Il tiranno triste e la felicità senza invidia di Senofonte

Viviamo in tempi in cui è tornata di gran moda la parola tiranno. Oltre all’apparire di molta pubblicistica, anche accademica, sono diverse le cause di questo fenomeno: dall’indifferenza, che si tramuta in vero e proprio disprezzo, da parte dei governati nei confronti della politica e delle cosiddette èlites, fino all’insofferenza di molti governanti nei confronti delle modalità democratiche di gestione del potere. Da questo punto di vista, il recente emergere di personalità politiche forti e non convenzionali (molto spesso frutto di vere e proprie campagne propagandistiche), unita spesso all’aperta denigrazione dei valori della democrazia, ha favorito il ritorno di quel termine. Non bisogna dimenticare tuttavia, come scriveva Leo Strauss nel commento al Gerone di Senofonte, che la tirannide è un male congenito della vita politica: il suo studio quindi è stato fin dall’antichità il primo compito di chi si accingeva ad analizzare il fenomeno del potere.

 

Gli inconvenienti della tirannide
Il dialogo di Senofonte, scritto nella prima metà del IV secolo a.C., descrive l’incontro tra il poeta Simonide e il tiranno di Siracusa Gerone. Il tiranno è il dittatore, l’ingiusto, colui che ha come norma di condotta il solo arbitrio della sua volontà. Dopo averlo assicurato che la visita si giustifica per il desiderio di conoscere chi ha potuto vivere due vite così diverse, quella del privato cittadino e quella dell’uomo politico, Simonide chiede a Gerone se diventare tiranni comporta piaceri più grandi e dolori più piccoli. Di fronte a questa ipotesi, il tiranno obietta che la verità è tutta il contrario e per dimostrarlo comincia con l’esempio della vista: assumendo che i piaceri più grandi provengono dagli occhi, i tiranni, dovendo viaggiare di meno, hanno in tal senso molte più limitazioni rispetto ai privati. Lo stesso dicasi per l’udito, in quanto le lodi sono sempre sospette e il silenzio è interpretato come trama del male. Discorso analogo per il gusto, in quanto ai tiranni è negata la gioia dell’attesa di un cibo prelibato, senza poi dimenticare che in una tavola imbandita la sazietà arriva prima a spegnere il desiderio di prelibatezze. Simonide allora sposta la discussione sui benefici e i piaceri dell’anima di cui, secondo una certa opinione, il tiranno gode rispetto ai privati cittadini. Anche in questo caso giunge però la confutazione di Gerone, secondo il quale è anzi proprio questo il campo nel quale i privati hanno maggiori vantaggi su quella ristretta cerchia di uomini pubblici chiamati tiranni: l’amore, in particolare, non vuole concedersi al tiranno, il quale non ha mai il diritto di credersi e sentirsi amato.

Non pago delle argomentazioni di Gerone e convinto che quella del tiranno è una vita migliore rispetto a quella del privato cittadino, Simonide torna alla carica facendo leva sul sentimento dell’onore, sconosciuto alla maggior parte degli uomini e prerogativa del tiranno. Essendo il riconoscimento ciò che distingue gli uomini dalle bestie, il tiranno è colui che per la sua posizione gode di maggiori riconoscimenti tra gli uomini. Anche questo bene è però negato da Gerone il quale, accostandoli ai piaceri provenienti da un amore obbligato, sostiene che gli onori resi per paura non sono tali e che il tiranno è costretto a vivere quasi come un condannato a morte. Il poeta, arrivato a questo punto, domanda come mai allora, se quella del tiranno è una vita così misera, nessuno ha mai pensato di abbandonarla (anche tramite il suicidio, se necessario). A questo rilievo critico Gerone replica che la miseria della sua condizione proprio in questo consiste, ovvero nell’impossibilità di non riuscire a disfarsi di tale condizione.

La condizione tragica del tiranno
Simonide, prima di discutere dell’onore, aveva proposto un altro argomento, quello secondo cui il maggior vantaggio del tiranno rispetto ai privati cittadini riguarda la possibilità di progettare grandi cose e di portarle a termine. Gerone aveva risposto però con una considerazione più generale relativa alla felicità: il volgo infatti è solito giudicare dalle apparenze, quando invece la felicità risiede nel fondo non visibile di ogni uomo. Se la felicità consiste nel partecipare per quanto più possibile ai beni, e il bene più grande è la pace, allora ad essa partecipano maggiormente i privati cittadini e non il tiranno, che spende la maggior parte della sua vita in guerra o a preparare la guerra. Non bisogna poi nemmeno dimenticare il fatto che il tiranno è privo di un altro grande bene necessario alla vita felice dell’uomo, quello relativo alla fiducia altrui. In particolare, spiega Gerone, i tiranni hanno la sventura di saper riconoscere gli uomini valorosi e di temerli, anziché ammirarli, in quanto essi sono i primi candidati alla sua sostituzione nel governo dello Stato. Egli e gli uomini politici come lui, sono così costretti ad opprimere i propri cittadini, preferendo affidare a cittadini stranieri il compito di vigilare sulla loro sicurezza. Il tiranno si lascia andare ad uno sfogo circa la miseria della sua condizione che appare stretta tra l’incapacità di gustare il bene e il destino di compiere il male: insomma una vera e propria condizione tragica.

