La Fine della Storia: la trascrizione del podcast

Questa è la trascrizione di questo episodio di Hic Rhodus, hic salta

In filosofia si utilizzano spesso miti, metafore, esperimenti mentali o formule di vario genere per sintetizzare pensieri o tesi filosofiche particolarmente complesse.
La fine della storia è una di quelle formule la cui fortuna si deve ad un filosofo russo del novecento, Alexandre Kojève, il quale, rileggendo la filosofia di Hegel, ha sostenuto che l’umanità ha raggiunto tutti i suoi bisogni e quindi non desidera più nulla.
Questa tesi è stata ripresa, rilanciata ed ampliata nel 1992 da un filosofo americano, Francis Fukuyama, il quale l’ha utilizzata per spiegare la vittoria delle democrazie liberali sul comunismo ma anche per predire il futuro della politica.

Si tratta di una tesi complessa dunque che ha bisogno di essere spiegata facendo riferimento ad alcuni presupposti teorici. Ho diviso la spiegazione in cinque brevi capitoli (ciascuno della durata di tre-quattro minuti) in modo che si possano riascoltare per uno studio più approfondito. Ogni capitolo è accompagnato da un diverso pezzo musicale dei Depeche Mode, una band musicale degli anni ottanta.

La storia ha un fine, la storia ha uno scopo? E qual’è il motore della storia, perché c’è qualcosa che chiamiamo progresso storico? Siamo sul terreno della filosofia della storia in cui emerge la tesi di Hegel per il quale la storia è lotta per il riconoscimento: gli uomini cioè desiderano riconoscersi in quanto esseri umani e non come semplici esseri animali. Qual’è la differenza? Gli esseri umani, per riconoscersi tali e distinguersi dagli animali, non hanno paura della morte. Che cos’è la lotta per il riconoscimento? Questa parola si può definire in molti modi:  rispetto, dignità, onore, gloria. Si ha dunque riconoscimento se e solo se il desiderio prevale sugli istinti biologici che guidano la preservazione di sé, quindi sulla paura della morte: in questo modo l’uomo deve rischiare la sua vita per farsi riconoscere da un altro uomo, perché solo l’uomo che non è legato alla vita, vede riconosciuta da altri la sua dignità.
Su questa base nasce il primo rapporto umano, quello tra servo e signore in cui il signore è tale proprio perché non è schiavo dei fattori naturali, il primo dei quali è la paura della morte. Nasce la Dialettica servo padrone che poi si sviluppa, si trasforma e guida la storia degli uomini. 

La storia è lotta per il riconoscimento che, così come era iniziata, deve avere una fine. Per Hegel la fine coincide con la rivoluzione francese perché con i suoi valori di uguaglianza e fraternità, il riconoscimento e la dignità umana  sono estesi a tutti gli uomini. Poco importa se questo compimento coincide con l’avanzata e le conquiste di Napoleone. Affascinato dalla vista dell’imperatore francese entrato a Jena nel 1806, Hegel disse di aver visto «lo spirito del mondo seduto a cavallo che lo domina e lo sormonta» con ciò realizzando concretamente gli ideali di libertà e uguaglianza dell’uomo. Fine della storia perché non c’è più bisogno di riconoscimento: nasce lo Stato omogeneo universale, manifestazione dello spirito assoluto.

 

Marx riprende la tesi di Hegel con la differenza però che sono le classi a lottare tra loro per il riconoscimento e lottano contro la natura mediante il lavoro. Questo avviene fintanto che la natura è stata domata, cioè armonizzata con l’uomo. Ma sarà Kojève a sintetizzare questi concetti e ad esprimerli in modo nuovo. Kojève è una figura tutta particolare di intellettuale. Russo, ma emigrato in Francia tra le due guerre mondiali, si definiva il filosofo della domenica perché era l’unico giorno della settimana in cui poteva dedicarsi allo studio, soprattutto dopo essere stato assunto alla Comunità Europea.  Kojève si concentra sul rapporto tra uomo e natura: l’uomo è un essere che desidera, che cioè lavora per cambiare le condizioni della natura, vissuta come dato immutabile. Egli suppone che l’uomo, definito appunto come un essere che lavora per modificare la natura, scompaia e ritorni ad essere tutt’uno con la natura. In fondo c’è l’idea che il contesto sociale dell’uomo diventi una sua seconda natura.Ma così facendo l’uomo smette di modificare la natura. «Cessa cioè l’azione nel senso forte del termine: Il che praticamente vuol dire la scomparsa delle guerre e delle rivoluzioni cruente», dice Kojève. 

