Di Andrea Cimarelli e Saverio Mariani.
È arrivata alla quarta edizione, crescendo anno dopo anno, la Festa di Scienza e Filosofia che si svolge a Foligno. Una bella manifestazione culturale, come poche se ne vedono in questi territori, che ha portato al centro dell’attenzione di un’intera città — e di chi ha raggiunto Foligno per l’occasione — il discorso filosofico e scientifico. Potremmo dire, più in generale, una ventata di cultura, della quale c’è sempre bisogno.
La città di Foligno, è il caso di dirlo, si presta a questo tipo di manifestazioni, per alcuni motivi logicistici (è facile da raggiungere dal di fuori, e il suo centro storico — dove si è concentrata la festa — è interamente percorribile a piedi) che fanno la differenza nella possibilità e nell’opportunità di fruire delle conferenze.
Noi di RF abbiamo ascoltato due delle conferenze di sabato 12 aprile 2014, girando un po’ per la città e vedendo, finalmente, il coinvolgimento di molte persone intorno ad una manifestazione fresca e al tempo stesso solida nei temi.
Abbiamo prima ascoltato la conferenza di Nuccio Ordine su Teologia e Filosofia in Giordano Bruno dove l’autore del recente e fortunato testo L’utilità dell’inutile (Bompiani), ha messo l’accento sulla grande opera filosofica di Bruno, e su come essa possa, ancor’oggi, essere di una attualità disarmante. Bruno è uno di quei filosofi, ha sottolineato Nuccio Ordine, che incarna nel modo più cogente la necessità di ricordare gli antichi e di non perdere l’insegnamento fondamentale che la filosofia ha dato nella sua storia, e cioè che pensiero e vita non possono essere distinti. Alla fine del suo intervento siamo riusciti ad avvicinare il relatore, che ci ha illustrato il tema che è al cuore del suo ultimo libro: «Per capire il presente c’è bisogno di avere coscienza del passato, e non è un caso che nell’olimpo degli dei un posto di grande prestigio spettasse alla dea Mnemosyne, la dea della memoria, la madre delle nove muse. Se non conosci il passato non puoi capire il presente, non puoi pre-vedere il futuro. Quindi: la parola dei classici non è qualcosa che serve a superare un esame all’università, ma è innanzitutto uno strumento per capire il presente. Le parole di Bruno, che sono state oggetto del mio intervento di oggi qui alla Festa di Scienza e Filosofia di Foligno, illuminano quello che noi stiamo vivendo ed è un’occasione che abbiamo per discutere e riflettere a fondo». Nel nostro modo di intendere la filosofia e lo studio dei classici, sulla scorta della riflessione di Pierre Hadot — citato nell’ampia lezione — la vita e la filosofia si intrecciano in modo inestricabile; questo è un modo simile di dire ciò che intende lo stesso relatore quando parla della necessità di uno studio del passato. Si tratta, insomma, di pensare in modo diverso, di affrontare la realtà secondo una modalità di pensiero che non è immediato e strettamente percettivo. A tal proposito, Nuccio Ordine ha osservato che «Nella distruzione programmata della memoria, e quindi davanti ad una umanità smemorata, noi non faremmo altro che scivolare nelle barbarie. Oggi, in questo sistema utilitaristico che ha trasformato le scuole e le università in aziende, il rischio è proprio questo. Cioè che di fronte a delle discipline che oggi non hanno un successo di studiosi e di studenti (chi vuole oggi studiare la paleografia, ad esempio? Chi vuole studiare quelle discipline che poi non producono profitto?) prevalga lo scoramento. Ma quando non avremo più studiosi di greco o di latino, l’umanità non sarà più capace di capire cos’è una scoperta archeologica». Ed è sempre all’interno di questa posizione di fondo che Nuccio Ordine ha più volte sostenuto l’importanza che dalle università