplice esempio matematico. Questi sono i numeri naturali:
1, 2, 3, …, n
Questi sono i numeri primi:
2, 3, 5, 7, …, P1
Ora, a vedere le cose, i numeri primi sono totalmente contenuti nei numeri naturali, e sono entrambi infiniti, ed in effetti, nell’infinito, il tutto è uguale alla parte: tant’è che
1, 2, 3, …, N
2, 3, 5, …, P1
Come può vedere, sono realmente uguali: il tutto è realmente uguale alla parte. Capisce cosa intendo dire? E’ un po’ come questo caso: il risultato è profondamente controintuitivo, ma non c’è contraddizione, ed è, dopo molto sforzo, stato sdoganato come vero (ed ovviamente, per la gran parte, grazie a Cantor).
L’esempio del Kratakoa e di Much serviva a far vedere proprio questo.
Riguardo il tono della mia risposta, molto semplicemente, non c’è un tono: quello che ha davanti è un testo scritto, non una registrazione. Una prova di ciò: il mio chiederLe in continuazione se conosce testi ed autori – se, come dicevo, avesse realmente avuto il “tono” della voce, sarebbe stato chiaro che non era altro che foga e curiosità (anche in questo caso ne ha una conferma: la frase successiva al trattino ha senso solo se detta a parole, non è un buon italiano scritto).
E’ come quando si parla con qualcuno: hai visto Tizio? Sai, Tizio lì ha detto questo, qua ha detto quest’altro. Il “tono” nella mia risposta, era proprio questo.
Leibniz, Aristotele, De Saussure, nella mia risposta, chiaramente non sono altro che individui a cui, come a Lei, si possono fare e domande che rispondono alle domande poste: in pratica un chiamarli in causa.
Per altro, non credo esista altro modo per indicarLe le posizioni di qualcun’altro senza fare riferimento ad un nome ed alle opere dove si afferma quanto si dice: era solo un modo per essere il più precisa possibile (l’equivalente delle note a fondo pagina, insomma).
E’ singolare il mio modo di rivolgermi a chi, come me, ha a cuore la ricerca (replico la sua frase, appunto, per farLe intendere che rispondo a questa parte della sua risposta)? Non sono in grado di esprimermi sull’argomento, come penso possa comprendere anche Lei: vero è che tendo a supporre una situazione del tipo, “ieri stavamo dicendo…” e “guarda, ho notato che, ragionando così…” – … Che in effetti, come dice Lei, sono tutta questione di tono (intenda questa frase come un pensiero ad alta voce, ovvero come una riflessione che mi è sorta occasionata dal suo riferimento al mio tono di espressione).
Riguardo il mio uso di uno pseudonimo, la ragione è semplice: occultare il mio nome favorisce il concentrarsi su quello che dico, sulle ragioni, verità, e certamente limitatezze che sono nel ragionamento.
Se mi chiamassi Emanuele Severino, le mie ragioni sarebbero più valide ed i miei ragionamenti più veri solo perché faccio di nome Emanuele e Severino di cognome? No, naturalmente.
Non nego di avere forti simpatie averroistiche, e la cosa, credo, si faccia sentire in una scelta del genere: finché posso, cerco di identificarmi con un ragionamento.
E’ un po’ come coll’acciaio a pacchetto: chi lo ha inventato? Nessuno lo sa (almeno, questo è quello che le mie non molto approfondite conoscenze mi dicono): quel che è certo è che si tratta di un invenzione molto vecchia. Quale fabbro potrebbe averla inventata? Siamo sicuri, poi, che si tratti di una sola persona?
Infondo, però, tutto ciò non ha alcuna importanza: l’acciaio a pacchetto è quel che conta, come tecnica di costruzione, e come pensiero.
…Effettivamente, quando Averroè, in particolare, ma anche Aristotele, hanno parlato di immortalità dell’intelletto, di “chi pensa vive, chi non pensa muore”, avevano ragione: e l’esempio di prima è una chiara conferma di cosa intendessero, con l’immortalità dell’intelletto. Chiunque abbia inventato l’acciaio a pacchetto è morto da molto tempo, e, a quanto sembra, il suo nome è perso per sempre: ma eterna è la tecnica, il pensiero. Ecco “come l’uom s’etterna”.
E se ciò è vero per una tecnica metallurgica, figurarsi per la filosofia: come sono solita dire, magagne ed intrallazzi durano fintantoché si è vivi; dopo la morte c’è solo il proprio valore.
Distinti saluti
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