Le cose perse e salvate di Emanuele Severino

emanuele-severino2Magistrale, di nome e di fatto, come sempre. La lezione di Emanuele Severino, nella Piazza Grande di Modena, non ha deluso le nostre attese. Una delegazione  corposa di RF ha attraversato l’Italia per assistervi, sabato scorso, all’interno del Festivalfilosofia , quest’anno dedicato al tema delle cose. Il filosofo bresciano, autentico punto di riferimento per gran parte di noi, ha confessato di aver lavorato intorno a questo concetto, a volte anche ossessivamente, per lunghissimi anni, di fatto regalandoci in poco più di un’ora il distillato di quel sedimentato sapere. Seguendo il suo ormai proverbiale metodo filo-genealogico Severino ha pazientemente ripercorso il legame primordiale che, in Occidente, associa il significato di cosa, nelle sue varianti greco-antiche di pragma come in quelle tardo e neolatine di res e di was, allo strappamento dal Sacro originario che questa idea-parola, da sempre, ha rappresentato.

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Machiavellerie

a cura di Mauro Longo

BENE COMUNE

«Ma se voi noterete il modo di procedere degli uomini, vedrete tutti quelli che a ricchezze grandi e a grande potenza pervengono o con frode o con forza esservi pervenuti; e quelle cose, dipoi, ch’eglino hanno con inganno o con violenza usurpate, per celare la bruttezza dello acquisto, quello sotto falso titolo di guadagno adonestano. E quelli i quali, o per poca prudenza o per troppa sciocchezza, fuggono questi modi, nella servitù sempre e nella povertà affliggono; perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitù se non gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e frodolenti. Perché Iddio e la natura ha posto tutte le fortune degli uomini loro in mezzo; le quali più alle rapine che alla industria, e alle cattive che alle buone arti sono esposte: di qui nasce che gli uomini mangiono l’uno l’altro, e vanno sempre col peggio chi può meno».
Istorie fiorentine, III, 13.

CRISTIANESIMO

La religione antica, oltre a di questo, non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria come erano capitani di exerciti e principi di republiche. La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha di poi posto il sommo bene nella umiltà, abiettione, e nel dispregio delle cose umane; quell’altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella forteza del corpo e in tutte le altre cose apte a fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra richiede che tu abbi in te forteza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il mondo debole e datolo in preda agli uomini scelerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggiendo come l’università degli uomini (per andarne in paradiso) pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle.
Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, II, 2, 28-32.

UOMO

Perché gli è uffizio d’uomo buono quel bene che la malignità de’ tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri; acciò che, essendone molti capaci, alcuno di quelli più amato dal cielo possa operarlo.

Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, II, Proemio, 24.

Edizioni utilizzate:

  • Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di Rinaldo Rinaldi, Utet, Torino, 2006.

Guida allo studio del Trattato Teologico-Politico (TTP) (prima parte)

Il Trattato teologico politico è un seme gettato nel pieno della tempesta. Il suo autore non si cura che esso venga disperso o vada a finire chissà dove: egli non può non gettarlo. Siamo al cuore di ogni principio rivoluzionario. A meno di due mesi dal nostro ritiro, vi indico alcune linee direttive per la lettura e la meditazione di quest’opera. Spero di poterne aggiungere delle altre nei prossimi giorni ma vi anticipo fin d’ora che ci limiteremo ad approfondire soltanto la prima parte del testo, ovvero i capp. I-XV. Cionondimeno vi chiedo un attento studio e spero che questo contributo possa segnare l’inizio della nostra discussione.

Qui il documento.

 

Introduzione al Trattato sull’emendazione dell’Intelletto (TIE)

tractatus emendazione dell'intelletto di spinoza, frontespizio

Introduzione: ratio seu causa
Vorrei iniziare questa breve introduzione sul Trattato sull’emendazione dell’Intelletto di Spinoza ricongiungendomi all’ultimo giorno in cui alcuni di noi si sono ritrovati insieme: lo scorso 30 marzo nell’aula magna del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Macerata. Ebbene, se vi ricordate, nel corso della discussione, Proietti mi chiese di chiarire quello che, secondo lui, era il punto cruciale di qualsiasi discorso da premettere in ordine ad una giusta comprensione del pensiero di Spinoza: la questione ratio seu causa, ovvero il tema del rapporto tra ragione di conoscenza e ragione di esistenza, tra ratio cognoscendi, cioè la spiegazione di una cosa, e ratio essendi, cioè la causa del perché qualcosa esiste. Il problema, in altri termini, è quello di verificare la tenuta del discorso logico, la sua estensione, la sua applicazione al mondo dell’esperienza. Si tratta del discorso sul Logos, sul fondamento, sull’estensione della ragione.  Il concetto di ratio è d’ordine logico, quello di causa proviene dall’esperienza. Nell’unificazione dei due, secondo la critica di Jacobi poi ripresa da Schopenhauer, l’accusa di panlogismo alla filosofia di Spinoza.

La tradizione filosofica, a partire da Aristotele, ha invece sempre tenuto separate l’essenza e l’esistenza. Non è sufficiente cioè porre la definizione di un qualcosa affinché possa dedursi la sua esistenza: dal concetto non segue mai la realtà della cosa. Nei Secondi Analitici Aristotele aveva distinto rigorosamente tra il sapere che qualcosa è ed il sapere perché qualcosa è inaugurando così la separazione tra ratio e causa, ovvero tra essenza ed esistenza.

Per riassumere il tema secondo la critica di Schopenhauer (peraltro non confermata dallo stesso autore): si tratta di una questione, quella della coincidenza tra essenza ed esistenza, che è “evidentemente un nulla” oppure essa può, ancora oggi, nell’epoca del nominalismo, dirci qualcosa sull’essere e sulla filosofia? È da ciò che dobbiamo partire per comprendere una delle questioni che sono al fondamento dello stesso Trattato sull’emendazione dell’intelletto.

Aspetti storici e filologici
Non è possibile approfondire le vicende filologiche e filosofiche che sono alla base di questo testo. Pur essendo assodato che il TIE è la prima opera di Spinoza, essa non solo non è mai stata pubblicata ma non è nemmeno stata trasmessa come manoscritto ai suoi amici benché questi glie lo avessero richiesto a più riprese. Non sappiamo con esattezza la data o meglio il periodo della sua composizione anche se l’indicazione di massima corre tra il 1656, data della sua espulsione dalla sinagoga di Amsterdam all’età di 24 anni, e il 1661, data di composizione del Breve Trattato e inizio dell’epistolario. In entrambi questi testi infatti, soprattutto nella lettera ad Oldenburg, Spinoza risulta essere già fortemente critico nei confronti di Bacone e Cartesio che invece costituiscono dei riferimenti impliciti molto importanti nel TIE. Le prime dieci pagine sono piene di occorrenze e lemmi baconiani mentre, verso la fine, il registro espressivo è quasi completamente cartesiano. Il trattato pare che abbia comunque funzionato come piano di lavoro le cui nozioni, di volta in volta, sono state innestate nelle altre opere o espresse nelle stesse lettere agli amici.  Amici che con molta probabilità hanno dato il nome al testo che portava come sottotitolo quello di trattato sul metodo. Si tratta infine di un testo incompiuto: non perché l’autore sia stato prima occupato da altri impegni ed occupazioni e poi strappato dalla morte, secondo l’Avvertenza al lettore scritta dagli amici di Spinoza nella prefazione; il testo è incompiuto per l’aporia insuperabile contenuta nel trattato, difficoltà che conduce alla sua interruzione.

Credo che sia importante ricordare il momento storico della composizione del trattato. Siamo attorno agli anni sessanta del secolo XVII. È la grande stagione dell’egemonia francese sull’Europa, l’epoca di Luigi XIV. Dal punto di vista culturale è l’epoca del mecenatismo (ma quando non c’è mai stato questo fenomeno) ma anche l’epoca di Port Royal. Da un punto di vista politico è la stagione che tenta di fuoriuscire dalla Guerra dei Trent’anni, primo grande conflitto europeo scatenato per motivi essenzialmente religiosi. L’Olanda è ripetutamente in guerra con l’Inghilterra fino a temere, nel 1665, una vera e propria invasione territoriale.

Nozione e metodo della filosofia
Il TIE è un trattato di logica. Esso è ricollegabile ai grandi trattati epistemologici collocabili sulle orme della grande trattatistica aristotelica.

La questione del metodo della filosofia è affrontata da Aristotele in quel complesso di testi riuniti nell’ Organon, in modo particolare nei Topici dove il metodo è definito come ciò che è in grado di respingere la contraddizione rispetto alla tesi sostenuta. Il metodo assume subito una connotazione strumentale rispetto alla ricerca della verità.

