Uno dei temi più rivoluzionari della filosofia di Spinoza (di cui oggi ricorre l’anniversario della morte) è sicuramente il diritto della libertà di pensiero, diritto talmente radicato nell’individuo, così come scrive nel Trattato teologico politico, da non poter essere ceduto, nemmeno se egli lo volesse. Si tratta di un vero e proprio potere (perché questo significa per Spinoza la parola diritto) che sconfigge all’origine la pretesa totalitaria di qualsiasi Stato che volesse imporre ai suoi cittadini il proprio pensiero unico.
Successivo alla libertà di pensiero segue il diritto alla libertà di parola (anche definito come libertà di giudizio o di espressione). Se tuttavia il primo è universale e assoluto, non altrettanto può dirsi per il secondo il quale ha necessità di esibire le motivazioni per cui deve essere concesso. Le quali motivazioni, a dire il vero, non sono poche. In primo luogo perché, anche se si considerasse la libertà di parola un vizio, «chi vuole determinare tutto con le leggi, solleciterà i vizi più che correggerli». Principio antropologico dunque da cui discende che tutto ciò che non può essere represso (come la libertà di giudizio) deve necessariamente essere concesso. In secondo luogo perché reprimendo il diritto di parola si finiscono per promuovere gli istinti umani più bassi come l’adulazione, la perfidia, i tradimenti, tutti comportamenti prodotti dalla fatale divaricazione tra il dire e il pensare. In terzo luogo l’introduzione di leggi che limitano il diritto di espressione è del tutto inutile e addirittura controproducente per un duplice ordine di ragioni: da una parte perché esse finiscono per rendere gli uomini disobbedienti alle leggi (in quanto tra l’opinione e la legge, dice Spinoza, più forte è l’opinione); dall’altra perché le leggi fondate sulle opinioni (in quanto tali soggette a continuo mutamento) saranno anche più difficilmente rimosse a causa di coloro che, su di esse, hanno costruito privilegi e abitudini. Senza poi contare il fatto che le controversie ideologiche e religiose, così come dimostrato da tutte le storie sugli scismi, non possono essere risolte per legge; sicché, il vero motivo per cui si stabiliscono le leggi sulle opinioni, è quello di colpire gli spiriti liberi e consentire alla plebe, sempre strumentalizzata dal potere, di dare sfogo alla propria invidia contro la parte migliore e più razionale della società.
Un diritto pietra fondante delle altre libertà ma non assoluto
Se queste sono le ragioni che giustificano la libertà di parola, ciononostante essa va comunque limitata. Il motivo di questa restrizione è legato al benessere e alla tranquillità dello Stato: se ognuno avesse licenza di dire quello che pensa, la pace di qualsiasi comunità (dalla famiglia al circolo, dalla classe scolastica fino allo Stato), ne sarebbe compromessa in modo irrimediabile. Per questo, al momento del patto, ogni individuo rinuncia al diritto di comportarsi secondo il proprio arbitrio.
Se si tratta di un principio di immediata comprensione, altrettante ed evidenti sono le difficoltà della sua attuazione. Come stabilire infatti le opinioni che intendono sovvertire la comunità politica da quelle che invece intendono migliorarla? Come distinguere le critiche costruttive da quelle distruttive? Quanta libertà di parola può essere concessa ai cittadini senza compromettere la pace e la stabilità dello Stato? Spinoza enuncia un principio a prima vista saldissimo: un’opinione è sovversiva non tanto per il suo contenuto quanto per le azioni che da tali opinioni seguono. In altre parole sono i comportamenti che intendono sovvertire lo Stato ad essere presi in considerazione, non le parole che intendono farlo.
Fin qui il discorso è ammissibile: in definitiva io posso parlare in modo aspro e critico della comunità in cui vivo, anche mettere in questione i suoi fondamenti, senza per questo dare seguito alle mie intenzioni rinnovando la mia affiliazione alla società di cui faccio parte. Il problema nasce dal fatto che Spinoza aggiunge alle azioni che mirano alla rottura del patto anche quelli che oggi vengono definiti i discorsi d’odio (hate speech): essi infatti sono assimilati agli atti di sovversione e in quanto tali da considerare come sediziosi.
Ma come definire i discorsi d’odio? Spinoza non si dilunga più di tanto in merito (anzi non li definisce affatto). L’odio era stato descritto nell’Etica come quella tristezza che vede in qualcosa di esterno la sua causa: si odia una persona perché associo ad essa il mio attuale stare male. Se per Spinoza l’odio è frutto di immaginazione, cioè qualcosa di non vero (sebbene certamente percepito), rimane che esso deve essere circoscritto se deve essere la ragione di una limitazione così importante, come quella relativa al diritto di parola. I problemi diventano enormi se poi si deve tener conto di tutti quegli affetti correlati strettamente all’odio e cioè l’ira, la vendetta, l’irrisione e il disprezzo. Tra questi affetti Spinoza aggiunge soltanto la vendetta come motivo per limitare la libertà di parola. E questo ci può essere d’aiuto per dirimere il problema più generale: sono discorsi d’odio, e come tali devono essere censurati, tutti quei discorsi che implicano l’azione di distruzione fisica di persone e istituzioni ai quali sono rivolti. Dove non esiste effettiva e reale minaccia fisica dobbiamo interpretare le parole di Spinoza nel senso di escludere la presenza di un discorso d’odio (sebbene sgradevole e fatto con intenzione cattiva), con la conseguenza che l’opinione, sebbene aspra e addirittura violenta, può e deve essere tollerata. Ogni possibilità diversa da questa ci infilerebbe in una strada senza uscita. Se io esprimo la volontà di uccidere una persona o di distruggere certe istituzioni, l’opinione non si può e non si deve tollerare e deve essere censurata; ma se io dico (tanto per fare un esempio) che Mosè, Maometto e Gesù Cristo sono degli impostori, allora il mio giudizio sarà ammissibile (per il motivo appunto che discorsi simili non implicano alcuna minaccia fisica nei confronti di altre persone). Sostenere che questi discorsi non sono tollerati perché violano il diritto a non essere offesi, come vuole l’ultima tendenza del politically correct, non è ammissibile in una società libera: anzi, un simile principio non è altro che l’inizio del cammino verso la più spietata delle tirannie, quella che implica l’abolizione del diritto di parola.
