Sette incontri con Nietzsche

Dalla vita alla volontà di potenza, dal superuomo all’eterno ritorno indaghiamo gli aspetti cruciali del filosofo del nichilismo. In questo primo episodio discutiamo della vita, dei rapporti con Schopenhauer e Wagner, del suo metodo aforistico. Accompagnati dalla musica dei Killing Jokes.

Nietzsche è uno dei pensatori a cui noi di Ritiri Filosofici abbiamo dedicato più spazio, con molti articoli, approfondimenti e alcune sessioni dei nostri ritiri. Potete trovare una selezione degli articoli dedicati a Nietzsche a questo link.

Le sette puntate del podcast Hic Rhodus, hic salta dedicate a Nietzsche saranno pubblicate nei prossimi giorni, ne troverete traccia sulla nostra homepage.

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Il pilota di Hiroshima contro la banalità del male

Il secondo episodio di Hic Rhodus, hic salta, il podcast che arricchisce la nostra filosofia. 
Oggi parliamo di Günther Anders, della banalità del male e del pilota di Hiroshima. 

Di seguito la trascrizione dell’episodio.

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Esistono dei nomi nella storia che sintetizzano delle vicende drammatiche e cariche di significato etico, politico, filosofico. Dreyfuss, il capitano francese che alla fine dell’ottocento fu accusato ingiustamente di spionaggio perché ebreo, è uno di questi. Un nome altrettanto celebre è quello di Alfred Eichmann, il burocrate nazista che aveva il compito di organizzare l’eliminazione sistematica degli ebrei nei campi di concentramento. Eichman, al processo a cui fu sottoposto nel 1960, dichiarò che egli non era responsabile di tutte quelle uccisioni in quanto aveva semplicemente obbedito agli ordini. Egli, altri non era che un esecutore in un meccanismo più grande di lui di cui non poteva portare la responsabilità.

A fronte di questo personaggio ce n’è uno di cui si è discusso molto meno ma che in realtà è altrettanto importante, e che risponde al nome di Claude Eatherly, un ufficiale dell’aviazione americana, noto come il pilota di Hiroshima.

La mattina del 6 agosto del 1945, Eatherly si alzò in volo con il suo aereo per controllare le condizioni meteo sopra Hiroshima, una città nella parte occidentale dell’isola del Giappone. In tal modo, una volta assicuratosi che il cielo fosse sgombro da nuvole, egli diede il via all’operazione che avrebbe portato l’aereo bombardiere dal nome Enola Gay, a sganciare la prima bomba atomica della storia su una città. L’ordigno esplose esattamente alle 8:15 causando 70 mila morti all’istante, cifra che arrivò a 200 mila negli anni successivi.

Eatherly fu scelto per quella missione in quanto noto per le sue capacità, che gli erano valse il riconoscimento di pilota esperto e distinto. Tornato in patria egli fu salutato come vero e proprio eroe di guerra. 

Ma fu a questo punto che qualcosa andò storto per i gestori della narrazione ufficiale del personaggio.  Eatherly, preda di veri e propri incubi notturni, denunciò la sua azione e si rese protagonista di un vero e proprio pentimento pubblico. A differenza dei suoi compagni, il pilota manifestò la sua profonda colpa per quella azione. L’ufficiale americano giunse perfino a chiedere scusa al popolo giapponese. Insomma quella di Eatherly divenne una questione di vero e proprio imbarazzo per le autorità americane.

La vicenda del pilota di Hiroshima fu resa nota da un filosofo tedesco, Günter Anders per il quale «il 6 agosto rappresenta il giorno zero di un nuovo computo del tempo».

Anders instaurò un fitto e appassionante scambio epistolare con il pilota americano verso la fine degli anni cinquanta. Eatherly, scrive Anders, è l’antitesi di Eichmann in quanto egli «non è l’uomo che fa del meccanismo un pretesto e una giustificazione della mancanza di coscienza, ma l’uomo che scruta il meccanismo come paurosa minaccia di coscienza». Se affermiamo (come disse il gerarca nazista) che ci siamo limitati a collaborare, liquidiamo la libertà di coscienza; anzi, della stessa parola libero ne facciamo l’asserzione più vuota ed ipocrita.

