In un famoso passo del suo Sistema dell’idealismo trascendentale, Schelling nota l’importanza che riveste per lo sviluppo dell’autocoscienza l’attimo in cui il bambino comincia a dire “io”. Il bambino si avvicina all’esperienza della propria individualità – e cioè ne intraprende la costruzione – quando riferisce a se stesso i propri atti utilizzando il pronome di prima persona singolare: io.
Questa posizione giunge a Schelling da Kant. «Il bambino – scrive Kant – anche quando è già abbastanza in grado di parlare in modo compiuto [… incomincia] comunque piuttosto tardi (forse dopo un anno) a usare la parola “Io”, mentre fino a quel momento ha parlato di sé in terza persona […]; e quando incomincia a dire “Io” […] non tornerà mai più a parlare come prima» ((I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, introduzione e note di M. Foucault, tr. it. di M. Bertani e G. Garelli, Torino, Einaudi, 2010, p. 109.)). Da qui in poi, esisterà per il bambino un interno di contro ad un esterno, un dentro di contro ad un fuori, ma anche – e progressivamente – una mente di contro ad un corpo: l’esperienza dell’io, il momento in cui il bimbo «pensa se stesso» ((Ibidem.)), segna uno scarto decisivo nell’esistenza. L’individuo diventa la polarità intorno alla quale si articola l’esperienza del mondo. L’individuo che “pensa” se stesso, come dice Kant, e non più «sente», si costituisce come il luogo dell’interiorità. E, conseguentemente, il “fuori” si palesa come il “mondo”. Questo perché, di nuovo, pensare è volgersi verso l’interno, sentire protendersi sul mondo. La polarità interno\esterno qui brevemente delineata è implicita al lessico kantiano relativo al pensare\sentire.
Come avviene il passaggio dall’informità dell’esperienza originaria del mondo – quella del bambino che non dice “io” – alla differenziazione in pensare e sentire che ne segue? Porre in questi termini la domanda (che, di fatto, è la domanda sulla quale poggiano le neuroscienze) significa fraintendere la questione, e riconfermare la propria appartenenza alla metafisica occidentale. Questa domanda presuppone “la totalità del mondo”: «la coscienza fa un passo indietro rispetto al mondo, che quindi, in certo modo è già là» ((C. Sini, I segni dell’anima, Milano, Il Saggiatore, 1989, p. 28.)).
I due termini del rapporto – l’individuo come luogo dell’interiorità, quale luogo del “di dentro”, rispetto al “di fuori”, quale luogo del mondo – non hanno nulla di essenziale, ma sono il frutto di un’instaurazione filosofica. Questa è, in estrema sintesi, la tesi di Carlo Sini. L’individuo come verso della moneta, il cui fronte sarebbero il mondo, la realtà, le cose, non è una verità trascendentale, ma il retaggio di quella che Sini chiama «strategia dell’anima»: ovvero, il gesto consumatosi nelle pagine dei dialoghi platonici, e cruciale per la storia dell’Occidente – il gesto di “creazione” dell’interiorità. Prima di sviluppare la tesi di Sini, procediamo con una breve ricognizione storica, partendo dagli studi di Bruno Snell sul mondo greco.
Bruno Snell ha mostrato che l’epica omerica, o meglio, la lingua omerica che la tradizione ci ha trasmesso come tale, non conosce il concetto di “corpo”. E nemmeno il concetto di “anima”. Per Omero, l’uomo non è altro che un assemblaggio di «membra»; in Omero «invece di “corpo” si parla di “membra”» ((B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, tr. it. di V. Degli Alberti, A. Solmi Marietti, Torino, Einaudi, 1963, p. 25.)) o, anche, di «pelle». Soltanto a partire dal V secolo a.C. si «rappresenta il corpo come un complesso organico, unitario, in cui le diverse parti sono in relazione le une con le altre» ((Ivi, p. 26.)). Per Omero, dunque, non esiste l’individuo; esiste piuttosto la tradizione, che detta legge: non si è soggetti della tradizione, ma alla tradizione ((E. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura: da Omero a Platone, tr. it. M. Carpitella, Roma-Bari, Laterza, 2001.)). Di individuo si può parlare con i Lirici greci, Alcmane, Saffo, Alceo, i quali «dicono il loro nome, parlano di sé e si fanno conoscere come individui» ((B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, cit., p. 89.)). Ma solo Socrate rompe davvero la tradizione, e con ciò spacca in due la storia universale, come diceva Nietzsche. In Socrate fa la sua vera comparsa il concetto di individuo.
