Quel che resta di Heidegger

I “Quaderni neri” di Heidegger 1931-1948. Clicca sull’immagine per il programma completo.

Dopo la pubblicazione e le prime ricezioni dei Quaderni neri, Heidegger continua a far parlare di sé. Ne è testimonianza il grande convegno svoltosi a Roma tra il 23 e il 25 novembre dal titolo i “Quaderni neri” di Heidegger, che, organizzato da Donatella Di Cesare (Università La Sapienza), ha richiamato studiosi e interessati da tutta Europa. La lista degli invitati è sorprendente (solo per citare i più in vista, Peter Sloterdijk, Gianni Vattimo, Peter Trawny, Vincenzo Vitiello, Gérard Bensussan) e gli interventi hanno chiarito le posizioni dei vari studiosi heideggeriani dopo la pubblicazione dei quaderni. Ovviamente, l’attenzione si è concentrata sull’analisi del coinvolgimento accidentale o strutturale del filosofo con il nazionalsocialismo, sul ruolo che svolge l’ebreo e l’antisemitismo all’interno del sistema heideggeriano, e di conseguenza, sulla verifica di che cosa possa essere salvato (ove possibile) del pensiero di Heidegger. Continue Reading

Spinoza a Uomini e Profeti

Uomini e profeti è una trasmissione radiofonica in onda il sabato e la domenica mattina su Radio tre. Ideata e condotta da Gabriella Caramore (foto accanto), da oltre venti anni è tra i rari appuntamenti pubblici che affrontano argomenti di carattere teologico e religioso con una solida preparazione culturale (soprattutto biblica) unita a uno stile sobrio e raffinato. Notevoli sono le iniziative curate dalla trasmissione: una delle ultime in ordine di tempo è stata la lettura della Bibbia, dal primo all’ultimo libro, portata avanti insieme a studiosi e intellettuali dal 2010 al 2013. Numerose, anche per via del curricolo della conduttrice, le incursioni nel campo della filosofia. Una di queste ha interessato anche la figura di Spinoza con una puntata trasmessa l’8 dicembre del 2013 (ancora oggi scaricabile nella sezione podcast del sito) dal titolo Un uomo che genera Dio, secondo una citazione tratta da una poesia di Borges dedicata al filosofo ebreo.

Introdotto dalle parole di Giorgio Colli – che definiva il sistema di Spinoza un’unità a confronto della molteplicità frantumata del mondo moderno e la sua Etica (l’opera principale di Spinoza oggetto del nostro prossimo ritiro filosofico) come avente «la fermezza di un tempio in un paesaggio disabitato capace, se contemplato, di far conoscere il Divino» –  il dialogo in studio ha visto la presenza di Davide Assael, giovane ricercatore di origine ebraica.

Spinoza viene presentato correttamente nella sua dimensione biografica, storica e filosofica. Particolare attenzione, come è naturale, viene posta alle regole esegetiche contenute nel suo Trattato Teologico Politico del 1670 relative all’interpretazione delle Scritture. Con molta onestà viene giustamente ricordato che il filosofo e “ateo” Spinoza è stato il fondatore del metodo storico-critico che poi, dopo essersi diffuso in modo generalizzato nell’ambito della teologia due secoli più tardi, è oggi diventato imprescindibile anche per le chiese cristiane e nelle facoltà di teologia ai fini di una corretta comprensione della Bibbia. Viene poi ricordata la critica antropomorfica, ovvero l’antifinalismo di Spinoza, che vieta di porre l’essere umano al centro della natura (cosa ancora controversa per il sapere religioso cristiano). La discussione si sviluppa poi evidenziando i limiti del pensiero spinoziano. Su questi vorremmo soffermare la nostra attenzione, sia per indicare luoghi o testi in cui approfondire i singoli temi trattati sia per esprimere alcuni rilievi di carattere critico.

La conduttrice e il suo ospite sostengono che il metodo esegetico storico-critico non può essere assolutizzato: anche la lettura della Bibbia fatta in senso simbolico deve essere difesa perché recante una dimensione di significato da cui non si può prescindere. Non si dovrebbe cioè ridurre la Scrittura all’interpretazione fondata sul metodo storico-critico in quanto, avendo anch’esso i suoi limiti, deve essere utilizzato insieme ad altri metodi, così come mostrato da Sergio Quinzio (per tali critiche rimandiamo alla lettura dell’epistolario con Ceronetti). Su questo punto, per evidenti motivi, rispettiamo la diversità consistente in un approccio di fede necessariamente diverso rispetto a quello meramente razionalistico aggiungendo però che se, come dicono i conduttori, la lettura della Scrittura deve e può essere fatta in modo allegorico, diventa allora quanto mai urgente capire i luoghi dove ciò avviene insieme all’individuazione dei criteri per cui ciò avviene (ad esempio: come si pone oggi la scienza teologica in merito alla dimensione allegorica della risurrezione di Cristo?).