escano degli “eretici”, un’affermazione rispetto alla quale ha tenuto a fare delle precisazioni: «Io considero eretico nell’accezione etimologica della parola; è eretico colui che si discosta dall’ortodossia. Qual è l’ortodossia di oggi? L’ortodossia di oggi è che se una cosa non produce soldi, non è una cosa buona. Allora io dico che ci sono cose che non producono soldi ma che sono buonissime. E gli studenti debbono essere eretici perché non devono sposare la tesi “non mi iscrivo a Lettere perché poi non posso guadagnare”» Abbiamo concluso la nostra conversazione con Nuccio Ordine affrontando il tema della sua posizione sul recente dibattito interno alla Chiesa circa l’opportunità di riabilitare o meno la figura di Giordano Bruno: «Il problema della riabilitazione di Giordano Bruno non è un problema che riguarda la comunità scientifica. Io non ho bisogno che il papa riabiliti Bruno, per riabilitarlo. Questa riabilitazione è un problema interno alla coscienza della Chiesa, io non ho nessun interesse per questo tema. Se il Papa vuole fare un’azione di questo tipo, non posso che valutarlo positivamente è ovvio, significa il ricredersi di un errore, il che è positivo. Però non è questo l’importante. Perché molti fanno pressione sulla Chiesa su questo tema, ma io che non sono credente non ho alcun interesse per questa questione. Per me Bruno è riabilitato, da sempre».
A seguire siamo riusciti anche a prendere parte alla lezione di Massimo Cacciari sull’ Ulisse dantesco che ha registrato il tutto esaurito all’Auditorium San Domenico di Foligno. La conferenza si è sviluppata soprattutto nel focalizzare cosa intendesse realmente mostrare Dante quando ha collocato Ulisse nel girone dei fraudolenti. Ne è emersa un’immagine di eroe ben diversa da quella abituale: un Ulisse non più l’abile statega che aveva permesso la presa di Troia grazie allo stratagemma del cavallo, ma un sottile ingannatore che, dopo aver circuìto i nemici, non esita a rivolgere contro i suoi stessi compagni di viaggio la sua seducente retorica, convincendoli ad oltrepassare le colonne d’Ercole e ad avventurarsi in mare aperto. Giustamente Massimo Cacciari ha fatto notare come l’accusa di superbia fosse mal indirizzata poiché Ulisse, a differenza di Dante, non sapeva che avrebbe trovato la montagna del Purgatorio là dove si stava avventurando. Cacciari si è concentrato su una questione diversa, e cioè sul fatto che il connotato costitutivo di Ulisse è la curiositas, ma non nella misura in cui si conforma al desiderio di conoscenza proprio dell’umano a livello ontologico (giacché la natura umana prevede una dialettica tra desiderio e suo appagamento, che porta al contempo felicità, ma anche il sorgere di un nuovo desiderare). La curiositas di Ulisse è una fame insaziabile, una luxuria mentis che lo spinge di porto in porto senza mai fermarsi, costantemente insoddisfatto di qualsiasi temporaneo appagamento. Insaziabile, Ulisse pensa sempre all’oltre, e per questo decide di oltrepassare le colonne d’Ercole, per Dante frontiera fisicamente e simbolicamente invalicabile. Cacciari è stato abilissimo nel codificare la profonda simbologia che si cela dietro quest’azione, calandola nel contesto in cui è stata elaborata, ed ha mostrato come quell’oltrepassamento testimoni la volontà di Ulisse di dirigere il proprio intelletto — incapace di saziarsi della finitezza in cui è immerso — verso una dimensione più ampia: la dimensione del mare aperto, simbolo dell’indeterminato. Nessun popolo, nessun porto lo attende oltre i confini del mondo conosciuto, che nel medioevo coincide con il mondo conoscibile. Ulisse giunge perfino ad alimentare il desiderio di rivolgere l’intelletto verso un mondo senza ente — un mondo senza tode