Ed è Platone che, con i suoi dialoghi, autorizza questa rivoluzione. L’autorizza in due sensi: in termini foucaultiani ((M. Foucault, Che cos’è un autore, in M. Foucault, Scritti letterari, tr. it. di C. Milanese, Milano, Feltrinelli, 1984.)), apre un orizzonte di discorsività – nel quale è inclusa, secondo Sini, l’intera metafisica occidentale – e, insieme, lo fa dando voce alla sua creazione letteraria: il Socrate di cui parlavamo prima. Mette in scena la voce, la voce della filosofia, e cioè la voce di Socrate, attraverso lo scritto.
Tra Omero e Platone ciò che accade è determinante: nasce, in Grecia, l’alfabeto (vocalico). Quello dei Fenici, sostiene Sini, non era ergonomico quanto l’alfabeto greco, il quale per primo ha dato vita alla rivoluzione culturale di cui Platone rappresenta l’apice. L’apice: giacché vede, accetta, ma insieme condanna, lo strumento che lui stesso, quale primo uomo occidentale, utilizza: la scrittura. Al di fuori della scrittura non è pensabile né la democrazia, così come la pensarono i greci, né la cultura ((C. Sini, Filosofia della scrittura, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 41.)).
La rivoluzione alfabetica è il momento inaugurale della tradizione filosofica occidentale. È la “pratica alfabetica”, come la chiama Sini, che, insinuandosi come docile e disponibile strumento tra noi e il mondo, ci ha reso quei soggetti alfabetici che siamo. Per comprendere questo punto, è bene riflettere sul suo opposto, ovvero sul mondo dell’oralità ((Il quale è un prodotto della pratica alfabetica, e dunque una definizione inadeguata. Cfr. C. Severi, Il percorso e la voce. Un’antropologia della memoria, Torino, Einaudi, 2004, Introduzione.)).
Qui, nel mondo dell’oralità, chi ascolta si immedesima con colui che parla ((C. Sini, Filosofia della scrittura, cit., pp. 21-34.)). La memoria collettiva è il bacino nel quale il mondo orale trova la sua verità. Verità che, come dicevamo, coincide con la tradizione, e dunque con ciò che è vetusto – ossia degno di autorità. Non esistono soggetti, ma non esistono nemmeno individui. La parola, qui, è patica: colpisce chi ascolta, autorizza una verità che risale ad un passato remoto. Lo spazio per il dubbio è inesistente, e chi dubita è sacrilego – come Socrate, che per questo fu condannato. La critica di Platone alla paideía tradizionale è la critica della civiltà della scrittura alla cultura orale ((E. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura, cit., pp. 11-22.)). Solo nella prima «si può parlare propriamente e sensatamente di pensiero», «solo attraverso la trasfigurazione del gesto di scrittura, che immobilizza la pratica discorsiva e la traduce in un corpo solido, visibile separatamente nella sua immobilità, scisso dalla dinamicità acustica in azione» ((C. Sini, Filosofia e scrittura, cit., p. 52.)).
La scrittura, come già lamentava il Socrate platonico, fissa il detto e lo rende immobile, così che a interpellarlo si rischia di fraintenderlo. Ma tale “fissaggio” ha conseguenze irrimediabili. La “pratica alfabetica” concepisce se stessa come trascrizione della voce, come incarnazione del detto ((Cfr. Aristotele, Dell’espressione, in Aristotele, Organon, tr. it. di G. Colli, Milano, Adelphi, 2003, p. 57. Derrida ha altresì mostrato le conseguenze, cruciali per noi, dell’idea che lo scritto sia trascrizione della voce, conseguenze che si dispiegano precisamente il quella separatezza di “dentro” e “fuori” che abbiamo citato all’inizio. Cfr J. Derrida, Della grammatologia, a cura di R. Dalmasso, Milano, Jaca Book, 1998, Capitolo secondo.)). Da qui discende la convinzione che esista un luogo ove il detto si preservi quale significato puro, vox autentica e disincarnata, di contro alla convenzionalità del corpo, che tale significato scrive. Convinzione che ancora guidava Husserl nella prima delle Ricerche logiche.