Parole come pietre e difficoltà di separare le opinioni dalle azioni
Certo, il problema della difficoltà di separare le opinioni dalle azioni rimane, e di ciò era ben cosciente l’altro grande filosofo del periodo, Thomas Hobbes. Egli, sostenendo che il sovrano è il solo giudice delle dottrine che devono essere insegnate al popolo, ne forniva una soluzione che tagliava alla radice qualsiasi discussione. Infatti, afferma il filosofo inglese, «le azioni degli uomini derivano dalle loro opinioni ed è nel buon governo delle opinioni che consiste il buon governo delle azioni degli uomini in vista della loro pace e della loro concordia. (…) Spetta pertanto a colui che ha il potere sovrano di essere giudice o di istituire tutti i giudici delle opinioni e delle dottrine, in quanto cosa necessaria alla pace, onde prevenire con ciò la discordia e la guerra civile». Come si vede una posizione diametralmente opposta a quella di Spinoza la cui dottrina, nonostante alcune voci la considerino come conservatrice e moderata, è in realtà di quanto più liberale e radicale si possa concepire. L’individuo infatti è sempre superiore allo Stato e il fondamento è semplice: se Hobbes è assertore del patto (che sempre si deve rispettare), Spinoza, negando al patto qualsiasi primato assoluto, finisce per svuotarlo e così facendo purga lo Stato dalle sue prerogative sovrane. Scrive Spinoza nella lettera all’amico Jelles che «la differenza tra me e Hobbes consiste in questo: io lascio il diritto naturale sempre nella sua integrità e sostengo che in una città il potere sovrano ha più diritto sul suddito solo nella misura in cui ha più potere di esso. E questo ha sempre luogo nello stato di natura». Affermazione quest’ultima sibillina perché se quel principio vale nel diritto di natura (dove i rapporti si misurano con la forza in quanto la moltitudine è più forte dell’individuo), non vale altrettanto nel patto civile il quale, sottoscritto da uomini razionali, nasce per assicurare la libertà e la tranquillità (lasciando così all’individuo il potere ultimo sul fondamento della sua maggiore utilità).
Alcuni problemi nuovi e altri di ritorno
Molti sono i problemi che rimangono aperti. Uno dei tanti che segnaliamo è relativo alla possibilità (di fatto oggi una realtà) che il pensiero stesso diventi così omogeneo e uniforme da essere svuotato dall’interno, caso che lo stesso Spinoza prevede quando osserva la possibilità che «il giudizio possa essere influenzato in molti modi, alcuni quasi impensabili, cosicché sebbene non ne subisca il dominio diretto, qualcuno penda dalla bocca di un altro a tal punto che si possa dire propriamente in suo potere». L’influenza dei media e gli sviluppi della tecnologia hanno dimostrato che il giudizio possa essere uniformato proprio su questi modi prima impensabili; per di più, l’avvento dell’eremita di massa (per usare un’espressione di Günther Anders) e la diminuzione dei contatti sociali (già favorita dai cosiddetti social e aggravata dalla pandemia) ha accentuato la tendenza che rende oggi il pensiero degli individui legato a schemi uniformi e standardizzati e quindi dipendente dal volere dei poteri sovrani. Sempre attuale rimane quindi il problema, o meglio la necessità, di trovare voci che in maniera autentica siano in grado di esprimere una vera libertà di pensiero. Difficile nel nostro Paese dove una vera stampa indipendente non esiste da almeno cento anni (come ricordava il grande Luigi Einaudi). Questo a maggior ragione in un tempo in cui nel mondo la libertà di parola è sotto attacco in diversi modi, oggi in particolare con la pratica delle notizie false, spesso diffuse dai governi contro la parte migliore della società. Chissà se Jake Angeli (foto), indottrinato a dovere da quel medesimo potere sovrano contro il quale intendeva combattere, se ne sia reso conto dopo l’improbabile quanto ridicola (ancorché preoccupante) performance dello scorso 6 gennaio al Congresso degli Stati Uniti.
Riferimenti bibliografici
Spinoza, Trattato teologico politico, cap.XX
Hobbes, Leviatano, cap.XVIII
Günther Anders, L’uomo è antiquato, vol.I
Luigi Einaudi, Il problema dei giornali