Vorrei farvi vedere, in questa breve introduzione, come il problema del metodo sia stato pensato essenzialmente in modo estrinseco rispetto alla filosofia:

  1. il metodo dialettico è quel metodo capace di generare la verità tramite il confronto di tesi contrapposte tra loro: per dialettica si intende la filosofia che si costruisce insieme tramite il sistema della domanda e della risposta: tuttavia questo metodo non sembra assicurare i risultati ultimi se pensiamo che il metodo platonico finisce sempre con delle aporie mentre quello hegeliano è totalmente precostituito dalla nozione di assoluto;
  2. il metodo scientifico è il metodo fondato sull’esperienza, ovvero sull’analisi dei casi oggetto di osservazione, al fine di spazzare via pregiudizi e di stabilire delle tendenze probabilistiche: anche questo metodo ha carattere tuttavia ipotetico tale da non assicurare il raggiungimento dell’episteme; ma soprattutto questo metodo sembra avere un atteggiamento di grande sospetto verso le pretese di autonomia della ragione come mostra l’opera e il pensiero del capostipite di questo metodo nell’epoca moderna, ovvero Francis Bacon;
  3. il metodo matematico è quel metodo in cui la conoscenza razionale è fondata sulla costruzione di concetti, secondo la pregnante definizione di Kant;
  4. con Cartesio, padre della filosofia moderna, si enuncia la volontà di creare una mathesis universale come percorso razionale capace di produrre certezza attraverso la percezione chiara e distinta dell’oggetto di indagine. Il raggiungimento della verità, che coincide con la certezza, è ottenibile attraverso il dubbio metodico che, attraverso il procedimento di carattere analitico costituito dalla divisione e dell’enumerazione, giunga all’evidenza chiara e distinta di una certa cosa. In questo caso il risultato sembra più certo anche se in Cartesio viene mantenuta l’estrinsecità del metodo: è vero che le idee devono essere chiare e distinte, secondo un criterio autoevidente, tuttavia il fondamento ultimo della loro validità si ritrova in Dio garante ultimo della verità dell’idea.

Qual è il metodo di Spinoza? Sicuramente troviamo all’opera tutti e tre i metodi sopra enunciati. La dialettica ad esempio, anche se il termine non è mai utilizzato da Spinoza (forse per una sua connotazione decisamente negativa nel periodo in esame), è il metodo di lavoro ordinario per mettere alla prova i propri concetti e chiarire le proprie tesi; il metodo scientifico costituisce l’ispirazione stessa del TIE, attraverso i temi baconiani della expurgatio, cioè della ripulitura dell’intelletto, e della liberazione dai pregiudizi del volgo; infine il metodo matematico, o anche geometico, che è quello più vicino al metodo di Spinoza in generale, come dimostrerà la stessa opera principale, e che qui è ben rappresentato dai temi della morale provvisoria di stampo tipicamente cartesiano e dal criterio della chiarezza e distinzione.

Tuttavia Spinoza si dimostra non soddisfatto da ciascuno di essi e lo dice, come suo costume, implicitamente al n.30 del TIE. In sostanza Spinoza si chiede se occorra un metodo per discutere la questione del metodo: se si risponde di sì si aprirebbe un processo all’infinito che condurrebbe a vanificare il problema. Ecco allora che si devono dare delle proposizioni autoevidenti nelle quali il metodo consista: queste proposizioni consistono nella norma di un’idea vera data. In tal modo tanto più perfetta sarà questa idea vera data quanto più perfetto sarà lo stesso metodo. Ma qual è e in cosa consiste questa idea vera data? Per ora fermiamoci qui.

Spinoza e il necessario confronto con Cartesio
In via generale è difficile capire Spinoza senza una profonda conoscenza di Cartesio. L’olandese infatti ricalca il francese, nei termini, nelle impostazioni metodologiche, nell’ispirazione. Eppure questa grande vicinanza finisce per essere una grande lontananza.  Che cosa rifiuta Spinoza, in generale, dell’approccio cartesiano? Basti qui enucleare due grandi direzioni teoretiche.

Da una parte l’idea di certezza, ovvero di ricostruzione epistemica fondata sul soggetto. Il francese comincia la sua filosofia con l’Io, l’olandese l’inizia con Dio. Per Spinoza la verità non solo non si arresta alla certezza, sebbene di concetti chiari ed evidenti, ma prosegue fino alla adeguazione interna con la natura. In questo modo si ha il rifiuto del percorso fondativo della filosofia moderna che consiste nel primato del soggetto il quale è esso stesso norma e indice di verità. Non è un caso che Spinoza sarà criticato da Hegel proprio in quanto non sarebbe riuscito a transitare dalla sostanza al soggetto. Per questo motivo si hanno ancora le accuse di realismo o addirittura di misticismo che vengono formulate da un pensatore pieno di ammirazione (e anche di veleno) come Schopenhauer.

Dall’altra il dualismo gnoseologico: la divergenza cioè tra il pensiero e l’essere, ognuno separato dall’altro come due sfere aventi ciascuna il proprio ordine per sé. Cartesio, per unire i due ambiti, era ricorso ad un criterio estrinseco, Dio, che avrebbe funzionato come garante della corrispondenza tra i due ordini. Infatti la non veridicità del risultato della speculazione è ipotesi possibile: essa cioè non è esclusa in base ad un criterio intrinseco al pensiero, la coincidenza con l’essere, ma da un criterio del tutto estrinseco: il fatto cioè che Dio, non potendo ingannare in quanto imperfetto, finisce per assicurare quella identità. Questo dualismo porta dietro di sé una scia di termini che lo rivelano e lo attuano: equivocità, eminenza, analogia. Per Spinoza invece non vi è più dualismo, né metafisico né gnoseologico così come il fatto per cui l’essere si predica univocamente senza le categorie appena ricordate. Ecco forse questo criterio dell’univocità dell’essere che pone Spinoza nell’ambito degli eleati come ci ricordano gli interpreti della sua riscoperta.

Il metodo in Spinoza
Molto utile, prima di addentrarci nel testo del TIE, è la lettera a Bouwmeester del 1666, un giovane medico membro dell’associazione Nil Volentibus Arduum che Spinoza, insieme ad alcuni amici, fonderà nel 1669 con il progetto di cogliere razionalisticamente la grammatica universale sottesa alle lingue particolari e storiche.

Nella lettera vengono riassunti i punti fondamentali del TIE:

  1. il metodo consiste nella conoscenza del puro intelletto, della sua natura e delle sue leggi (cfr. TIE, 91-110)
  2. necessità di distinguere l’intelletto dall’immaginazione (cfr.TIE, 30-90)
  3. bisogna operare una descrizione della mente e dei suoi modi di percezione (cfr. TIE, 18-29)
  4. stabilire una regola di vita: assidua meditazione, animo e proposito fermi (cfr.TIE, 1-17)

In linea generale possiamo dividere l’indagine sul metodo in due parti:

  1. la prima parte in cui il metodo è scopo e fine della filosofia la quale, a sua volta, è diretta a conoscere la potenza di conoscere;
  2. la seconda parte che verte sul contenuto dell’idea vera.

In base alla prima parte definiremo il metodo spinoziano come riflessivo distinguendolo da quello cartesiano che è più semplicemente rappresentativo. In base alla seconda parte definiremo il metodo di Spinoza come genetico o sintetico a differenza di quello cartesiano che è analitico: questo parte dall’effetto per risalire alla causa, quello parte dalla causa per comprendere tutti gli effetti. Rispetto al metodo cartesiano, che vuole giungere alla conoscenza chiara e distinta dell’idea, il metodo di Spinoza, proprio in virtù della sua volontà di comprendere il contenuto dell’idea vera, non si ferma alla chiarezza e distinzione volendo invece giungere alla conoscenza adeguata. Vi è una ripresa del concetto di verità come “adeguazione” che, a differenza della scolastica, viene però pensata come totalmente immanente all’idea senza riferimento a qualsiasi elemento esterno. Alcuni hanno definito tale idea adeguata come idea espressiva, in quanto idea che esprime la sua causa, e hanno finito per far coincidere la dottrina stessa del metodo con la teoria della definizione di cui Spinoza parla ai nn.94-98. In realtà questo inciso, insieme a quello successivo sul rapporto tra idee singole mutevoli ed idee singole eterne, sono esperimenti a cui Spinoza sottopone il suo ragionamento per verificarne validità e coerenza.