Eatherly fu internato dalle autorità americane in un carcere psichiatrico con l’accusa di essere pazzo. Accusa infondata se si leggono le sue lettere. Basta citare questa sua frase che dimostra anche una certa intelligenza: «La verità è che la società non può accettare il fatto della mia colpa senza riconoscere al tempo stesso la sua colpa ben più profonda». Una frase terribile quanto paradossale: molto spesso infatti gli eroi esistono per coprire le malefatte e i crimini della società. Non è un caso che egli tentò di togliersi di dosso l’etichetta di eroe pubblico con dei veniali gesti di criminalità fatti allo scopo. Eatherly viene definito un precursore, vero e proprio simbolo del futuro perché dimostrazione del fatto che con la tecnica si può diventare incolpevolmente colpevoli.

Anders sviluppò le sue riflessioni in altri suoi libri (il più importante dei quali si chiama L’uomo è antiquato) nei quali i concetti espressi nel dialogo epistolare vengono ampliati e appronditi. Ne prendiamo soltanto tre: 

  • In primo luogo l’idea per cui nell’età della tecnica, l’uomo è in grado di produrre più di quanto riesca ad immaginare: è quello che egli chiama lo “scarto prometeico”. Le conseguenze delle sue azioni sfuggono alle sue previsioni. In altre parole, l’uomo diventa un apprendista stregone. Senza saperlo, scrive Anders, «come le rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti» e quindi, come detto, diventare incolpevolmente colpevoli;
  • Poi l’avvertimento secondo cui viviamo in un’epoca incapace di provare angoscia. Uno dei motivi è la mania delle competenze, e cioè della persuasione che ogni problema rientri in un ambito specialistico in cui non abbiamo il diritto di interferire e di dire la nostra. Per cui ogni problema sarebbe solo ed esclusivamente tecnico e non, come invece è, sempre politico e morale. 
  • In terzo luogo la critica all’idea che la bomba atomica serva esclusivamente alla dissuasione: una pretesa dice Anders, totalmente infondata. Intanto perché la bomba atomica è già stata utilizzata. E poi perché il realismo politico (che parla appunto di necessità della bomba per la disssuasione) non ci fa capire i pericoli a cui stiamo di fronte. Tutto ciò non è altro che un segno di accecamento. La cosiddetta “cecità all’apocalisse”.

Ma è nel dialogo che queste idee traggono tutta la loro forza. E allora finiamo con le parole che il filosofo rivolge al pilota: «Che Lei sia stato condannato a simbolo non è colpa sua ed è spaventoso. Ma quello che è successo poteva e può capitare a tutti noi. Per questo Claude Eatherly è in qualche modo il nostro maestro».

Musica
Nomadi, Il pilota di Hiroshima (1985)
Orchestral Manoeuvres in the Dark, Enola gay (1980)

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La Fine della Storia: la trascrizione del podcast

Questa è la trascrizione di questo episodio di Hic Rhodus, hic salta

In filosofia si utilizzano spesso miti, metafore, esperimenti mentali o formule di vario genere per sintetizzare pensieri o tesi filosofiche particolarmente complesse.
La fine della storia è una di quelle formule la cui fortuna si deve ad un filosofo russo del novecento, Alexandre Kojève, il quale, rileggendo la filosofia di Hegel, ha sostenuto che l’umanità ha raggiunto tutti i suoi bisogni e quindi non desidera più nulla.
Questa tesi è stata ripresa, rilanciata ed ampliata nel 1992 da un filosofo americano, Francis Fukuyama, il quale l’ha utilizzata per spiegare la vittoria delle democrazie liberali sul comunismo ma anche per predire il futuro della politica.

