Europa e Cina sotto le lenti dei filosofi di ieri e di oggi

Odi et amo. È forse questa l’espressione che meglio di tutte riesce a cogliere la natura del rapporto tra Occidente e Oriente, per lo meno per come lo si percepisce da Occidente. Tutto, e il suo contrario, contemporaneamente. Come nella dottrina dei contrari di Eraclito, questi due momenti del mondo vivono una perenne contrapposizione – ieri più geografica e culturale, oggi economica e politica – all’interno della quale però, in sporadici punti di contatto, hanno saputo scoprirsi molto più simili di quanto non potesse sembrare.

Fra le tante voci che hanno contribuito ad approfondire questo guardarsi da lontano – spesso troppo lontano – una delle più autorevoli è senz’altro quella di Eugenio Garin, celebre storico della filosofia che nel 1975, con il suo saggio Alla scoperta del “diverso”: i selvaggi americani e i saggi cinesi, contenuto nella raccolta Rinascite e rivoluzioni, s’interrogava sul ruolo giocato dalla Cina nell’evoluzione della civiltà europea nell’età moderna.

Dopo di lui, un altro studioso che più si è prodigato affinché tali punti di convergenza potessero emergere e rendersi visibili a beneficio di entrambe le parti è Filippo Mignini. Docente universitario presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata, Mignini è stato anche direttore dell’Istituto Matteo Ricci per le relazioni con l’Oriente. Nel suo Europa e Cina, uscito in questo turbolento 2020, Mignini tenta di ricostruire le tappe fondamentali del percorso di assimilazione del pensiero orientale dall’Europa illuminista, per farne il punto di partenza di una speculazione che allunga il suo sguardo fino al futuro prossimo.

Due voci che partendo da punti diversi, cercano di accorciare le distanze, per lo meno dal punto di vista mentale, fra due mondi che proprio nel dialogo basato sulle reciproche differenze potrebbero trovare la chiave per un nuovo mondo.

L’Occidente allo specchio
«È l’anima stessa dell’Europa che si riflette nell’immagine che gli Europei si fanno degli altri popoli», questo l’intento che muove l’analisi di Garin, questo il segreto che si nasconde dietro il “diverso”. Il nostro modo di descriverlo è in realtà il miglior modo per raccontare chi siamo. In fondo è proprio questo che accadde tra XV e XVI sec. Con la scoperta delle Indie l’Europa vide mutare la propria consapevolezza di sé perché scoprì gli altri. Altri diversi dal mondo arabo con cui si era incontrata e scontrata ormai da secoli, altri che non venivano considerati dagli antichi testi su cui si fondava la cultura identitaria europea, i primi veri Altri dai tempi dei Romani.

Garin si sofferma molto sul momento rappresentativo dell’incontro, tanto per quello con i nativi americani, quanto per quello con i cinesi. Ne consegue che entrambe le civiltà furono “misurate” e “comparate” dagli europei, sulla base delle immagini che essi stessi ne avevano preventivamente formulato. Nessuno scambio, nessun confronto fra diverse culture, solo la cinica valutazione di come gli altri si possano e debbano collocare all’interno del proprio schema valoriale. E se magari c’era stato il caso, forse mosso da un qualche istinto romantico, di un’esplorazione in nome della pura conoscenza all’origine delle scoperte geografiche, è evidente che in breve tempo fu l’economia a prendere in mano le redini della situazione, con conseguenze ancora molto forti, soprattutto in America. È di fronte al massacro degli Indiani d’America che l’Europa inizia ad avvertire l’esigenza di individuare chiavi di lettura culturali per legittimare e assolvere il proprio operato, velocemente passato da un confronto inter pares fatto di guerre per il predominio, al trionfo del paradigma capitalista: l’affermazione della dialettica servo-padrone.

Garin mostra come, paradossalmente, furono proprio gli interventi a supporto delle popolazioni indigene brutalizzate dalla frustrazione dei rozzi soldati occidentali, partiti in cerca dell’oro e poi rimasti esclusi dal paradiso sognato di Eldorado, a favorire questa evoluzione. Perché l’evidente superiorità bellica degli Europei portava comunque con sé un enorme dispendio di risorse, e quando neppure la causa evangelizzatrice riuscì a placare il malcontento dell’opinione pubblica per quanto si stava consumando oltre oceano, il passaggio dallo scontro aperto all’inganno offrì l’abito giusto per proseguire nell’intento iniziale. Non c’era né il tempo né l’interesse a portare avanti il confronto tra civiltà finalizzato al reciproco apprendimento, le ragioni dell’economia esigevano un approccio più veloce ed efficace. La portata innovatrice del contatto col nuovo andava ridotta e riportata all’interno di schemi già noti che ne facilitassero la comprensione.