Per fare una cosa fatta bene dovremmo dedicare almeno tanti incontri quante sono le parti appena elencate. Noi ci limitiamo qui ad una sommaria introduzione al fine di penetrare i nuclei fondanti. Il metodo, in modo negativo, non è:

  1. la ricerca del segno della verità: in altre parole esso non consiste nel linguaggio o in altri segni convenzionali;
  2. l’intendere le cause delle cose.

Il metodo è innanzitutto ricerca ordinata delle essenze oggettive, ovvero delle idee. Trattasi però non di tutte le idee bensì della comprensione della idea vera che va distinta da tutte le altre percezioni.  Che cos’è allora l’idea vera? L’idea vera è l’essenza oggettiva, cioè l’idea che si forma nella propria mente. Questa idea, a sua volta, è essenza formale, ovvero è essa stessa realtà la quale “produce” una nuova essenza oggettiva che viene così ad essere idea dell’idea. La conoscenza vera è dunque un’idea riflessiva.

Tuttavia non si può incorrere in un regresso all’infinito. Ecco allora che non può esservi metodo se prima non sia data l’idea. Dunque si deve parlare non di semplice idea vera, ma di idea vera data. Ma non qualsiasi idea vera data, come sembra doversi supporre ad un certo momento del TIE, ma quella idea vera data che consiste nella conoscenza dell’ente perfettissimo. Ma se si ammette questo si finisce per riconoscere che ciò che deve essere fondato (il metodo per la conoscenza dell’ente perfettissimo) non può essere il fondamento dell’ente perfettissimo. Proprio questo ragionamento costituisce la base dell’aporia che conduce il trattato alla sua interruzione.

Ma non dobbiamo andare troppo avanti. È necessario soffermarci ora su due nozioni cruciali prima avanzate: ovvero la nozione di idea e quella di ente. Cruciali perché su di esse si focalizza la riflessione di Spinoza e perché non possono essere fraintese senza fraintendere l’intero sistema.

Il significato del termine idea
Il significato del termine idea varia a seconda delle grandi epoche storiche con le quali è consuetudine suddividere il pensiero filosofico.

Per il realismo l’idea è il pensiero in quanto coglie immediatamente la realtà come essa è: in tal modo l’idea non aggiunge nulla alla realtà pensata ed è soltanto il mezzo attraverso il quale essa si manifesta. In altre parole: l’idea è lo strumento per cogliere la realtà.

Per l’idealismo, a partire da Cartesio, l’idea è il contenuto immediato del pensiero e di conseguenza esso conosce la realtà soltanto mediatamente rispetto ad essa. In altre parole l’idea è il fine e l’unico oggetto del pensiero. Con la filosofia moderna si inaugura il principio idealistico per cui tutti gli oggetti sono dei pensati, nostre rappresentazioni, di cui non possiamo essere certi nell’ambito della realtà esterna. Per Cartesio, in particolare, le idee sono immagini ognuna delle quali rappresenta una certa cosa in relazione alla loro realtà oggettiva, cioè del loro essere più o meno chiare e distinte. Egli applica il principio di causalità secondo cui nella causa efficiente deve esserci tanta realtà quanta ne è dell’effetto. È impossibile ad esempio che esista in me l’idea di pietra se non è stata posta in me da una causa che contenga tanta realtà quanto ne concepisca nella pietra. Tutte le idee sono come dei quadri con il pensiero che esige l’esistenza della realtà formale di cui le idee sono rappresentazioni.

Per Spinoza l’idea è un modo del pensiero. Questo significa che, a differenza del realismo, l’idea è il pensiero ma non in quanto coglie la realtà esterna bensì in quanto è espressione di quel pensiero supremo secondo il quale Dio è origine e causa di tutte le idee: l’idea, la singola idea, esprime l’essenza, la natura o la perfezione del suo oggetto. A differenza invece dell’idealismo, l’idea non è semplice rappresentazione ma concatenazione che esprime una certà realtà. Spinoza rinuncia non solo a qualsiasi tentativo di costruzione epistemologica attraverso il principio di causalità ma evita di sostenere, come farà l’idealismo tedesco, che l’idea è l’unica realtà.

A differenza degli antichi e dell’idealismo l’idea trova la sua causa efficiente e formale soltanto nel pensiero inteso come attributo dell’unica sostanza infinita costituita da Dio. In tal modo con il concetto di idea adeguata si intende un’idea che sia espressione della potenza del pensiero. Ecco un’altra difficoltà da chiarire: il termine adeguato non indica la corrispondenza con l’oggetto, come nella tradizione realista, bensì la convenienza interna dell’idea con quello che essa esprime.

Un esempio ci viene fornito con il concetto di automa spirituale. Questo concetto è noto tramite Leibniz che però lo utilizza in senso diverso da Spinoza che per primo lo aveva impiegato. Per automa spirituale si intende una definizione positiva (non negativa come in Leibniz) per cui l’essere umano si deve comprendere come espressione di leggi determinate e non come qualcosa che sia privo di mente (come accade quando Spinoza definisce gli scettici).

Nozioni di ontologia: il concetto di ente in Spinoza
Ma se tutto ciò è vero e si comprende nella sua successione logica, in che modo l’idea deve dipendere dall’ente perfettissimo? Questa nozione, così come è espressa, ci crea non poche difficoltà secondo le nostre tradizionali categorie filosofiche:

  1. intanto perché Aristotele ci aveva spiegato che l’ente può essere detto in molti modi: ma se l’essere può essere detto in molti modi, ciò significa che quella di ente è una categoria all’interno di un genere supremo nel quale ogni ente è ricompreso, anche l’ente perfettissimo. Ma allora cade il discorso circa la sua assolutezza;
  2. in secondo luogo perché Cartesio aveva distinto l’ente in ente necessario e in ente possibile: ma questa partizione decade se la sostanza, cioè il primo genere predicabile dell’ente, coincide soltanto con l’ente necessario.

Spinoza non utilizza le categorie dell’equivocità e dell’eminenza: la prima permette la pluralità degli enti, secondo la prospettiva aristotelica; la seconda la pluralità dei modi con i quali lo stesso ente viene pensato, secondo la prospettiva cartesiana (che la eredita dalla scolastica). In altre parole uno stesso oggetto, che si dà attualmente nella mente umana secondo un certo modo di esistenza, è presente di nell’ idea di Dio secondo un diverso e più perfetto modo di esistenza, cioè appunto in modo eminente (esempio: in Dio anche il mio gatto esiste, ma non esiste così come esiste in sé o come esiste nella mia mente; esiste piuttosto in un modo diverso che non solo è più perfetto, ma soprattutto in un modo che non è attingibile dalla nostra conoscenza).

Spinoza ci spiegherà, in E2P40ScolioI, che il termine ente è un trascendentale (e anche in questo caso il concetto non corrisponde a quello utilizzato dalla tradizione filosofica): in altre parole si tratta di un termine che trae origine dal fatto che il corpo umano, essendo limitato, è capace di formare in sé distintamente soltanto un certo numero di immagini: se questo numero viene superato, tali immagini cominciano a confondersi. Appena ciò avviene, anche la mente inizierà ad immaginare i corpi in modo confuso e li comprenderà sotto categorie più generali, come appunto quella di ente, o cosa ecc. Tali termini dunque significano idee in sommo grado confuse ed il termine ente, insieme ad altri concetti come quello di universale, è all’origine di molte controversie tra i filosofi che vogliono spiegare le cose naturali mediante immagini delle cose.

L’ente è dunque idea in sommo grado confusa che in quanto tale fa parte del primo genere di conoscenza, ovvero dell’immaginazione. Con il termine ente si indica dunque non una qualche costituzione dell’essere, ma un limite della nostra rappresentazione. Quando Spinoza utilizza il termine ente compie una concessione al linguaggio, alla confusione delle nostre rappresentazioni, al fatto che non si riesce a mantenere distinte tutte le rappresentazioni.

Vedete dunque che anche l’ontologia tradizionale viene messa in crisi perché decadono gli stessi presupposti che implicano un certo modo di parlare.

Quando Spinoza parla di ente lo intende come indeterminato: e questo Aristotele, e tutta la tradizione della scolastica fino a Cartesio, non l’avrebbe mai potuto dire. Cambia radicalmente la prospettiva ontologica. La sostanza non è più la prima e determinata e finita predicazione dell’essere, in quanto è lo stesso essere indeterminato ed infinito che si predica di tutto.