Si tratta di una tesi complessa dunque che ha bisogno di essere spiegata facendo riferimento ad alcuni presupposti teorici. Ho diviso la spiegazione in cinque brevi capitoli (ciascuno della durata di tre-quattro minuti) in modo che si possano riascoltare per uno studio più approfondito. Ogni capitolo è accompagnato da un diverso pezzo musicale dei Depeche Mode, una band musicale degli anni ottanta.

La storia ha un fine, la storia ha uno scopo? E qual’è il motore della storia, perché c’è qualcosa che chiamiamo progresso storico? Siamo sul terreno della filosofia della storia in cui emerge la tesi di Hegel per il quale la storia è lotta per il riconoscimento: gli uomini cioè desiderano riconoscersi in quanto esseri umani e non come semplici esseri animali. Qual’è la differenza? Gli esseri umani, per riconoscersi tali e distinguersi dagli animali, non hanno paura della morte. Che cos’è la lotta per il riconoscimento? Questa parola si può definire in molti modi:  rispetto, dignità, onore, gloria. Si ha dunque riconoscimento se e solo se il desiderio prevale sugli istinti biologici che guidano la preservazione di sé, quindi sulla paura della morte: in questo modo l’uomo deve rischiare la sua vita per farsi riconoscere da un altro uomo, perché solo l’uomo che non è legato alla vita, vede riconosciuta da altri la sua dignità.
Su questa base nasce il primo rapporto umano, quello tra servo e signore in cui il signore è tale proprio perché non è schiavo dei fattori naturali, il primo dei quali è la paura della morte. Nasce la Dialettica servo padrone che poi si sviluppa, si trasforma e guida la storia degli uomini. 

La storia è lotta per il riconoscimento che, così come era iniziata, deve avere una fine. Per Hegel la fine coincide con la rivoluzione francese perché con i suoi valori di uguaglianza e fraternità, il riconoscimento e la dignità umana  sono estesi a tutti gli uomini. Poco importa se questo compimento coincide con l’avanzata e le conquiste di Napoleone. Affascinato dalla vista dell’imperatore francese entrato a Jena nel 1806, Hegel disse di aver visto «lo spirito del mondo seduto a cavallo che lo domina e lo sormonta» con ciò realizzando concretamente gli ideali di libertà e uguaglianza dell’uomo. Fine della storia perché non c’è più bisogno di riconoscimento: nasce lo Stato omogeneo universale, manifestazione dello spirito assoluto.

 

Marx riprende la tesi di Hegel con la differenza però che sono le classi a lottare tra loro per il riconoscimento e lottano contro la natura mediante il lavoro. Questo avviene fintanto che la natura è stata domata, cioè armonizzata con l’uomo. Ma sarà Kojève a sintetizzare questi concetti e ad esprimerli in modo nuovo. Kojève è una figura tutta particolare di intellettuale. Russo, ma emigrato in Francia tra le due guerre mondiali, si definiva il filosofo della domenica perché era l’unico giorno della settimana in cui poteva dedicarsi allo studio, soprattutto dopo essere stato assunto alla Comunità Europea.  Kojève si concentra sul rapporto tra uomo e natura: l’uomo è un essere che desidera, che cioè lavora per cambiare le condizioni della natura, vissuta come dato immutabile. Egli suppone che l’uomo, definito appunto come un essere che lavora per modificare la natura, scompaia e ritorni ad essere tutt’uno con la natura. In fondo c’è l’idea che il contesto sociale dell’uomo diventi una sua seconda natura.Ma così facendo l’uomo smette di modificare la natura. «Cessa cioè l’azione nel senso forte del termine: Il che praticamente vuol dire la scomparsa delle guerre e delle rivoluzioni cruente», dice Kojève. 