Ciò che ci interessa è già tutto detto: il «rimbalzo» che deriva sul soggetto scrivente, a partire dal suo inserirsi nel vivo della pratica alfabetica, è l’evento che dà la nascita al soggetto stesso. «Ecco che il logos mi sta allora di fronte e di contro (Gegestand) come un oggetto e io (che ora sto dall’altra parte come un “soggetto”) posso, guardando, esternare il significato puro» ((C. Sini, Filosofia della scrittura, cit., p. 52.)).
In quanto lettore, dice Sini, posso separare il significato dalla parola propriamente scritta: posso leggere senza capire, o leggere, per così dire, trapassando il corpo della lettera per guardare al significato puro. Significato che, proprio per questo, ha dimora intelligibile. Da questo gesto, che già con Platone dimentica la sua origine, nasce per l’Occidente il regno del significato, ma anche il regno del significante; ovvero, in termini metafisici, il regno del sensibile e quello dell’intelligibile, dei quali Platone, con la sua metafora della linea (Resp., 509-510a) è l’instauratore. Con sensibile e intelligibile troveremo dappoi dicotomizzati concetti come corpo\anima; natura\spirito; soggetto\oggetto.
Non solo. È qui, secondo Sini, che nasce l’individuo come noi tutti siamo soliti intenderlo. «Il luogo del lettore originale è il luogo di gestazione dell’individuo riflessivo, critico e autonomo» ((Ivi, p. 45.)). L’individuo pensante (l’abbiamo visto con Kant), che pensa cioè ciò che scrive, ossia idee, enunciati validi universalmente. Questa è la verità che inaugura la pratica alfabetica: la verità oggettiva e universale. La verità che si rende visibile trascendendo con l’occhio il corpo e posandosi sull’aldilà intelligibile («e le une sosteniamo che vengono vedute, ma che non vengono pensate; e invece diciamo che le Idee vengono pensate e non vedute» ((Platone, Repubblica, tr. it. di R. Radice e G. Reale, Milano, Bompiani, 507b.)) ).
Come già aveva visto Derrida, «scrivere è sapere che ciò che non è ancora prodotto nella lettera non ha altra dimora, non ci attende come prescrizione in qualche topos uranico, o […] intelletto divino» ((J. Derrida, La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi, Torino, Einaudi, 2002, p. 14.)). È la pratica alfabetica, dunque la scrittura, che inaugura l’individuo, che lo manifesta per rimbalzo rispetto al lavoro di scrittura. Solo all’interno di questa pratica possiamo pensare il concetto di individuo.
L’individuo, così come l’ha inteso la tradizione occidentale, è da inquadrare all’interno della pratica alfabetica, quale rimbalzo, retroflessione di tale pratica. Giacché «non ci sono […] “cose” fuori dalle pratiche, ma solo “cose” transitanti in esse, in una continua trasformazione o trasfigurazione di senso secondo mobili intrecci» ((C. Sini, L’analogia della parola. Filosofia e metafisica, Milano, Jaca Book, 2004, p. 29.)). La verità di un oggetto si rende visibile quando è fatta risalire alla pratica da cui scaturisce. Per intendere la verità del concetto di individuo, dunque, bisogna guardare alla sua «soglia», ossia al luogo in cui si è messa in opera la pratica di cui esso è parte. Tale pratica, l’abbiamo visto, è la pratica alfabetica.
Per questo, al concetto di individuo si lega il concetto di debito ((C. Sini, La scrittura e il debito: conflitto tra culture e antropologia, Milano, Jaca Book, 2002.)). Qualsivoglia definizione è in debito rispetto alla pratica che l’ha autorizzata, così che la verità dell’individuo è la verità della pratica di cui esso, come rimbalzo, è il frutto – e tale è la verità della scrittura. Scrittura che, nel perenne tentativo di costruire un foglio-mondo, una trascrizione infinita del sapere che da essa promana, fa dell’individuo un brano di quella che Sini, con Hegel, chiama «prosa del mondo».