ti, un mondo che per sua stessa costituzione non può che risultare inconoscibile all’umano intelletto, il quale necessita inevitabilmente del determinato per produrre conoscenza. Il desiderio di Ulisse dunque, è talmente forte da non poter accettare alcun limite, nemmeno quello che ontologicamente appartiene alla condizione umana. Nella visione di Dante, quindi, Ulisse merita l’inferno perché ha voluto conoscere ciò che non compete all’intelletto umano che, seppur dotato delle potenzialità per conoscere tutto, è ontologicamente finito e non può dunque avventurarsi verso la natura divina, che non potrà mai darsi all’uomo come un ente conoscibile tramite l’intelletto. E per questo, secondo Massimo Cacciari, Dante avrebbe messo senz’altro Hegel all’inferno, a causa della sua pretesa di determinare la trinità tramite l’intelletto. La lezione ha poi affrontato il tema delle radici filosofiche della poetica di Dante: radici da individuarsi in maniera chiara e inequivocabile nell’aristotelismo, così forse confermando la lettura di Roberto Esposito circa l’averroismo del giovane Alighieri. Va precisato che il discorso di Massimo Cacciari a riguardo è stato molto articolato e si è concentrato soprattutto su una caratteristica decisiva per la riflessione sul punto: Dante “parla” solo di un Aristotele physicus, ossia di un Aristotele del quale non vengono presi in considerazione la Metafisica e il De anima. Una lettura questa che trova giustificazione anche in alcune considerazioni fatte da Dante stesso nella altre sue due opere incomplete (il De monarchia e il Convivio), dove appunto egli lascia trasparire, dall’ordine secondo il quale dispone le varie scientie — con l’etica collocata ad un livello superiore rispetto alla metafisica — che il fine applicativo prevale sull’aspetto puramente speculativo e quindi che l’Etica a Nicomaco prevale sulla Metafisica. Una posizione che Massimo Cacciari ha posto in parallelo con quella di Averroè, ossia con una lettura di Aristotele che, non tenendo conto del ruolo giocato dall’ente sommo all’interno del suo sistema, si pone come una sua lettura atea. Atea non nel senso di spogliata dall’interpretazione cristiana di cui è stato investito nei secoli, ma nel senso di un misconoscimento del ruolo decisivo giocato proprio dall’ente sommo.
Hanno da essere ben soddisfatti gli organizzatori della Festa, che vedono crescere l’interesse intorno ad un pensiero che rifiuta di rimanere chiuso nelle segrete stanze. Il pensiero, invece — la Festa ce lo insegna — ha bisogno di aria fresca e autentica, cosa della quale a Foligno, per quattro giorni, ha potuto beneficiare.
La tarea de la filosofía es transformar el mundo global excluyente.
Ringrazio Saverio e Andrea per l’interessante resoconto. Hanno focalizzato la mia attenzione alcune osservazioni del Prof. Nuccio Ordine che riporto integralmente e sulle quali mi permetto di esprimere alcune mie modeste ed opinabilissime puntualizzazioni.
La prima è la seguente: «Nella distruzione programmata della memoria, e quindi davanti ad una umanità smemorata, noi non faremmo altro che scivolare nelle barbarie. Oggi, in questo sistema utilitaristico che ha trasformato le scuole e le università in aziende, il rischio è proprio questo. Cioè che di fronte a delle discipline che oggi non hanno un successo di studiosi e di studenti (chi vuole oggi studiare la paleografia, ad esempio? Chi vuole studiare quelle discipline che poi non producono profitto?) prevalga lo scoramento. Ma quando non avremo più studiosi di greco o di latino, l’umanità non sarà più capace di capire cos’è una scoperta archeologica».
È difficile credo, non convenire con questo giudizio ed è a parer mio concreto il rischio che il Professore paventa.