L’uomo, se smette di modificare la natura, nega anche se stesso e così nelle parole di Kojève «scompare anche la Filosofia: infatti l’uomo, non cambiando più se stesso, non ha più ragione di cambiare i principi che stanno alla base della conoscenza del Mondo e di sé. Tutto il resto può mantenersi indefinitamente: l’arte, l’amore, il gioco, ovvero tutto ciò che rende l’uomo felice». Il filosofo russo confermava che la previsione di Hegel era corretta: il successo di Napoleone aveva significato la fine della storia in quanto venivano ormai universalizzati i principi della Rivoluzione francese e della precedente Rivoluzione americana. Conclusione: «l’American way of life è il genere di vita proprio del periodo post-storico, il futuro eterno presente dell’umanità intera. Così il ritorno dell’uomo all’animalità appariva non più come una possibilità ancora di là da venire, bensì come una certezza già presente».

Negli anni successivi Kojève correggerà parzialmente questa sua previsione nel senso di indicare nella civiltà giapponese il modello dell’uomo post-storico: rimaneva però l’idea secondo cui un essere che è in accordo con la natura finisce di agire e quindi è un essere che non ha più nulla di umano. Fine della storia appunto.

Arriviamo dunque a Fukuyama e alla sua tesi sulla fine della storia contenuta in un testo dal titolo La fine della storia e l’ultimo uomo pubblicato nel 1992. Va detto subito che il libro è stato letto da pochi, mentre molti lo hanno interpretato (forse per sentito dire) come il manifesto trionfante del capitalismo. Niente di tutto ciò. Anzi, esattamente l’opposto. Fukuyama intanto, è più fedele allo spirito di Hegel in quanto prende in esame le condizioni per l’avvento dello Stato omogeneo universale anziché concentrarsi (come aveva fatto Kojève) sul rapporto tra uomo e natura.

La domanda di Fukuyama è semplice: la democrazia liberale costituisce la forma migliore di governo? Avendo vinto su tutti i suoi nemici, l’ultimo dei quali il comunismo, la democrazia liberale è il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’uomo, la forma migliore del governo? Se è così, la democrazia liberale (e con essa il capitalismo) potrebbe costituire la fine della storia?

Questa formula (fine della storia) non significa né la fine degli eventi né la fine dei conflitti e delle disuguaglianze: per Storia deve intendersi il complesso di eventi indirizzato verso una direzione specifica. Il problema, si chiede Fukuyama, è quello di capire se esistono contraddizioni nell’attuale democrazia liberale che la condurranno a cadere così come era caduto il comunismo.

Questo è l’aspetto interessante dell’analisi di Fukuyama per il quale la democrazia liberale, al contrario di ogni trionfalismo, non è ancora diventata universale perché non è riuscita a diventare popolare e a colmare il divario tra Stato e comunità. Le democrazie liberali sembrano mancare di legittimità e appaiono essere piuttosto figlie del mostro più freddo di tutti i mostri, e cioè lo Stato. 

Se è così, allora ci sono altre forze che possono minacciare l’ordine liberale. Queste forze si chiamano nazionalismo e religione. Esattamente quello che è accaduto in questi ultimi trent’anni. Ecco allora l’importanza delle due passioni che segnano la politica e che nascono dal desiderio di riconoscimento: religione e nazionalismo. I conflitti che nascono da esse sono molto più distruttivi di quelli che nascono dall’economia. La politica dell’identità prende il posto della politica della globalizzazione.

Il cuore della tesi di Fukuyama è che lo sviluppo storico è guidato non soltanto da fattori economici ma anche da quello che Platone chiamava Thymos, ovvero  il desiderio di riconoscimento e dignità.
Da Platone in poi, noi sappiamo che l’anima è composta di tre parti: l’anima razionale, l’anima concupiscibile e l’anima irascibile. Il termine greco per designare quest’ultima è thymos il quale fa riferimento ad un generico concetto di animo che può designare una vera e propria costellazione di affetti: dall’ira al coraggio; dalla grandezza d’animo alla magnanimità; dalla dignità al rispetto; dal riconoscimento all’onore; dalla vanità alla gloria. L’anima irascibile, insegna Platone, non è in sé né buona né cattiva ma deve essere educata per entrare al servizio della parte razionale e quindi non essere distruttiva.