L’uomo, se smette di modificare la natura, nega anche se stesso e così nelle parole di Kojève «scompare anche la Filosofia: infatti l’uomo, non cambiando più se stesso, non ha più ragione di cambiare i principi che stanno alla base della conoscenza del Mondo e di sé. Tutto il resto può mantenersi indefinitamente: l’arte, l’amore, il gioco, ovvero tutto ciò che rende l’uomo felice». Il filosofo russo confermava che la previsione di Hegel era corretta: il successo di Napoleone aveva significato la fine della storia in quanto venivano ormai universalizzati i principi della Rivoluzione francese e della precedente Rivoluzione americana. Conclusione: «l’American way of life è il genere di vita proprio del periodo post-storico, il futuro eterno presente dell’umanità intera. Così il ritorno dell’uomo all’animalità appariva non più come una possibilità ancora di là da venire, bensì come una certezza già presente».

Negli anni successivi Kojève correggerà parzialmente questa sua previsione nel senso di indicare nella civiltà giapponese il modello dell’uomo post-storico: rimaneva però l’idea secondo cui un essere che è in accordo con la natura finisce di agire e quindi è un essere che non ha più nulla di umano. Fine della storia appunto.

Arriviamo dunque a Fukuyama e alla sua tesi sulla fine della storia contenuta in un testo dal titolo La fine della storia e l’ultimo uomo pubblicato nel 1992. Va detto subito che il libro è stato letto da pochi, mentre molti lo hanno interpretato (forse per sentito dire) come il manifesto trionfante del capitalismo. Niente di tutto ciò. Anzi, esattamente l’opposto. Fukuyama intanto, è più fedele allo spirito di Hegel in quanto prende in esame le condizioni per l’avvento dello Stato omogeneo universale anziché concentrarsi (come aveva fatto Kojève) sul rapporto tra uomo e natura.

La domanda di Fukuyama è semplice: la democrazia liberale costituisce la forma migliore di governo? Avendo vinto su tutti i suoi nemici, l’ultimo dei quali il comunismo, la democrazia liberale è il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’uomo, la forma migliore del governo? Se è così, la democrazia liberale (e con essa il capitalismo) potrebbe costituire la fine della storia?

Questa formula (fine della storia) non significa né la fine degli eventi né la fine dei conflitti e delle disuguaglianze: per Storia deve intendersi il complesso di eventi indirizzato verso una direzione specifica. Il problema, si chiede Fukuyama, è quello di capire se esistono contraddizioni nell’attuale democrazia liberale che la condurranno a cadere così come era caduto il comunismo.

Questo è l’aspetto interessante dell’analisi di Fukuyama per il quale la democrazia liberale, al contrario di ogni trionfalismo, non è ancora diventata universale perché non è riuscita a diventare popolare e a colmare il divario tra Stato e comunità. Le democrazie liberali sembrano mancare di legittimità e appaiono essere piuttosto figlie del mostro più freddo di tutti i mostri, e cioè lo Stato. 

Se è così, allora ci sono altre forze che possono minacciare l’ordine liberale. Queste forze si chiamano nazionalismo e religione. Esattamente quello che è accaduto in questi ultimi trent’anni. Ecco allora l’importanza delle due passioni che segnano la politica e che nascono dal desiderio di riconoscimento: religione e nazionalismo. I conflitti che nascono da esse sono molto più distruttivi di quelli che nascono dall’economia. La politica dell’identità prende il posto della politica della globalizzazione.

Il cuore della tesi di Fukuyama è che lo sviluppo storico è guidato non soltanto da fattori economici ma anche da quello che Platone chiamava Thymos, ovvero  il desiderio di riconoscimento e dignità.
Da Platone in poi, noi sappiamo che l’anima è composta di tre parti: l’anima razionale, l’anima concupiscibile e l’anima irascibile. Il termine greco per designare quest’ultima è thymos il quale fa riferimento ad un generico concetto di animo che può designare una vera e propria costellazione di affetti: dall’ira al coraggio; dalla grandezza d’animo alla magnanimità; dalla dignità al rispetto; dal riconoscimento all’onore; dalla vanità alla gloria. L’anima irascibile, insegna Platone, non è in sé né buona né cattiva ma deve essere educata per entrare al servizio della parte razionale e quindi non essere distruttiva.