Così, dietro i miti dell’innocenza edenica e dell’età dell’oro, si nascondeva un messaggio ben più crudo: questo mondo siamo noi ai nostri albori, in esso si rendono visibili sogni e ricordi di un’intera civiltà, non c’è altro da imparare se non da un punto di vista storico. A nulla serviranno le riflessioni di Montaigne e il suo invito a ragionare sulla pluralità delle culture, il destino dell’America era segnato.

Ben diversa la questione relativa all’Oriente. Perché se è vero che anche in questo caso, la rappresentazione occidentale di quel mondo tendeva a ricondurlo a schemi semplificati, è altrettanto vero che, di fronte alla Cina, l’Europa «si rende conto dell’esistenza di una civiltà più antica della propria, diversa ma non meno ricca, anzi degna di essere innalzata a modello».

Partiti con in testa i miraggi del Milione di Marco Polo, ciò che si trovarono di fronte gli Occidentali, soprattutto i Gesuiti, fu una società in cui la gerarchia sociale era figlia di quella morale, in cui l’assenza della rivelazione non aveva minimamente pregiudicato la possibilità di un ordine politico esemplare, ma soprattutto, una cultura capace di mettere in scacco l’identità di un mondo. Quando nel Settecento intervennero le bolle papali a bloccare questo flusso di idee e di conoscenza, era ormai troppo tardi, il mito della saggezza e della superiore moralità degli atei cinesi era già lì, a mettere in crisi le coscienze europee. Il mito cinese, insieme a quello del Nuovo Mondo, sembravano dimostrare che non c’era bisogno di Dio per un mondo bene ordinato, anzi, ciò che appariva era la presenza di una “legge di natura” più antica di ogni credenza umana il cui valore oltrepassava ogni rivelazione. Questa profonda critica religiosa aprirà poi le porte ad una nuova visione dell’uomo all’insegna della multiculturalità.

L’Europa che si credeva avanguardia, si scoprirà, nelle parole dei letterati, barbara e sopraffattrice e viene invitata a confrontarsi con gli altri mondi, con gli altri uomini.

Il Commercium lucis e la morale cinese che entra in Europa
La figura centrale affinché questo scambio tanto fecondo fra Oriente e Occidente fosse possibile, è Matteo Ricci. Fu lui, per Mignini, l’alfiere di quel processo di “inculturazione” – cioè del farsi parte della cultura ospitante, impararne i dettami per acquisire stima e credibilità al suo interno, e solo poi provare a trasmettere insegnamenti e dottrine – che ha portato l’Europa a conoscere la Cina attraverso i testi.

La sua scelta di privilegiare l’intento comunicativo rispetto alla conversione infatti, gli permise, una volta conquistata la fiducia dei suoi interlocutori, di comprendere e tramandare la cultura di una civiltà che, separando la morale dalla religione, aveva fatto della razionalità il fulcro della propria vita politica ed etica. La possibilità di entrare a stretto contatto con questa dimensione culturale, mostrò a Ricci quanto profondamente il confucianesimo e il suo sistema valoriale fossero interconnessi, non solo con la sfera spirituale, ma anche e soprattutto con quella politica e sociale. Al punto che il gesuita nei suoi scritti, fornì traduzioni di parole chiave come Tian (Cielo) o Shangdi (Imperatore dell’Alto) che penalizzavano l’intento evangelizzatore e quindi la verità della rivelazione, arrivando a consentire ai convertiti al cristianesimo anche la possibilità di continuare a seguire le prescrizioni della ritualità confuciana. Perché in essa Ricci vedeva un valore esclusivamente civile ed educativo non in contraddizione con la fede cristiana.