L’intelletto
Nel n.91, che apre la seconda parte del TIE, Spinoza enuncia l’obiettivo del metodo: come si formano idee chiare e distinte, anzi come si concatenano, e quindi in che modo può essere costruita una scienza? Per fare ciò è necessario che tali idee siano prodotte dalla pura mente rispetto ai movimenti fortuiti del corpo. L’impianto è ancora decisamente cartesiano in quanto vi è l’idea che la mente possa agire indipendentemente dal corpo.

Ma cosa si intende per pura mente? Che cosa si intende per intelletto? Questa è la ragione fondamentale per cui si arriva all’aporia fondamentale che provocherà l’interruzione e la mancata conclusione del trattato. Senza seguire da vicino i passaggi del TIE, perché altrimenti essi ci porterebbero troppo lontano, segnalo come non c’è chiarezza nella definizione di mente e quella di intelletto in quanto alcune volte sembrano essere la stessa cosa altre volte no. L’aporia e l’oscillazione di fondo è la seguente: l’intelletto è una semplice facoltà conoscitiva oppure è l’organo stesso della verità? Voi capite che se ci manteniamo nella prima accezione, che è quella baconiana e cartesiana, allora l’intelletto può essere emendato e corretto per evitare l’errore, quasi come si fa con uno strumento che debba essere continuamente tarato; ma se dobbiamo intendere per intelletto il secondo significato in che modo esso può essere oggetto di emendazione? In che modo cioè la verità può essere emendata senza incorrere in una fatale contraddizione?

È questo il problema che costituisce anche la criticità della relazione tra metodo e filosofia: il metodo viene prima della filosofia oppure la fondazione del metodo è operazione essa stessa filosofica tale da capovolgere il rapporto tra i due momenti? Vedete che non sono questioni irrilevanti. Spinoza, in quest’opera, oscilla tra le due concezioni per scegliere la seconda via (non qui, perché l’opera viene abbandonata) la quale prevede la fondazione di una nuova filosofia ormai irriducibile a quella di Cartesio e di Bacone. Una sistema che porta già in sé, implicitamente, quelle grandi parole che Hegel pronuncerà a riguardo della sua filosofia: il passaggio dalla filosofia in quanto amore e ricerca della verità, alla filosofia in quanto verità.

Leggiamo sempre al n.91, per finire ed introdurre un’altra cruciale categoria spinoziana che ci aiuterà a ricollegarci a quanto dicevo all’inizio, che è necessario che tutte le idee siano ricondotte ad una sola. Bene e ciò lo abbiamo constatato. Ma in che modo però esse si devono ricondurre all’idea prima? In un modo tale che l’idea prima sia l’inizio della catena oppure che l’idea esprima l’intera catena? Si tratta di due cose diverse:

  1. nel primo caso intendiamo l’inizio della catena dove la natura è un effetto che ha bisogno di una causa estrinseca, di un punto di partenza dove agganciare l’intero ragionamento;
  2. nel secondo caso invece la natura è causa sui in modo che essa non deriva da nessun’altra causa ed implica in sé tutto.

Nel TIE si ragiona ancora secondo il primo modello con la natura che ha come causa Dio o l’ente perfettissimo secondo uno schema cartesiano. Soltanto nel KV (Breve trattato) e nell’E (Etica) natura e Dio sono la stessa cosa e si ha dunque il passaggio fondamentale da un tipo di causalità transitiva ad un tipo di causalità immanente. La conseguenza più importante che ciò provoca, tralasciando la discussione sulle altre perché altrimenti non finiremmo più, è l’idea della causa sui che implica l’idea per cui l’esistenza si dice come necessaria ovvero, per riprendere le parole poste all’inizio di questa lezione, l’idea per cui l’essenza (ogni essenza) implica l’esistenza da cui l’eternità dell’essere stesso. E così adempiamo al primo dei cinque temi indicati da Mignini nella prefazione a OP (Opera Posthuma): il tema assolutamente prioritario che la filosofia di Spinoza consegna alla riflessione dell’uomo contemporaneo è quello della radicale intelligenza dell’eternità di tutte le cose.

(Relazione tenuta a Molinaccio Umbro il 10 luglio 2011, nel corso di RF5)

Baruch Spinoza, Opera Posthuma.

Filippo Mignini ha curato l’edizione dell’ Opera Posthuma di Baruch Spinoza. Ecco uno stralcio della prefazione.

Poiché fu viva intenzione del nostro autore costruire una filosofia che ponesse al centro della propria attenzione il perseguimento di una vita umana buona, ossia libera per quanto è possibile, conviene svolgere brevemente, anche in questa prefazione, alcune considerazioni sui temi della filosofia spinoziana che consideriamo centrali anche nella presente condizione dell’umana civiltà e che costituiscono la ragione principale della ristampa che presentiamo e del lavoro dedicato alla filosofia di Spinoza. Consideriamo infatti Spinoza una delle grandi voci capaci di parlare all’umanità intera, per indicare anche oggi una via di liberazione. (…). Non v’è dubbio che il pensiero spinoziano costituisca anche oggi una alternativa radicale alla cultura dominante dell’Occidente, in un certo senso alla cultura tendenzialmente dominante nel pianeta. E anche oggi esso è capace di promuovere riflessioni e orientamenti che tendono alla rinascita e alla rigenerazione: una possibilità offerta all’uomo contemporaneo, tra le poche capaci di non dividere e di non opporre individui e nazioni. Chi prenderà in mano questo libro sarà già in qualche modo orientato a riflettere su tale opportunità di rinnovamento della vita individuale e sociale. Non si tratta di una via larga, ma stretta, come l’autore stesso ricorda al termine dell’Ethica. E di una via tracciata in dottrine che oggi, forse ancora più di ieri, appaiono a prima vista estranee alla cultura dominante; ma forse proprio per questo degne di essere prese in considerazione. I lettori di questo libro costituiranno una piccola comunità di uomini interessati a meditare sulle ragioni che indussero più di tre secoli fa Baruch de Spinoza a dedicare tutta la vita alla filosofia, ossia, come egli stesso scrisse in una celebre lettera, a “vivere per la verità”. Essi sapranno riconoscere nelle pagine spinoziane gli orientamenti di pensiero che meglio possono illuminare il cammino di tutti gli uomini verso il vero. Mi sia dunque consentito accennare qui rapidamente a cinque temi, quasi un invito e una proposta di comune meditazione, che appaiono ancora decisivi per instaurare una vita filosofica:

  1. una radicale intelligenza dell’eternità delle cose: il tema assolutamente prioritario che la filosofia di Spinoza consegna alla riflessione dell’uomo contemporaneo è quello dell’eternità di tutte le cose (…);
  2. la sostanza è indeterminata: (…);
  3. negazione dell’esistenza di sostanze finite: (…);
  4. critica della trascendenza teologica e della rivelazione: (…);
  5. il diritto all’esistenza di ogni ente è fondato sulla necessità dell’esistenza stessa (…).

 

Emanuele Severino: Fato e libertà

Riportiamo la trascrizione integrale della lectio magistralis di Emanuele Severino su Fato e Libertà, tenuta a Carpi il 19 settembre 2010 nell’ambito del Festival della Filosofia.