La ricchezza più grande nella felicità senza invidia
Una volta considerati tutti gli inconvenienti della tirannide, Simonide smette di fare domande e comincia alcuni discorsi improntati all’educazione del tiranno: se una vita simile è proprio così negativa, il tiranno agisca almeno in modo giusto anziché ingiusto. Di fatto Senofonte, gettando ambiguità sui motivi del dialogo, sceglie la strada dei consigli e delle esortazioni al tiranno tanto da giungere ad un approdo in contrasto rispetto a quello di Platone. Questi aveva sostenuto che la tirannide non è buona né per i dominatori né per i dominati, in quanto solo anime servili amano strappare i guadagni derivanti dall’amicizia nei confronti del potente di turno, anime che non sanno nulla di ciò che è buono e giusto. Senofonte invece finisce per certificare l’idea che la tirannide sia emendabile e quindi non sia necessariamente un male. L’opera si chiude con l’augurio del poeta al tiranno: «Se farai quanto ti ho detto ti sarai guadagnato la ricchezza più nobile e preziosa che si incontra tra gli uomini: mentre sarai felice, non sarai invidiato».

L’interpretazione fondata sulla retorica socratica
Il dialogo sulla tirannide di Senofonte è diventato un classico della filosofia politica a partire dalla lettura che ne fece Machiavelli. Poi, dopo secoli di dimenticanza, fu Leo Strauss a rimetterlo al centro della discussione filosofica sulla politica con una interpretazione, apparsa nel 1948, che si discostava significativamente dalla lettera del dialogo. Come Strauss spiega nel suo commento, Senofonte è ben lungi dal considerare la tirannide un qualcosa che può essere temperato positivamente grazie alle qualità morali dell’uomo politico: in altre parole, non siamo in presenza di una teorizzazione ante litteram del dispotismo illuminato. «L’insegnamento della tirannide ha pertanto un mero significato teorico» in quanto non esistono, molto semplicemente, buone tirannidi. Senza scendere nella sottile quanto acuta interpretazione straussiana del dialogo di Senofonte, è proprio lo spunto finale del poeta a rivelare l’autentica funzione del dialogo: chi può essere felice senza essere invidiato dagli uomini se non il saggio, colui cioè che presta la sua opera senza attaccarsi agli uomini e senza volere il contraccambio? Nell’augurio finale di Simonide troviamo cioè la condanna implicita della vita tirannica attraverso la lode esplicita della vita filosofica senza che il tiranno possa accorgersene e così scatenare la sua ira contro il filosofo. Un’opera di retorica socratica, secondo Strauss, la cui chiusura conduce alla questione della legittimità politica su un piano totalmente diverso rispetto alla semplice contrapposizione tra il governo delle leggi e quello fondato sulla volontà del governante: in questione è piuttosto il fondamento del governo il quale (sia esso la rule of law sia esso la volontà di un uomo solo) deve rispondere ad una giustizia più alta, quella fondata sulla saggezza umana, cioè sulla filosofia, la quale, prima che essere un ricettacolo di buoni consigli, è quella forma di vita fondata sul necessario quanto salutare distacco dagli uomini.

Un classico aperto a molte letture
Il lungo saggio di Strauss sul breve dialogo di Senofonte fu poi oggetto di un vivace confronto con un altro grande filosofo della politica, Alexandre Kojève, in merito alla bontà o meno delle tirannidi. Da una parte il diffidente Strauss, incline a teorizzare la cautela nei confronti della politica per timore di ripercussioni, dall’altra l’impegnato Kojève, per il quale il posto del filosofo è sostanzialmente accanto al tiranno in una posizione simile a quella esposta in forma essoterica da Senofonte. Il dibattito si solleva poi alle grandi questioni della politica internazionale in un periodo, quello successivo alla seconda guerra mondiale, caratterizzato dalla guerra fredda tra USA e URSS. Da segnalare a questo proposito una lettera di Kojève del 1950 nella quale, preconizzando l’avvento di uno Stato finale, teorizza lo scontro tra due soluzioni: da una parte quella nazionalista e particolarista, incoraggiata e favorita dalla Russia, dall’altra quella internazionalista e globalista, sostenuta dall’Europa con le sue istituzioni politiche. Dopo 70 anni, sembra che quella diagnosi si stia rivelando esatta, visto il ritorno dilagante dei nazionalismi in tutto l’Occidente (che, con la retorica dell’America first, ha contagiato anche il campione storico dell’internazionalismo e delle democrazie liberali) a fronte dei quali, come un vascello in un mare in tempesta, continua a resistere (a malapena in verità) soltanto il progetto europeista. Al di là di tutte le letture, il dialogo di Senofonte rimane ancora oggi fonte d’ispirazione non solo in merito alle interpretazioni sulla tirannide ma anche sulla vita politica in generale.


Riferimenti bibliografici

Senofonte, La tirannide, Sellerio editore, Palermo, 1992
Leo Strauss, La tirannide. Saggio sul “Gerone” di Senofonte, Giuffrè, Milano, 1968
Leo Strauss-Alexandre Kojève, Sulla tirannide, Adelphi, Milano, 2010

 

Insegnante con dottorato di ricerca in Filosofia. Vive e lavora a Nocera Umbra, autore del podcast che prende il nome dal suo motto: Hic Rhodus Hic salta.

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