Seconda osservazione: «Io considero eretico nell’accezione etimologica della parola; è eretico colui che si discosta dall’ortodossia. Qual è l’ortodossia di oggi? L’ortodossia di oggi è che se una cosa non produce soldi, non è una cosa buona. Allora io dico che ci sono cose che non producono soldi ma che sono buonissime. E gli studenti debbono essere eretici perché non devono sposare la tesi “non mi iscrivo a Lettere perché poi non posso guadagnare”»
Qui in verità, a voler essere maliziosi, si potrebbe cogliere tra le righe il richiamo ad una certa visione dalle ben precise connotazioni politiche ed ideologiche ma, non conoscendo le inclinazioni politiche del Prof. Ordine, tengo per me i miei “sospetti”. Intendiamoci, in linea di principio condivido pienamente l’ultima parte delle sue affermazioni. Mi permetto solo di far sommessamente notare a proposito di “ortodossie” e senza voler negare che quella da lui richiamata sia presente ed abbia purtroppo un qualche successo in specie negli ultimi tempi, che nel nostro Paese di sicuro ce n’è stata e ce n’è ancora un’altra, la cui divulgazione ed il cui effetto persuasivo sono stati ben maggiori e che, per inciso, è esattamente opposta a quella richiamata dal Professore. Quale? Quella secondo la quale, per parafrasare le sue parole, una cosa che produce soldi non è una cosa buona e non viceversa. D’altra parte, quanto abbia pesato nel nostro Paese, anche nella formazione del senso comune, l’influenza pure in questa materia del pensiero cattolico e di quello comunista (pur con tutte le sue originalità vere e supposte) è cosa a tutti nota, o almeno dovrebbe esserlo. E difatti non è certo un caso se una vera visione liberale della società e dell’economia italiana è stata sempre appannaggio di ristrette minoranze sia politiche che intellettuali. Ma, naturalmente, è possibile che in questo caso le circostanze non abbiano consentito al Prof.Ordine di articolare più ampiamente ed esaustivamente la sua trattazione.
La terza osservazione ha a che vedere con le valutazioni del Professore inerenti la figura di Giordano Bruno, relativamente alla questione della sua eventuale “riabilitazione” da parte della Chiesa: «Il problema della riabilitazione di Giordano Bruno non è un problema che riguarda la comunità scientifica. Io non ho bisogno che il papa riabiliti Bruno, per riabilitarlo. Questa riabilitazione è un problema interno alla coscienza della Chiesa, io non ho nessun interesse per questo tema. Se il Papa vuole fare un’azione di questo tipo, non posso che valutarlo positivamente è ovvio, significa il ricredersi di un errore, il che è positivo. Però non è questo l’importante. Perché molti fanno pressione sulla Chiesa su questo tema, ma io che non sono credente non ho alcun interesse per questa questione. Per me Bruno è riabilitato, da sempre».
Ineccepibile direi. Ineccepibile non per il giudizio storico sulla figura di Bruno, aspetto questo oggetto di non poche controversie per quel poco che ne so, ma perché denota (almeno su questo punto) un approccio laico corretto, ma purtroppo (ahimè) sempre più dimenticato quanto non disprezzato oggi, da molti “sacerdoti” autodenominatisi detentori del verbo della laicità e che di laico in realtà hanno ben poco. Leggere, in altre parole, che un esponente della cosiddetta cultura laica (un non credente nel caso specifico) non pretende di dire o di ingiungere alla Chiesa quello che la Chiesa deve fare, quello che la Chiesa deve dire o in una parola sola, quello che la Chiesa deve essere, è cosa che risulterebbe di una ovvietà lapalissiana in tempi normali, mentre in tempi come quelli in cui stiamo vivendo rischia di sembrare un’eccezione, il che è di per sé un segnale eloquente di come il concetto stesso di laicità sia stato (e sia) stravolto e bistrattato e lo sia stato — cosa assai triste — non per una qualche elaborazione o speculazione di carattere intellettuale tesa a ridefinirne il profilo o i connotati, ma per mere e contingenti esigenze di polemiche politiche e culturali.