L’aver messo al centro della sua analisi l’anima irascibile significa per Fukuyama indagare il senso che hanno oggi idee come dignità, onore, orgoglio, prestigio nell’ambito della vita politica. Prendiamo ad esempio il concetto di prestigio che costituisce l’essenza della forza e quindi il segreto che si cela dietro le relazioni internazionali tra Stati. Le guerre (e ne è un caso quella attuale) si fanno non solo per interessi economici (cioè per la parte concupiscibile) ma anche e soprattutto per motivi di prestigio dietro il quale si annidano le motivazioni più impensate. 

Gli Stati sono esattamente come gli individui e quindi per capire i loro comportamenti bisogna studiare l’essenza dell’uomo. E se lo Stato, come ci ricorda Hobbes, è il re degli orgogliosi, allora per decifrare le sue azioni bisogna mettere al centro dell’analisi proprio l’anima irascibile.

Il pensiero moderno ha tentato invece di eliminare o di mettere in secondo piano l’anima irascibile e di sostituirla con una combinazione di desiderio e ragione. Il patto hobbesiano, con il quale nasce lo Stato, consiste nel cedere l’orgoglio in cambio di una vita pacifica e ricchissima.

Nasce la civiltà e lo Stato borghese il cui nemico e bersaglio preferito è l’aristocrazia, cioè coloro che sono disposti a mettere a repentaglio la loro vita per la difesa degli ideali. Ma se eliminiamo l’ambizione, si chiede Fukuyama, non cadiamo nuovamente in una nuova forma di schiavitù?

L’aspetto più originale della riflessione di Fukuyama è l’aggiunta di Nietzsche alla coppia Hegel/Marx. L’hegeliana dialettica servo padrone lascia il posto alla figura nietzscheana dell’ultimo uomo. Chi è l’ultimo uomo? L’uomo omologato, diremmo oggi, l’uomo che vive nella sua comfort zone e che non desidera più niente perché «ognuno vuole la stessa cosa, ognuno è uguale: chi sente in modo diverso entra spontaneamente in manicomio». Si è intelligenti e si sa tutto quello che è accaduto e quello che accadrà: basta guardare un talk show!  Si ha, ironizza Nietzsche, un piacerucolo per il giorno e un piacerucolo per la notte: ma si apprezza la salute e guai ad allontanarsi dalla stufa. 

Lo Stato democratico liberale rappresenta per Nietzsche la vittoria dello schiavo. L’uomo manca completamente di megalothymia, cioè dell’ambizione a rendersi superiore agli altri: il cittadino è qualcosa di mediocre. Il problema più grande nelle nostre società è l’autostima ed il basso livello di aspettative. 

Oggi il problema è il desiderio di essere tutti uguali. In questo senso lo sviluppo delle società liberali ricorda quello temuto da Tocqueville, ovvero un grande appiattimento sociale e intellettuale che spiana la strada alla tirannia della maggioranza.

La creatura che emerge alla fine della storia, osserva Fukuyama, è l’ultimo uomo. Il riconoscimento universale conduce alla sua banalizzazione.

L’ultimo uomo di Nietzsche è lo schiavo vittorioso. Lo Stato democratico liberale significa la vittoria incondizionata dello schiavo. Per Nietzsche l’uomo democratico è interamente composto da desiderio e ragione (le altre due parti dell’anima di Platone) e mancante di megalotimia, incapace di qualsiasi ambizione. 

La preoccupazione centrale di Nietzsche è il futuro del Thymos, cioè la capacità dell’uomo di assegnare valori alle cose e a se stesso. Nella misura in cui la democrazia liberale ha avuto successo nell’espellere la megalotimia, sostituendola con il consumo razionale, noi siamo diventati ultimi uomini. 

Ma gli esseri umani, conclude Fukuyma, si ribelleranno a questo pensiero, rifiuteranno l’idea di essere membri indifferenziati di uno stato omogeneo. Questa è la vera contraddizione che le democrazie liberali non hanno ancora risolto.
La storia dunque non è finita tanto che oggi si deve parlare di fine della fine della storia.

 

Marx, Nietzsche e Freud, i «penetratori degli infingimenti»

Per avere messo sotto accusa la realtà e i suoi fondamenti, Marx, Nietzsche e Freud si sono guadagnati da Ricoeur l’etichetta di «maestri del sospetto». L’espressione ‘maestri del sospetto’ è una ripresa dell’appunto ‘scuola del sospetto’ elaborato da Nietzsche in Umano troppo umano. Ricoeur coglie un’affinità tra i tre pensatori. Sono loro, d’altronde, a smascherare gli inganni e gli idoli della tradizione per liberare l’uomo dai falsi miti e riporlo dinanzi alla sua autentica natura umana.