Fato e politica
Sono subito tentato di mettere sul chi va là chi potrebbe pensare che un tema, come quello che è stato intitolato Fato e Libertà, sia dopotutto di quei temi che vengono chiamati “astratti” e che invece astratti non sono. Una piccola annotazione storica: uno dei più grandi commentatori di Aristotele, Alessandro di Afrodisia, scrive un trattatello per l’imperatore (siamo nel II secolo dopo Cristo) contro i fatalisti i quali pregiudicano la salute dello Stato, cioè della società, cioè della vita politica, perché dice (e in qualche modo il suo discorso viene ripreso da tutti coloro che si accodano ad Aristotele) che il fatalismo impedisce la punizione dei colpevoli e il premio a coloro che l’hanno meritato. Quindi il fatalismo è una concezione politicamente pericolosa. Ripeto: politicamente pericolosa perché se tutto accade fatalmente allora non si può parlare di responsabilità di qualcuno; non c’è più responsabilità e quindi cadono tutte le reti dello Stato, cade anche la vita sociale e politica. E questo discorso si è poi prolungato nei secoli ed anche oggi è una delle considerazioni che vanno per la maggiore. Pur non avendo i titoli di essere considerata come avente senz’altro l’ultima parola… Dico questo perché la filosofia ha sempre avuto questo carattere di discussione totale di tutto, di mettere tutto in questione. E mettere in questione anche le leggi dello Stato. Non è un esercizio accademico perché ciò che il pensiero filosofico mette in questione è poi, durante tutta la vita dei mortali, messo praticamente in questione: la vita dell’uomo è una vita di distruzioni, di massacri, cioè di continue violazioni di tutte le leggi che l’uomo via via si è dato. E allora non è accademia quella della filosofia che chiede: ma perché i colpevoli devono essere puniti e perché coloro che noi, in base a certi criteri, riteniamo come non colpevoli, devono essere premiati? Ecco già questa domanda mostra che la politica stessa non può essere considerata come un fatto ovvio all’interno del quale siamo destinati a vivere. La politica è sempre stata l’unificazione della complessità sociale. Ma unificazione in nome di che cosa? In nome di una saggezza che i politici possederebbero per se stessi o in nome di una saggezza che la politica eredita da una dimensione diversa dalla politica e che inizialmente è stata il mito? Nell’età del mito le leggi del mito sono le leggi della politica. E’ stata la filosofia, quando la filosofia ha incominciato a farsi avanti, e allora anche la politica ha cambiato volto ed è diventata l’adeguazione dello stato alla verità disvelata dalla filosofia. Questo preambolo l’ho fatto per dissipare l’eventuale impressione di qualcuno che questo titolo, Fato e libertà, possa risultare astratto e fuori del nostro tempo. No: si tratta di mettere in questione queste categorie che intervengono alla radice del fatto sociale e politico. Perché dobbiamo rispettare e amare il prossimo? Perché dobbiamo rispettare le leggi quando viviamo in un mondo in cui il prossimo è stato massacrato e le leggi sono state violate. Perché? Se non si sa rispondere a questa domanda allora ogni tipo di unificazione politica è un dogma. Dogma che intende imporsi ed intende farsi valere come violenza…
Dopo questo preambolo cerchiamo di guardare in faccia le due parole che compongono il titolo del nostro incontro incominciando ad interrogare il linguaggio il quale possiede, prima della saggezza che esso esprime, una saggezza nel suo costituirsi come linguaggio. Il modo in cui sono fatte le parole cioè, esprime una saggezza interiore a quella che si manifesta usando queste parole. Adesso esemplificherò in modo che questa battuta apparentemente astrusa si sciolga.

Fortuna/Fato
Qui si è parlato della fortuna. Credo che molti abbiano rilevato la parentela della parola fortuna con la parola latina fors. Forse molti hanno rilevato questo. Ho detto “forse molti”: ma la parola “forse” è una parola che sta alla radice della parola fortuna. La fortuna è il destino buono o cattivo? “Forse” può essere buono o può essere cattivo. Il “forse” indica l’ambiguità del concetto. Da un lato la fortuna è ciò che ineluttabilmente accade. Dall’altro lato è ciò che accade inspiegabilmente, e non ineluttabilmente, ma casualmente. Ma guardiamo l’altra faccia della medaglia. Noi diciamo “fortuna” che è parola latina che ha un accompagnamento di parole quanto mai significative. Il forse per esempio equivale al “fortasse” latino, al “forsitan“, che indicano l’incertezza, l’incertezza degli accadimenti. Se la fortuna indica anche la necessità, allora la parola latina è preceduta da una serie di parole greche che indicano a loro modo con intensità particolare il fato. Per esempio la parola δικη (dike) che vuol dire giustizia: ma la parola giustizia suona debole perché δικη in greco è costruita sulla parola δεικνυμι (deiknimi) che vuol dire mi mostro, mi mostro con autorità. I greci dunque per indicare il fato utilizzano la parola δικη, αναγκη (ananke), ovvero la necessità, ma poi anche la parola λογος (logos), νομος (nomos) e questo per quanto riguarda l’ambiguità del linguaggio che insegna mostrando la polivalenza della parola fortuna, fato.

Libertà
Ma il titolo dice fato e libertà. Le cose si complicano sempre di più…Anche qui la parola libertà, nostra italiana, deriva dal latino libertas, liber: alla radice sta il termine liber, il concreto liber, che anche foneticamente suona simile al greco ελευϑερος (eleutzeros). Senonché le lingue anglosassoni hanno un modo del tutto diverso per indicare la libertà. Il tedesco usa per esempio la parola frei: anche acusticamente loro sentono che c’è differenza tra liber e frei. L’inglese dice free: almeno apparentemente, dal punto di vista acustico, i suoni dei due gruppi di parole suonano foneticamente
molto divaricato.
Che cosa vuol dire liber? Anche qui la glottologia fa risalire la parola liber e anche la parola  ελευϑερος(poi prenderemo congedo da questa introduzione glottologica ma intanto è opportuno sentire che cosa la riflessione sul linguaggio e che cosa innanzitutto il linguaggio dice). Ebbene rilevavo che la glottologia fa derivare la parola liber dalla radice indoeuropea leut che ha stranamente questi due significati: vuol dire gente ma anche crescita. Il tedesco dice leute (per gente, ndr): perché la stessa parola indica due ambiti semantici così diversi, gente e crescita? Innanzitutto crescita nel senso della fioritura arborea: la fioritura indica lo stato in cui il vivente vegetale si solleva dall”oscurità del terreno, si espande nell’aria, si libera dall’oscurità e dai vincoli che la terra costituiscono rispetto ad esso. Crescita è appunto il liberarsi dal vincolo, dall’ostacolo, dalla tenebra, dal limite. Bene, si dirà…Questo lo abbiamo capito: ma cosa c’entra “gente”? (perchè abbiamo detto che la radice leut vuol dire insieme crescita e gente). Ora, la gente è quell’insieme di eventi che ad un certo momento percepisce se stessa come capace di affrancarsi dall’incombere della natura del mostro più forte e di respirare così come respira la vegetazione. Quando ad un certo momento il gruppo sociale si sente autonomo, ecco che chiama se stesso col nome con cui aveva indicato in un primmo tempo la crescita, la fioritura. Allora ci spieghiamo come mai la radice leut possa significare ad un tempo e la crescita degli alberi e la crescita di quella vegetazione umana che il gruppo sociale che è riuscito a svincolarsi (prima avevo usato la parola mostro…) dai mostri archetipici, originari, arcaici e si sente espansa così come si espande nell’aria la vegetazione. E questo andrebbe bene per quanto riguarda allora il gruppo di parole che si rifanno alla radice leut e che risuona nella parola latina liber.
Solo che avevamo detto che c’è quell’altro gruppo di parole anglosassoni, altotedesche, gotiche che usano quel timbro tutto diverso che avevamo esemplificato con la parola tedesca frei e la parola inglese free. Anche qui è interessante sentire cosa dice la glottologia in proposito che fa risalire queste parole a una radice indoeuropea che suona così: prida cui proviene probabilmente l’aggettivo πριαμος (priamos) che vuol dire caro, amabile, diletto. Ed anche qui è strano come mai ciò che poi viene detto libero è il diletto, il caro, l’amabile..Eppure si può spiegare con relativa facilità. Perché che cos’è il diletto e l’amato se non quello rispetto al quale l’amante sgombra il campo, libera gli ostacoli, gli rende la vita vivibile, lo lascia espandere, lo lascia accrescere. Ciò che mi è caro è ciò rispetto a cui esercito la mia facoltà di lasciarlo crescere e di incentivare la sua crescita. Ecco che i due gruppi linguistici apparentemente lontani, liber/ελευϑερος da una parte, frei/free dall’altra, finiscono per dire la stessa cosa: la liberazione, il riuscire a respirare senza ostacolo dell’oscurità della terra che limita la crescita. Si presenta cioè il concetto di libertà come liberazione. E sempre dicevamo che fato significa, in uno dei suoi due lati, l’irrevocabilità degli eventi e quindi ciò che non è forsitan, ciò che non è fortasse ma che è necessità, allora la libertà come liberazione è liberazione dal fato. E allora anche qui nulla di strano ma molto di vicino a noi anche se non ci interessiamo di filosofia o di scienza o di religione. Molto vicino a noi perché quando l’uomo incomincia a guardarsi attorno nei primi tempi della sua esistenza sulla terra, ciò da cui si sente soprattutto legato e vincolato è il dolore, la morte. Infatti molte delle parole che nominano il fato nominano anche la morte. Per esempio la parola μοιρα (moira) in greco, che alla lettera vuol dire parte, la parte data a ciascuno, nomina molto spesso quella parte che è la morte. Qui non è il caso di avere passione per la filosofia, per la scienza o per la religione o per altro. Qui tutti noi siamo toccati in ciò che più ci preme da vicino: liberarci o allontanare il più possibile o esercitare al massimo la liberazione dal dolore e dalla morte, che sono il fato!