L’aver messo al centro della sua analisi l’anima irascibile significa per Fukuyama indagare il senso che hanno oggi idee come dignità, onore, orgoglio, prestigio nell’ambito della vita politica. Prendiamo ad esempio il concetto di prestigio che costituisce l’essenza della forza e quindi il segreto che si cela dietro le relazioni internazionali tra Stati. Le guerre (e ne è un caso quella attuale) si fanno non solo per interessi economici (cioè per la parte concupiscibile) ma anche e soprattutto per motivi di prestigio dietro il quale si annidano le motivazioni più impensate. 

Gli Stati sono esattamente come gli individui e quindi per capire i loro comportamenti bisogna studiare l’essenza dell’uomo. E se lo Stato, come ci ricorda Hobbes, è il re degli orgogliosi, allora per decifrare le sue azioni bisogna mettere al centro dell’analisi proprio l’anima irascibile.

Il pensiero moderno ha tentato invece di eliminare o di mettere in secondo piano l’anima irascibile e di sostituirla con una combinazione di desiderio e ragione. Il patto hobbesiano, con il quale nasce lo Stato, consiste nel cedere l’orgoglio in cambio di una vita pacifica e ricchissima.

Nasce la civiltà e lo Stato borghese il cui nemico e bersaglio preferito è l’aristocrazia, cioè coloro che sono disposti a mettere a repentaglio la loro vita per la difesa degli ideali. Ma se eliminiamo l’ambizione, si chiede Fukuyama, non cadiamo nuovamente in una nuova forma di schiavitù?

L’aspetto più originale della riflessione di Fukuyama è l’aggiunta di Nietzsche alla coppia Hegel/Marx. L’hegeliana dialettica servo padrone lascia il posto alla figura nietzscheana dell’ultimo uomo. Chi è l’ultimo uomo? L’uomo omologato, diremmo oggi, l’uomo che vive nella sua comfort zone e che non desidera più niente perché «ognuno vuole la stessa cosa, ognuno è uguale: chi sente in modo diverso entra spontaneamente in manicomio». Si è intelligenti e si sa tutto quello che è accaduto e quello che accadrà: basta guardare un talk show!  Si ha, ironizza Nietzsche, un piacerucolo per il giorno e un piacerucolo per la notte: ma si apprezza la salute e guai ad allontanarsi dalla stufa. 

Lo Stato democratico liberale rappresenta per Nietzsche la vittoria dello schiavo. L’uomo manca completamente di megalothymia, cioè dell’ambizione a rendersi superiore agli altri: il cittadino è qualcosa di mediocre. Il problema più grande nelle nostre società è l’autostima ed il basso livello di aspettative. 

Oggi il problema è il desiderio di essere tutti uguali. In questo senso lo sviluppo delle società liberali ricorda quello temuto da Tocqueville, ovvero un grande appiattimento sociale e intellettuale che spiana la strada alla tirannia della maggioranza.

La creatura che emerge alla fine della storia, osserva Fukuyama, è l’ultimo uomo. Il riconoscimento universale conduce alla sua banalizzazione.

L’ultimo uomo di Nietzsche è lo schiavo vittorioso. Lo Stato democratico liberale significa la vittoria incondizionata dello schiavo. Per Nietzsche l’uomo democratico è interamente composto da desiderio e ragione (le altre due parti dell’anima di Platone) e mancante di megalotimia, incapace di qualsiasi ambizione. 

La preoccupazione centrale di Nietzsche è il futuro del Thymos, cioè la capacità dell’uomo di assegnare valori alle cose e a se stesso. Nella misura in cui la democrazia liberale ha avuto successo nell’espellere la megalotimia, sostituendola con il consumo razionale, noi siamo diventati ultimi uomini. 

Ma gli esseri umani, conclude Fukuyma, si ribelleranno a questo pensiero, rifiuteranno l’idea di essere membri indifferenziati di uno stato omogeneo. Questa è la vera contraddizione che le democrazie liberali non hanno ancora risolto.
La storia dunque non è finita tanto che oggi si deve parlare di fine della fine della storia.