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Marx, Nietzsche e Freud, i «penetratori degli infingimenti»

Per avere messo sotto accusa la realtà e i suoi fondamenti, Marx, Nietzsche e Freud si sono guadagnati da Ricoeur l’etichetta di «maestri del sospetto». L’espressione ‘maestri del sospetto’ è una ripresa dell’appunto ‘scuola del sospetto’ elaborato da Nietzsche in Umano troppo umano. Ricoeur coglie un’affinità tra i tre pensatori. Sono loro, d’altronde, a smascherare gli inganni e gli idoli della tradizione per liberare l’uomo dai falsi miti e riporlo dinanzi alla sua autentica natura umana.

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Ride bene chi ride ultimo

Quella di Francis Fukuyama sulla fine della storia è una di quelle tesi che ha segnato un’epoca del dibattito politico e filosofico degli ultimi trent’anni. Contenuta nell’articolo The End of History? pubblicato dalla rivista The National Interest nell’estate del 1989, la tesi suonava come segue: il crollo del comunismo, la fine della guerra fredda e la concomitante vittoria della democrazia liberale in occidente, hanno costituito il punto finale dell’evoluzione ideologica del genere umano. La tesi dello studioso americano (di chiare origini giapponesi) suscitò numerosi dibattiti e controversie e fu per lo più interpretata come espressione del capitalismo trionfante. Nel nostro Paese filosofi particolarmente visibili come Diego Fusaro hanno ancora di recente definito quello di Fukuyama il «manifesto programmatico della condizione neoliberale di cui siamo abitatori coatti» in quanto «grandiosa prescrizione che invita i popoli del pianeta ad abbandonare la dimensione storica e a riconvertirsi in un’accettazione del destino intrascendibile». In realtà commenti simili sembrano creare un bersaglio polemico e non rendono giustizia ad un pensiero ben più profondo e meditato. Fukuyama pubblicò nello stesso anno un altro articolo intitolato A Reply to my critics e successivamente un libro, The end of history and the last man del 1992 (tradotto anche in italiano), nel quale sviluppava in modo più approfondito le sue argomentazioni. Un’attenta lettura di questi scritti mostra come la tesi della fine della storia non solo non fu apologetica nei confronti del capitalismo ma è anzi in grado di fornirci alcune coordinate essenziali per la lettura dell’evoluzione politica e filosofica del mondo odierno.

Hegel e la lotta per il riconoscimento
L’intento di Fukuyama era quello di ritornare ad una tesi in origine espressa da Hegel nel momento in cui gli ideali della rivoluzione francese trovarono il loro compimento con l’avanzata e le conquiste di Napoleone. Affascinato dalla vista dell’imperatore francese entrato a Jena nel 1806, Hegel disse di aver visto «lo spirito del mondo seduto a cavallo che lo domina e lo sormonta» con ciò realizzando concretamente gli ideali di libertà e uguaglianza dell’uomo. Questa lettura fu poi avvalorata dal più importante interprete di Hegel del novecento, Alexandre Kojève, il quale confermava che la previsione enunciata era corretta: quell’episodio aveva significato la fine della storia in quanto in esso venivano attualizzati i principi della Rivoluzione francese e della precedente Rivoluzione americana.

Da questa base, e facendo riferimento a Kant che per primo aveva sollevato la questione, Fukuyama si chiedeva se esiste qualcosa come una storia universale, ovvero una direzione verso cui i fatti e lo scorrere degli avvenimenti assumono un senso ultimo. Il problema della fine della storia veniva posto sotto forma di domanda: esistono contraddizioni nell’attuale democrazia liberale che il processo storico dovrà necessariamente superare in vista di un ordine superiore? Se la risposta in questo senso è negativa, la tesi della fine della storia, spiegava lo studioso americano, non significa affatto la fine dei conflitti, delle disuguaglianze ed in generale dei problemi che affliggono una società liberale. Fukuyama è onesto nel riconoscere che in una discussione simile non è possibile focalizzarsi solo sull’evidenza empirica che vedeva il clamoroso fallimento del comunismo e della dottrina marxista: l’attenzione doveva essere rivolta alla natura dei valori con i quali giudichiamo la bontà o meno di un sistema sociale e alla discussione sull’essenza stessa dell’essere umano. Da questo punto di vista gli eventi del 1989 inducevano ad affermare che l’uomo, prima di essere determinato dall’economia, è costituito da un fattore intimamente spirituale che viene prima di quello materiale. Le idee cioè sono più importanti della struttura economica, sicché «la mancata comprensione che le radici del comportamento economico risiedono nel regno della coscienza e della cultura conducono all’errore di attribuire cause materiali a fenomeni che sono essenzialmente ideali per loro natura».  Questo fattore si chiama lotta per il riconoscimento e spetta ad Hegel il merito di averci fornito questo meccanismo alternativo per la comprensione del processo storico. Esso è interessante sia perché fornisce una comprensione del liberalismo più nobile di quella di Hobbes e di Locke fondata sull’egoismo, sia in quanto più utile per studiare le dinamiche psicologiche del mondo contemporaneo. Fukuyama, in altre parole, rimette di nuovo sulla testa la dialettica hegeliana dopo che Marx, con il suo materialismo storico, aveva provato a farla camminare sui piedi.