La liberazione dal fato originario: il mito
Il fato iniziale, l’ineluttabilità iniziale. In effetti il mito, se prima dicevamo è organizzazione della vita politica, è tale proprio in quanto insieme e il modo più antico di far fronte al dolore e alla morte perché iscrive il dolore e la morte all’interno di un senso del mondo che in qualche modo anticipa gli eventi futuri e anticipandoli li rende sopportabili. Perché nulla è più pericoloso dell’ignoto che noi attendiamo e non conosciamo e nulla è più salvifico dello sguardo anticipante, previdente che squarcia le nubi e guarda che cosa sarà in futuro. Il mito e poi tutte le religioni hanno questo scopo: squarciare i veli del futuro ed assicurare l’uomo. E intorno a ciò che è il fato originario e che è il dolore e la morte. Liberazione dal fato originario è dapprima il mito, l’esistenza mitica e la liberazione originaria.

La liberazione dal mito: la filosofia
Ma loro comprendono che la posta in gioco è troppo importante perché ci si possa accontentare del mito e della religione. Con tutto il rispetto che dobbiamo avere per queste forme, che sono così sentite perché appartengono alla circolazione sanguigna del nostro essere, con tutto il rispetto (sottolineo), però non possiamo ignorare che, ad un certo momento, cinque secoli prima di Cristo, l’assicurazione mitica, la liberazione mitica dal fato mortale, è troppo avventurosa, troppo incerta, troppo dubitabile perché ci si possa fidare di essa. Appunto perché la posta in gioco è così importante, ovvero liberarsi dalla morte e dal dolore, esplode ad un certo momento nella storia dell’uomo questo vulcano che noi siamo abituati a considerare come quell’astrattezza che sta sulle nuvole e che si chiama filosofia la quale però non sta sopra nelle nuvole ma sta sotto, nel terreno, ed è la volontà di assicurarsi contro la morte e il dolore. Nasce cioè quell’atteggiamento in cui la liberazione dalla morte e dal dolore è la verità.
Anche Gesù dice la verità vi farà liberi: la verità vi libererà. E ci possiamo spiegare nel contesto di quanto abbiamo detto questa affermazione di Gesù. Per lui la verità è quello che lui dice. Eh sì, la verità libera perché altro è il mito che squarcia i veli del futuro promettendo che il futuro sarà quello  che il mito dice. Una promessa che però, se vogliamo usare le parole di un grande greco, equivale, dice Prometeo, ad un certo punto, a “cieche speranze”. Perché cieche? Perché ogni mito, ogni fede, ogni religione è la volontà che il mondo abbia un certo senso e non un altro. Una volontà che si scontra con volontà opposte. E lo scontro non può non risolversi dopo un tentativo di dialogo. Anche questa mattina Benedetto XVI diceva la necessità del dialogo… Ma un dialogo tra fedi non può non risolversi nello scontro tra due volontà che il senso del mondo sia come una di esse dice. E quando si constata l’impossibilità di recedere da questa volontà è inevitabile che lo scontro tra il piano dialogico si trasferisca sul piano pratico, conflittuale, al piano della guerra, del sangue, della morte. Quando la filosofia nasce intende appunto mettere in rilievo che la volontà di pace esercitata in nome del mito – per quanto nobile, grande, venerabile certamente essa sia – la volontà di pace è inficiata proprio dal fatto di essere volontà. Voglio che il senso del mondo sia questo…ma a cui fa eco un controcanto che nega questo. I greci hanno osato l’insperabile, cioè hanno pensato un sapere che fosse innegabile, non perché è voluto, ma perché fosse per se stesso innegabile. Questo è il grande sogno di tutta la tradizione non solo filosofica, ma dell’occidente. Non solo dell’occidente: ormai del pianeta perché ormai le strutture concettuali dell’occidente sono diventate le strutture concettuali dell’intero pianeta. Questo non vuol dire che oggi l’Europa domini la scena mondiale – è proprio il contrario – ma vuol dire che le categorie concettuali venute alla luce in Europa oggi stanno alla base del mondo intero. Se qualcuno pensa all’India non dimentichiamoci che non è orientale quella democrazia che in India oggi costituisce l’esempio più macroscopica di convivenza democratica. Se qualcuno pensa alla Cina non dimentichiamoci che il marxismo – in un primo tempo – è uno dei figli iperlegittimi dell’occidente. Marx viene da Hegel, Hegel guarda ad Aristotele, Aristotele sta al centro della grecità. Il capitalismo stesso – e si fa un grosso torto al capitalismo a considerarlo semplicemente uno strumento come spesso si dice – come il comunismo è una grande filosofia. Per questo dicevo prima che quando la filosofia nasce e propone il concetto di libertà come liberazione vera dal dolore e dalla morte, intendevo dire non semplicemente qualcosa che riguarda quel settore della cultura che è la filosofia coltivata da certuni e non da altri, ma intendevo alludere – ecco uso daccapo l’espressione “circolazione sanguigna” che è presente anche in coloro che non hanno mai sentito parlare di filosofia perché parole come essere, niente, qualità, quantità, libertà sono parole che incominciano ad essere pensate, con l’intensità con cui sono pensate all’inizio della storia dell’occidente, con un intensità che prima non era venuta alla luce. L’occidente cresce all’interno di questa rete di categorie o di significati che noi usiamo quotidianamente senza renderci conto della profondità e dell’altezza di questi concetti. Provino a tirar via dalla scienza il concetto di prima e di poi, di tempo inteso – Aristotele diceva che il numero del movimento secondo il prima e il poi ma quando diceva la numerazione del movimento intendeva per movimento ciò che ormai per noi è pacifico, cioè il nascere e il morire uscendo dal non essere e rientrando nel non essere.
Che cos’è questo nostro incontro? Qualcosa che tre ore fa poniamo non era; qualcosa che tra un’ora non sarà più. Noi pensiamo così ma “non era” e “non sarà più” sono le parole tremende e decisive che noi continuamente usiamo e sulle quali noi ritorneremo verso la fine della conversazione e che sono le parole che indicano il senso radicale della liberazione.
E intanto, molto per cenni, accenniamo alla vicenda della liberazione dal fato originario. E, abbiamo detto, se la prima forma di liberazione è il mito, il mito è a sua volta ciò da cui la filosofia si libera. Il mito diventa a sua volta un fato, una remora, perché affidarsi alla promessa del racconto mitico-religioso è affidarsi ad un vincolo e sottostare ad un vincolo che non mantiene, e non può mantenere, le proprie promesse. E quindi questo vuol dire che grande è l’animo di coloro che si dicono credenti perché esprimono con forza l’essenziale debolezza del contenuto di cui si fanno portatori…