Queste aperture, come visto sopra, porteranno a una dura condanna da parte dell’ambiente ecclesiastico e culmineranno perfino nello scioglimento della Compagnia di Gesù. Tuttavia, nonostante le ripercussioni, l’operato di Ricci e di altri gesuiti al suo fianco, era ormai passato e tanti frutti erano in arrivo. Il suo lavoro infatti, permetterà all’Europa di conoscere una Cina sì atea, ma, ciononostante, capace di elaborare una morale perfetta e di costruire un sistema politico esemplare. Il paradigma occidentale fondato sui due assiomi fondamentali del Cristianesimo per cui non è possibile una morale senza religione e non è possibile una società di atei, rischiava di entrare in crisi.

Leibniz fu tra i primi a cogliere in questo incontro tra Europa e Cina una grande opportunità, non solo perché queste due grandi realtà si equivalgono sul piano culturale, ma anche perché da questo incontro epocale poteva nascere non solo un grande progresso in ambito scientifico, ma si potevano anche gettare le basi per il grande sogno del secolo dei lumi: la pace tra i popoli e lo sviluppo dell’umanità. Commercium Lucis: è con questa espressione che il filosofo tedesco definisce questo scambio di conoscenze in cui coglie un duplice obiettivo. Sul piano religioso, quello di portare il cristianesimo in Cina da un lato e di far riscoprire la religione naturale all’Europa dall’altro; sul piano del sapere naturale invece, quello di far tesoro delle conoscenze cinesi in ambito scientifico, in cambio di quanto comunicato loro dagli europei.

Tutto ciò però, sarà possibile soltanto attraverso l’approccio promosso da Matteo Ricci; “tutto deve diventare di tutti”. Un invito alla conoscenza reciproca, che poi si sarebbe facilmente potuto evolvere in una compenetrazione di una parte nell’altra e viceversa.

Dopo Leibniz, anche Wolff entrò nel dibattito sulla questione cinese, e nel suo Discorso sulla filosofia pratica dei cinesi, sostiene che il porre la ragione a fondamento, ha consentito loro tanto di fondare una morale efficace, quanto di dotarsi di un sistema di governo invidiabile.

Lo stesso Voltaire si inserì su questa scia sottolineando che è solo grazie alla centralità della ragione che la religione cinese non è mai entrata in conflitto con il potere politico, ed è proprio qui che si deve andare a cogliere il senso della sua religione naturale. La fedeltà alla nostra natura di esseri razionali è la sola possibilità che abbiamo per permette alla luce di Dio di illuminare tutti i popoli e di prospettare una pace universale. L’esatto contrario di quanto portava avanti l’Europa in quegli anni, accecata dalla presunzione e dalla bramosia, lavorava alacremente affinché all’estensione dei commerci facesse seguito quella di un intero sistema valoriale ad essi affine.

La Cina però non era l’America, e nel momento esatto in cui gli emissari dell’Occidente, con la loro presunzione di superiorità, iniziarono a minacciare lo spirito e l’ordine dell’Impero, l’imperatore non esitò, espellendoli dal proprio universo.

Il tramonto dei Lumi
Fu una stagione ricca di frutti quella che unì Cina ed Europa tra XVII e XVIII secolo, ma che si spense troppo velocemente. Con il naufragio dell’esperienza di Napoleone in Europa, vennero meno gli stessi valori su cui la sua esperienza si era poggiata e sorretta; gli ideali di libertà uguaglianza e fratellanza della Rivoluzione. L’Europa della Restaurazione rinnegò velocemente tutto quanto aveva messo a repentaglio il suo equilibrio. I rapporti con la Cina si deteriorarono velocemente e da modello iniziò a venire dipinta più come un qualcosa di arcaico, straordinariamente evoluto sì, ma non più una vetta della civiltà umana, quanto piuttosto un inizio luminoso rimasto troppo a lungo uguale a se stesso.

È in fondo questo lo scenario che dipingerà Hegel nella sua Filosofia della storia quando parlerà del movimento dello Spirito che partendo giovane da Oriente, cresce e si sviluppa fino a raggiungere il suo pieno compimento nel mondo occidentale. Sono questi i valori che fanno da sostrato ideologico all’attacco inglese al porto di Hong Kong; il ritorno in auge di una presunzione di superiorità legittimata dalla capacità di essere più forti. Non c’era tempo di aspettare che la Cina, votata alla piena autosufficienza, si convincesse ad aprirsi al commercio, quando le prime ambasciate inglesi furono respinte, impazienti come chi non conosce la via per la saggezza, gli Occidentali bruciarono, insieme ai palazzi, ogni barlume di credibilità e divennero invasori e oppressori. Un progetto di grande impatto ma allo stesso tempo di scarsissime vedute. Non è passato molto tempo da quando l’Europa ha violato con la forza il silenzio della saggezza confuciana che avvolgeva la Cina e ora, si trova schiacciata dallo stesso peso che ha imposto al Paese di Mezzo appena due secoli fa.