Il ruolo dell’ambizione e del coraggio (thymos), vero motore della storia
Nel libro del 1992 Fukuyama affrontava in modo circostanziato il tema della filosofia della storia. Essa ha origine con il cristianesimo il quale, a differenza della concezione greca, sostiene un inizio e una fine della storia. Lo sforzo di sistemare filosoficamente questa visione fu fatto soltanto dall’idealismo tedesco. Kant, nel saggio Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico pubblicato nel 1784, suggeriva che la storia avrebbe conosciuto prima o poi un momento nel quale sarà rivelato il suo scopo finale consistente nella libertà umana. Il motore per la realizzazione di tale società era la cosiddetta “asociale socievolezza” degli uomini: l’idea cioè che essi fondano il loro stare insieme sulla competizione e la vanità. Il progetto di Kant fu ripreso e attuato da Hegel fin nei minimi dettagli. Anche in questo caso il motore della storia sono passioni e conflitti che danno però vita alla cosiddetta “astuzia della ragione”, una sorta di mano invisibile che conduce alla realizzazione della libertà sulla terra. Per Hegel, nell’interpretazione di Fukuyama, questo compimento della libertà umana è la democrazia liberale e ciò è provato dallo stesso Marx il quale attaccò Hegel non in quanto simbolo dell’aristocrazia o del totalitarismo (e ancora meno dello Stato etico) ma in quanto difensore della borghesia e del capitalismo. Ecco dunque le ragioni del successo dell’interpretazione hegeliana: in una democrazia liberale, costituita da uguaglianza e libertà, non essendoci più bisogno di riconoscimento reciproco, viene ad escludersi qualsiasi lotta legato ad esso. La tesi della fine della storia, continua Fukuyama, è ineludibile. Hegel è stato il primo filosofo storicista della storia, ovvero un pensatore che affermava la relatività storica della verità. La radicalità del suo storicismo è evidente nella sua concezione dell’uomo il quale non è costituito da un’essenza, cioè da una natura fissa, ma da una forma di divenire chiamata lavoro. Gli hegeliani credono che la verità abbia un valore in relazione al periodo storico, ovvero che non esiste una verità assoluta da esibire in ogni tempo. Ora, sostiene Fukuyama, proprio colui che accetta tale premessa deve necessariamente affrontare la questione della fine della storia: chiunque crede che i pensatori sono i prodotti del loro tempo deve anche chiedersi se il suo storicismo non sia altro che il prodotto del proprio tempo. Per gli storicisti esiste una doppia via d’uscita a questo dilemma: o dichiarare, alla maniera di Hegel, che la storia è finita, ben sapendo che questa affermazione sarebbe stata il supporto fondamentale per lo Stato moderno; oppure percorrere la strada di Nietzsche e Heidegger i quali accettarono radicalmente le conseguenze dello storicismo rendendo impossibile ogni etica o moralità. Il tentativo di risolvere le implicazioni politiche dello storicismo senza il concetto di fine della storia conduce a conseguenze ben precise (fascismo o glorificazione della guerra). Dall’altra parte però, avverte Fukuyama, la scienza e i successi economici non ci conducono alla terra promessa non solo perché non esistono ragioni economicamente necessarie per questo ma anche perché l’interpretazione economica della storia (al di là del fallimento storico del comunismo) è incompleta in quanto l’uomo non è un animale economico. Emerge così il ruolo del thymos (termine greco che può essere tradotto con ambizione, coraggio ma anche nel senso di orgoglio e vanità personale), già ampiamente utilizzato da Platone nel IV libro della Repubblica, il quale può innescare ulteriori forme di organizzazione politica.