La liberazione dall’episteme
Se la filosofia libera dal fato mitico, ecco la grande e tragica vicenda del nostro tempo: il tramonto dalla verità filosofica. Una verità filosofica che significa non un sapere voluto ma un sapere che è innegabile e che sta indipendentemente dalla volontà di farlo stare. Quando passo vicino a questo giro di concetti non posso trattenermi dal ricordare i modi con cui i Greci nominano questo stare della verità. Tutti ricordano che in greco verità si dice αλεηεια (aleteia) – Heidegger lo continua a ripetere e vuol dire non nascondimento – λεηε (lete), noi diciamo latente, cioè nascosto,  α-λεηεια è il non latente. Ci si dimentica però, sottolineando unicamente la parola αλεηεια, che il non nascondimento è il non nascondimento di ciò che sta stabile e che i greci chiamano episteme. Steme è una sostantivizzazione della radice sta- Noi diciamo lo Stato. Il grande sogno dei greci e poi di tutto il pensiero occidentale e di tutte le opere dell’Occidente è l’evocazione di ciò che sta, di ciò che è epistemonikon. Prima dicevo della tragedia del nostro tempo perché questa evocazione dello stante, che da due secoli viene messa in questione in campo filosofico, ma anche in campo scientifico, artistico, e certamente con una forza diversa, però tutti noi percepiamo la differenza guardando per esempio la pietà di Michelangelo: lì il sacro è visibile. E un quadro di Kandinskji dove c’è la dissoluzione della forma: tutta l’arte contemporanea, moderna, è una dissoluzione della forma. Ma alla radice della forma sta la forma divina: quindi penso che tutti abbiamo la sensazione dell’assenza di Dio nell’arte contemporanea o nelle forme più significative dell’arte contemporanea. Ma poi anche la scienza nel suo dichiararsi indifferente al problema di Dio – tra parentesi in questi giorni abbiamo sentito lo scienziato Hawking che in modo simpaticamente spudorato diceva e formulava (facendola passare per la sua competenza di fisico) questa grossa metafisica, che è la metafisica dei nostri tempi: che il mondo viene da nulla, che il mondo è un’autocreazione senza che ci sia bisogno di un creatore – Questo è il clima del nostro tempo: le cose vengono tutte da niente senza che ci sia bisogno, alle loro spalle, di una causa, di un creatore. Ma Hawking mostra di non sapere che appunto questo è il discorso del nostro tempo: fiutiamo nell’arte contemporanea, percepiamo nella volontà del sapere scientifico di chiudersi nella sua specializzazione, ma che soprattutto la filosofia ha – sia pure in un sottosuolo che va esplorato con cura – messo in evidenza, quando Nietzsche parla della morte di Dio allude innanzitutto alla morte della verità, di quella verità  incontrovertibile che i greci chiamano episteme, lo stante. Lascino che anche qui mi lasci prendere dalla mia preoccupazione anche per quel mondo così importante che è il mondo cattolico al quale dico spesso che il nemico non è quello indicato continuamente con il nome di relativismo…quella è una bigotteria laica, il relativismo è il bigottismo laico, è la fede laica….che è fede e che sta instabile tanto quanto la fede religiosa. Il nemico autentico della cristianità è l’accertamento che se gli eterni fossero, che se esistesse l’eterno, non potrebbe esistere il mondo. Perché l’eterno riempirebbe tutti gli spazi vuoti. Noi sentiamo lo Zarathustra di Nietzsche quando afferma: “Se esistesse un creatore non potrei creare; ma io creo, dunque non può esistere un creatore“. Sembra la battuta di un letterato come spesso Nietzsche è considerato. E invece qui c’è da essere d’accordo con Heidegger quando dice che Nietzsche è tanto rigoroso quanto Aristotele. Questo è il nemico che il mondo cattolico dovrebbe guardare in faccia. E che certamente il mondo cattolico è scusato dal fatto di non guardarlo in faccia perché oggi vige per lo più quella che ho chiamato bigotteria laica, quella forma di liberarsi a buon mercato da quella tradizione epistemica senza di cui non esisterebbe scienza, non esisterebbe cristianesimo… Provino a pensare il concetto cristiano di creazione ex nihilo sui et subjecti. Le cose del mondo sono create ex nihilo sui, dalla loro nientità, dalla loro nullità. Et subjiecti: dalla nientità della materia di cui sono fatte. Ma il cristianesimo ha inventato il concetto di  “niente” secondo quel  significato così radicale che il niente ha in quanto portato alla luce dal pensiero filosofico greco. Il cristianesimo eredita il concetto di niente. Così come quando Gesù dice: “la verità vi farà liberi”, certamente intende che la verità sia quella che lui dice, però quello che lui dice è verità nel senso in cui i greci intendono questa parola, cioè lo stante. Se noi chiediamo ad un credente “ciò in cui credi è forse veroo è perentoriamente vero?“. Il credente se è tale risponderà “è perentoriamente vero” ed userà, anche se non se ne rende conto, quel concetto di stabilità, di epistemicità del creduto che eredita dall’episteme greca. Applica cioè al contenuto della fede il senso dello stare, dell’episteme, che egli eredita dal pensiero greco. Ma tutto il cristianesimo – non per nulla Hegel diceva a ragione che il cristianesimo è la più alta religione filosofica perché piena di strutture e categorie filosofiche – è una formidabile cinghia di trasmissione del pensiero filosofico tradizionale alle masse. Più volte, e penso che molti di loro lo abbiamo pensato nella vita di un individuo che passa la sua vita, poniamo, in un ufficio, in una fabbrica, nella routine del suo lavoro, qual’è la cosa più intelligente e più alta che ha pensato se non la cosa che ha sentito da bambino al catechismo quando qualcuno gli diceva: “Dio ha creato il mondo”. Le parole più importanti erano in balìa e all’inevitabile povertà mentale di un bambino e che però si sentiva dire le cose più importanti di tutte quelle che avrebbe sentito in qualsiasi dimensione: culturale, pratica, sul lavoro, politica. “Dio ha creato il mondo!”. Ebbene è la grandiosità di questo quadro che va al tramonto con gli ultimi duecento annie dicevo in testa è il pensiero distruttivo del nostro tempo. Questo processo di negazione della tradizione epistemica occidentale, che non è solo filosofica ma sociale, politica, civile, economica, è il modo con cui nel nostro tempo si effettua la liberazione dal fato costituito dalla verità. Perché la verità intende essere l’assoluta necessità, l’assoluta ananke, l’assoluta moira, l’assoluto logos, l’assoluto nomos: logos vuol dire l’assoluto senso concettuale del mondo, nomosvuol dire legge…L’Europa, la storia della modernità, è la storia della liberazione dagli immutabili, dagli eterni, portati alla luce dalla grande tradizione filosofica: questo è il senso che la liberazione possiede oggi.

Il senso radicale della liberazione
Mi avvio verso la conclusione con l’intento di portare alla luce il significato più importante della liberazione. Importante anche perché è in grado di unificare tutte le forme di liberazione che abbiamo incontrato: la liberazione mitica, la liberazione dal mito, la liberazione dall’episteme. Cioè dall’esistenza di un mondo e di una società retti da leggi inviolabili. C’è qualcosa di ancora più originario che prima abbiamo nominato parlando dell’essere e del nulla, come la radice da cui germoglia l’albero con tutti i significati della liberazione dal fato. A che cosa mi riferisco? A qualcosa che pratichiamo quotidianamente (e l’avevo prima indicato). Mi riferisco al fatto che per noi – e quando l’avrò detto potrà sembrare di aver parlato di un’ovvietà, che per noi è assolutamente fuori discussione, pacifico, scontato – che le cose sono state e non saranno. Avevo fatto l’esempio del nostro incontro: questo nostro incontro, questo nostro guardarci in faccia, questo nostro pensare al fare e alla libertà, questo non era e tra un pò non sarà più. Questo diciamo noi in quanto abitatori dell’Occidente. Ma in questo modo abbiamo parlato del senso più radicale della libertà come liberazione, nel senso più radicale…perché – che poi, quando prima ho accennato a Hawking, avevo detto essere il modo di pensare ormai (la koiné e il comune modo di pensare) della cultura mondiale – insomma se si va per strada e si chiede a uno “c’è Dio?” quello resta un pò imbarazzato…ma se si dice a uno “ci sono le cose che nascono e muoiono, che escono dal nulla e ritornano nel nulla?” qui la più parte delle persone si trova a proprio agio e dice sì che ci sono, sono le cose che noi conosciamo, anzi le uniche che conosciamo perché di un Dio eterno, beh, si può augurare o deprecare che ci sia, ma c’è questo che lo lascia problematico: l’eterno come elemento che soffoca il mondo. Quell’eterno che è diventato ancora più pericoloso della morte e del dolore, perché questo ad un certo momento è stato il clima che si è formato che ora tende a dilagare. Non per nulla la Chiesa è pessimista. Che Dio evocato per liberare dal fato mortale è diventato più ossessionante del pericolo da cui avrebbe dovuto liberare: questa è l’atmosfera della cultura del nostro tempo. Anche se noi certamente viviamo in un periodo di reviviscenza, ma provvisoria, dell’attaccamento al mito. Ebbene stavo dicendo: c’è un significato della liberazione originario, fondamentale, che è espresso dall’esempio che avevo fatto prima a proposito del nostro incontro: che prima non era e poi non sarà più. Il nostro incontro ma tutte le cose con cui noi abbiamo a che fare: la nostra casa, i nostri cari, gli oggetti che possediamo, quelli che vediamo, perfino il sole se andiamo indietro al Big bang originario non c’era…E se andiamo avanti seguendo il fenomeno entropico, cioè il livellamento termico dell’universo, non ci sarà più. Tutto per noi è il non essere stato e il non essere più. Questo vuol dire che tutte le cose, per il clima della nostra cultura, si sciolgono dall’unità che esse hanno con l’essere e con il nulla. Nasce un essere umano: ecco, si è sciolto dal legame che questo essere prima aveva col nulla. Muore un essere umano: ecco, si scioglie dal legame che esso aveva prima con l’essere. Sciogliersi dal legame vuol dire liberarsi da un fato…Questo è il significato terrificante che domina ormai e tanto più terrificante tanto più, per noi, abitatori dell’Occidente, è innegabile. Tutte le cose sono libere dal loro essere e dal loro nulla. il significato radicale della liberazione è appunto questo loro prostituirsi e con l’essere e col nulla. Mi è venuta in mente la parola prostituirsi perché loro sanno che Simmel parlava del denaro come simbolo del divenire e parlava del denaro come la “grande prostituta” con la P maiuscola in senso addirittura biblico. La grande prostituta è il denaro perché non è fedele a nessuna mano e passa da una mano all’altra. E’ il simbolo del divenire: le cose passano dalla mano del nulla alla mano dell’essere, si prostituiscono con l’uno e con l’altro.
Loro conoscono il dialogo del Grande Inquisitore di Dostoevskji. Con Gesù ritornato a Siviglia ed è stato incarcerato.  Il grande inquisitore lo visita nel carcere di notte e gli dice molte cose e Gesù non parla. E gli dice: “Noi non siamo con te che sei venuto a proporre agli uomini la libera scelta perché non c’è nessun fardello per gli uomini della libertà come libertà di scelta. Io – dice il Grande inquisitore, un vecchio ormai vicino alla morte – sono con Lui...”. E Lui è – parola di Dostoevskji – lo spirito distruttore, lo spirito del non essere, lo spirito della morte. Allora il demonio è il nume tutelare dell’oscillazione delle cose tra l’essere e il nulla. Ma è solo Lui il nume tutelare o – e lo dico con tutta umiltà rispetto ai credenti – nume tutelare dell’oscillazione tra l’essere e il nulla è anche Dio. Non è forse Dio quello che può creare solo in quanto considera nulla le cose – abbiamo detto prima che la creazione è ex nihilo – proprio perché le considera come originariamente nulla? Ma allora questo scontro tra il Grande Inquisitore e Gesù non è lo scontro tra due amici che solo in superficie sono in antitesi? Amici così come sono amici gli affermatori di Dio e i negatori di Dio?