È inclemente Mignini nella sua analisi fra i rapporti tra Cina ed Europa nel XXI secolo. Una potenza in rapida ascesa su tutti i fronti, capace di strutturare programmi e progetti fino ai prossimi 50 anni, che si trova di fronte un mosaico di egoismi locali e scarso spirito di coesione. Il declino del Vecchio Continente sembra ormai iniziato e procede sempre più velocemente. Stanche istituzioni, distanti dalle popolazioni che si trovano a governare, amministrano il bene comune sempre con un occhio al proprio di bene, e parimenti puntano il dito contro chi, con un modello democratico incentrato su valori diversi dai nostri, porta benessere e si prefigge anche l’obiettivo di portarne agli altri.

Forse c’è uno sbilanciamento eccessivo nelle analisi fatte dal professore: probabilmente sorvola troppo velocemente sugli aspetti più oppressivi del sistema politico cinese che, quando parla del riconoscimento di libertà politiche e individuali purché non entrino in contrasto con gli interessi, sociali, statali e collettivi, né con gli altri cittadini, in realtà riconosce la mancanza di vere libertà nel senso occidentale del termine. Eppure, forse, il difetto non è nella sostanza del modello cinese ma nell’approccio intuitivo del pensiero occidentale al concetto di democrazia. Nella tendenza ad associare implicitamente la libertà individuale alla democrazia, senza riflettere quanto magari questa tanto sbandierata libertà si perda fra i meandri e le pieghe del sistema democratico per come lo intendiamo noi. Si perde nelle disuguaglianze sociali, si perde nella diversa accessibilità a servizi fondamentali come salute e istruzione; si perde perfino nell’iperestensione della tolleranza – il problema del rispetto anche delle opinioni intollerabili come gli estremismi. La democrazia è un sistema politico tutt’altro che definito e tutt’altro che di facile applicazione, proprio per questo forse, un confronto onesto con chi ne ha individuata una forma diversa potrebbe fornire spunti di riflessione e momenti di crescita. Quando il nuovo avanza, i vecchi schemi devono essere capaci di adattarsi per non soccombere. E cosa c’è di meglio di una sfida sul tema che da sempre accalora i popoli dell’Occaso, il governo della cosa comune?

Riferimenti bibliografici

  • Garin, Eugenio. 1975. “Alla scoperta del «diverso»: i selvaggi americani e i saggi cinesi” in IDEM, Rinascite e rivoluzioni Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo Roma-Bari: Laterza, pp. 327-362.
  • Mignini, Filippo. 2020. Europa e Cina. Macerata: Quodlibet.

L’impossibilità dell’unificazione europea e il Superstato tecnico

Sono molti i libri nei quali Severino ha scritto sull’Europa e sulle prospettive dell’unificazione europea. Spesso si tratta di raccolte di articoli pubblicati sul Corriere della Sera dove il filosofo bresciano commentava periodicamente fatti e vicende della politica nazionale e internazionale. Fin dagli scritti riassunti in Gli abitatori del tempo del 1978 e poi in Téchne, il saggio sulle radici della violenza apparso l’anno successivo, è sembrato subito chiaro che le analisi di Severino superavano per lucidità quelle di tanti scienziati della politica. Tornano alla mente le parole di Leo Strauss secondo cui la scienza politica contemporanea, una volta messa di fronte alle tirannidi più terribili, non le seppe riconoscere. Severino al contrario dimostra subito di riconoscere una tirannide, quella della Tecnica, mascherata sotto le vesti della fede nel divenire che domina l’Occidente. Un tiranno sfuggente, senza volto, e per questo ancora più temibile. Ripercorriamo oggi la penetrante analisi del filosofo contenuta in alcuni dei suoi libri più significativi.

Continue Reading