La tristezza del tempo che seguirà quello della fine della storia
L’articolo del 1989 cominciava con l’osservazione secondo la quale il coro delle commemorazioni per la fine della guerra fredda e l’inizio di un’epoca di pace era interamente fuori luogo. Fukuyama faceva notare che se Gorbacev fosse stato cacciato dal Cremlino o un Ayatollah avesse proclamato la fine del mondo da una qualche desolata e sperduta località del Medio oriente, quegli stessi commentatori si sarebbero affrettati a dichiarare la nascita di una nuova era di conflitti. Entrambe le cose sarebbero accadute da lì a poco tempo. Ma quello che i critici mancarono di vedere è la tesi secondo cui il tempo successivo alla fine della storia sarebbe stato deprimente e per nulla trionfale. La lotta per il riconoscimento rischiava di essere sostituita dal calcolo economico, dalla soluzione di infiniti problemi tecnici e da soddisfazioni di bisogni sofisticati quanto inutili. Nel periodo post-storico non ci saranno né arte né filosofia, ma solo il perpetuarsi museale della storia umana: «la nostalgia potrà rinvigorire i conflitti e il prospetto di secoli di noia servirà forse al genere umano per ricominciare di nuovo». Così scrivendo, Fukuyama metteva a fuoco la vera contraddizione dei sistemi liberali i quali non sono in grado, per loro natura, di fornire ai propri cittadini obiettivi ultimi capaci di dare senso e pienezza all’esistenza. Il fallimento nel fornire una risposta alla domanda che cosa è una vita buona è il motivo per cui il liberalismo presenta un vuoto che è riempibile da qualsiasi cosa e ciò può portare al suo stesso disfacimento. Dopo il crollo del fascismo e del comunismo, Fukuyama indicava nell’ascesa dei nazionalismi e del fondamentalismo religioso gli avversari che si sarebbero presentati all’uscio della democrazia liberale. A dispetto dei suoi numerosi e suscettibili critici, lo studioso americano vide con molto anticipo problemi che oggi sono sotto gli occhi di tutti.

Marx cognitus e Marx absconditus

Secondo un noto sondaggio condotto dalla BBC nel 2005, Marx è risultato il filosofo più importante della storia seguito da Hume e da Wittgenstein. Gli studi su Marx e sul marxismo sono praticamente infiniti ma a partire dagli anni novanta cominciano a decrescere drammaticamente anche a seguito della fine del comunismo reale. Quale significato dare all’XI tesi a Feuerbach secondo la quale i filosofi hanno soltanto interpretato il mondo, ma ora è venuto il momento di cambiarlo? Continuità o rottura nella storia della tradizione filosofica? Marx è stato uno dei precursori e il responsabile del totalitarismo del novecento? La parte preponderante del ritiro filosofico per studenti liceali tenuto ieri è stata dedicata alla dottrina economico-filosofica di Marx contenuta nei suoi scritti maggiori: dall’influenza di Hegel al materialismo storico, dal concetto di forza lavoro a quello di produzione, dal feticismo delle merci fino al plusvalore, il fondamento questo più problematico di una teoria che intende sconfiggere la religione moderna costituita dal capitale. L’attenzione dei giovani partecipanti è stata notevole quanto inaspettata a dimostrazione che su molti temi Marx aveva colto nel giusto. Non è stato trascurato l’aspetto politico del filosofo tedesco e le conseguenze dell’inesistenza pratica di una sua dottrina dello stato. A margine del ritiro si è soltanto accennato a come sia possibile rinvenire in Marx quello che può essere definito un aspetto noto in contrapposizione ad uno quasi inedito del suo pensiero. L’attenzione sul primo aspetto è stata fornita dalla recente pubblicazione di due conferenze di Hannah Arendt tenute all’università di Princeton nell’autunno del 1953 nel volume Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale. Il secondo, quello relativo alla parte meno visibile dei suoi scritti, è stato messo in risalto in una ricerca pubblicata nel 2015 da una studiosa del pensiero moderno, Idit Dobbs Weinstein, nel libro Spinoza’s Critique of religion and its heirs nel quale prende in esame le note di Marx al Trattato teologico politico del filosofo ebreo olandese. A seguito di RF students vogliamo offrire alcune considerazioni ragionate su questi due testi. Continue Reading