Oltre la contrapposizione di fatalismo e libertà
Ci stiamo portando – concludendo – verso una dimensione in cui non si tratta di scegliere tra fato e libertà ma di rilevare che sia il fato sia la libertà sono due modi diversi di gestire l’oscillazione delle cose tra l’essere e il nulla. Per il fatalismo l’oscillazione è un percorso inevitabile; per chi crede nella libertà è un percorso che c’è ma sarebbe potuto essere diversamente. Entrambi però appartengono alla stessa dimensione. Questo discorso che il sottoscritto sta facendo non ha nulla a che vedere con l’ateismo. Anzi dice: e gli amici di Dio e i nemici di Dio; e i fatalisti e gli amanti della libertà; quindi da una parte Aristotele ed Erasmo da Rotterdam come amici della libertà e, dall’altro Lutero, Calvino, Agostino il quale diceva: “Solo per grazia, cioè solo per il sacrificio di Gesù, l’uomo è libero“. Intendo dire che queste grandi antitesi, amici/nemici di Dio, fatalisti/non fatalisti, queste grandi antitesi sono antitesi di superficie perché le loro fondamenta sono le stesse, la loro anima è la stessa: cioè la gestione dell’oscillazione delle cose il cui nume tutelare è o il demonio o Dio. C’è un momento in cui Gesù dice “il demonio è omicida“. Ma sia il demonio che Dio, considerando l’uomo come nulla, perpetrano la nullificazione, cioè il senso originariamente radicale dell’uccisione, dell’omicidio. Questo non vuol dire che l’ateismo sia dalla parte della ragione; questo non vuol dire che l’ateismo debba prevalere sull’affermazione della libertà. Questo vuol dire che si tratta di portarsi oltre la contrapposizione tra fato e libertà, così come di portarsi oltre la contrapposizione  tra amicizia ed inimicizia di Dio, tra attaccamento al fato divino e liberazione dal fato divino. Sia l’attaccamento, sia la liberazione hanno alla radice la follia estrema che pensando che le cose oscillino tra il nulla e l’essere pensano le cose come nulla e quindi perpetrano l’omicidio nel suo significato più originario.

Un’altra verità
La nostra civiltà si sta avviando verso la civiltà della tecnica; la civiltà della tecnica è il modo più radicale in cui la liberazione degli immutabili è destinata a realizzarsi; ma la civiltà della tecnica è anche una civilità che ripristinando in certo modo il mito, cioè la volontà che le cose siano, è inevitabile che ad un certo momento lasci esplodere quel dubbio che ebbe ad esplodere quando nacque la filosofia, il dubbio intorno alla validità del mito. Abbiamo davanti a noi, dopo che si saranno in qualche modo composte le conflittualità tra popoli ricchi e popoli poveri, abbiamo di fronte la possibilità che i bisogni fondamentali dell’uomo siano risolti dalla tecnica. Ma la tecnica che sarà a sua volta liberata dalla filosofia che le dice: “Guarda che tu non hai limiti, guarda che non esiste un Eterno..“. La tecnica non potrà rivendicare quel carattere di verità che dà la sicurezza alla felicità. Noi lo sperimentiamo: quanto più siamo felici, tanto più temiamo di perdere la felicità. Se da un lato dunque l’età della tecnica è il tempo dell’esplosione massima della follia che identifica il nulla e l’essere, dall’altro lato è anche il tempo in cui non un èlite come noi questa sera ma i popoli si chiederanno intorno al senso della sicurezza della loro felicità perché sarà la felicità maggiore mai raggiunta da razza umana su questa terra. Ma una felicità senza verità che però non potrà essere la verità dell’episteme. Dovrà essere un’altra verità: su quest’altro senso della verità il pensiero è chiamato primariamente a lavorare.

La rivoluzione copernicana di Kant

Secondo Kant non è la conoscenza umana a regolarsi sulla natura degli oggetti ma, all’opposto, sono gli oggetti a regolarsi sulla natura della conoscenza. In altre parole è l’esperienza (gli “oggetti”) che si regola sulla struttura dell’intelletto umano il quale (ne segue), prima che gli siano dati gli oggetti dell’esperienza, ha una sua natura a priori, cioè indipendente dall’esperienza.

Questa impostazione al problema della conoscenza conduce, come riconosce subito lo stesso Kant, a due risultati inaspettati: da una parte il fatto che il nostro potere di conoscere non ci permette di oltrepassare i confini dell’esperienza possibile (questa sarà la sua stessa definizione di idealismo trascendentale o realismo empirico); dall’altra il fatto che la conoscenza della ragione arriva solo ai fenomeni, ovvero agli oggetti così come si presentano all’intelletto umano, lasciando gli stessi oggetti come non conosciuti per quanto riguarda la loro essenza in sé. L’analisi del filosofo ha così scisso la conoscenza in due elementi assai diversi: quelle delle cose in quanto fenomeni (possibile per la ragione) e quello delle cose in quanto cose in sé (impossibile alla ragione). Per questo motivo si è data a questa impostazione la qualifica, polemica, di “fenomenismo” o di “dualismo gnoseologico”.

Sarebbe meglio chiamare l’idealismo di Fichte-Schelling-Hegel come “filosofia dell’identità” anziché idealismo in senso stretto in quanto già quello di Kant è idealismo (che deve essere qualificato come “trascendentale”) così come lo era quello di Cartesio; l’idealismo “in senso stretto” infatti, secondo me altro non è che un realismo di segno diverso, il quale più che criticare, aggira l’impostazione di Kant. Ripeto che sarà un problema su cui tornare, in quanto è un problema enorme e fondamentale perché proprio da tale critica si “accantonerà” Kant mentre tutta la filosofia, specialmente quella italiana, comincerà ad essere debitrice dell’idealismo in senso stretto.

Schopenhauer si pone invece nell’alveo dell’impostazione kantiana cominciando la sua opera dicendo che il mondo è mia rappresentazione e mantenendo la distinzione tra fenomeno e cosa in sé. La differenza, o il passo innanzi, sta nel sostenere che la cosa in sé non è inconoscibile come sosteneva Kant, bensì conoscibile, anzi conoscibilissima. Allora, si obietterà, perché mantenere la distinzione tra fenomeno e cosa in sé o, nel linguaggio di Schopenhauer, tra rappresentazione e volontà? Perché si tratta di due conoscenze di diverso genere: la conoscenza dei fenomeni spetta all’intelletto, ed è sottoposta al principio di necessità; la conoscenza della cosa in sé, che Schopenhauer chiama volontà, avviene immediatamente attraverso il corpo.

Si noti che parlo di “ragione” ed “intelletto” che Kant non distingue, ponendo anzi la ragione su un piano talmente astratto che sarà a buon gioco sfruttata, questa volta sì per i suoi fini, dall’idealismo. Schopenhauer invece, così come Spinoza ma come anche buona parte della tradizione filosofica, distingue l’intelletto, che si riferisce all’esperienza ed è la prima rappresentazione, dalla ragione che è la seconda rappresentazione, ovvero la rappresentazione della rappresentazione e che si esprime mediante concetti.

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