Il dialogo si estende poi sull’imbarazzo ancora attuale di Israele nei confronti di Spinoza. Esso nasce dalla valutazione secondo la quale le categorie utilizzate dal filosofo sono essenzialmente scientifico-filosofiche e non ebraiche. Da una parte si prende atto come nei suoi confronti l’atteggiamento umano sia cambiato, grazie anche al nuovo paradigma sull’identità ebraica che al tempo del filosofo significava compiere i precetti (mizwot) mentre oggi non è più così. Dall’altra però rimane l’imbarazzo perché, nonostante “l’errore strategico” della sua espulsione, rimane immutata la condanna dottrinale dovuta al fatto che quello di Spinoza non è più considerato un pensiero ebraico. Ricordiamo, a questo proposito, che dal novembre del 2012 fino al giugno del 2013 la comunità ebraico-portoghese di Amsterdam ha svolto un processo postumo per l’abrogazione del bando di espulsione di Spinoza emesso nel 1656 conclusosi però con la decisione del mantenimento della scomunica (per la discussione su questa vicenda vedi l’articolo di Steven Nadler nella rubrica The opinionator del New York Times).

Nella trasmissione si sottolinea altresì come il pensiero etico del filosofo olandese abbia portato ad un’eccessiva fiducia nella ragione, una sorta di ottimismo antropologico che, insieme al principio della libertà di coscienza, è oggi in corso di rivisitazione attraverso una vera e propria “apologia del dualismo” grazie alla quale emergerebbero aspetti trascurati dal monismo, prima di tutto l’idea di limite che permette la relazione tra gli individui. Tuttavia, aggiungiamo noi, non è affatto vero che un approccio monista (l’idea secondo cui esista un solo principio metafisico) sia di ostacolo alla relazione tra gli individui; anzi è semmai tutto l’opposto, come ha mostrato ad esempio Schopenhauer per il quale proprio l’appartenenza del genere umano (e animale) alla medesima sostanza costituisce il fondamento dell’etica.

Viene sottolineato infine l’atteggiamento “antidemocratico” e poco accettabile di Spinoza in relazione alla tesi secondo cui la Bibbia è stata scritta per educare ai misteri divini il popolo ignorante. A questo proposito si sottolinea come egli mantenga una posizione fortemente elitaria: nonostante si riconosca che il percorso educativo richieda un grande sforzo, è comunque «meno giusto riconoscere che alcuni possono educarsi e altri no» chiosa la conduttrice. Qui tuttavia sarebbe stata necessaria una precisazione. Il problema cioè non è quello di aver separato il volgo dai sapienti (distinzione che c’è sempre stata e che sempre rimarrà nel genere umano). Il punto è che per Spinoza la Bibbia non è stata scritta per ragioni di conoscenza divina (per la quale ci si deve rivolgere piuttosto alla filosofia) ma semplicemente per suscitare l’obbedienza, la devozione e il sentimento religioso verso Dio. Anche in questo senso dunque il pensiero di Spinoza non solo non è antidemocratico ma, potremmo dire, democraticissimo nella sua vera e propria essenza, specialmente se si tiene conto di quello che è stato definito il paradosso spinoziano, quello per cui «Se qualcuno, credendo cose vere, diverrà arrogante, costui avrà una fede empia; ma se sarà obbediente, pur credendo cose false, la sua fede sarà pia» (TTP, cap. XIII). Il senso di quella tesi, secondo la quale la Bibbia si rivolge ai semplici e a chi non ha tempo di indagare la natura di Dio (motivo per cui, tra le altre cose, in essa non vi è da ricercare alcun incomprensibile mistero divino), è che obbedienza e conoscenza, teologia e filosofia, fede e ragione sono e devono rimanere radicalmente separate tra di loro, tanto che una loro commistione non solo non porta a nessuna conoscenza ma è per entrambe nociva.

Infine il determinismo nelle azioni umane, spettro che non finisce mai di spaventare il mondo teologico (nonostante il fatto che proprio un pensatore come Lutero ne sia stato uno dei principali sostenitori). Secondo i protagonisti della trasmissione, non credere al libero arbitrio significa arrendersi al fatalismo che limita le potenzialità creative dell’individuo. Secondo la nostra opinione invece, oggi confermata anche dallo sviluppo delle neuroscienze, pur riconoscendo che tale fede è il presupposto irrinunciabile di molte costruzioni individuali, sociali e teologiche, la credenza nel libero arbitrio, da un punto di vista filosofico, è accettabile al pari di quella di chi si dichiari disposto a credere nei miracoli.

Affrontando un filosofo ancora scomodo per la teologia e per la religione in genere, Uomini e profeti si è ancora una volta dimostrata trasmissione non solo intelligente ma anche dotata di coraggio, provando la maggiore vitalità del mondo teologico odierno rispetto a quello filosofico, rimasto ancora troppo piatto e convenzionale soprattutto nel nostro Paese.

La politica di Abramo

The politics of the binding of Isaac, letteralmente “la politica della legatura di Isacco”, è un articolo apparso lo scorso 14 gennaio sull’Opinionator del New York Times (pessimo nome per un’ottima rubrica filosofica) a firma di Omri Boehm, giovane assistente di filosofia presso la New School for Social Research di New York. Aggiungiamo per inciso che non abbiamo trovato altri termini in italiano, come quello appunto di legatura, per indicare l’atto del legare qualcuno (forse però si potrebbe anche tradurre “legamento”).

L’articolo discute un tema oggetto di acceso dibattito al nostro ultimo Ritiro Filosofico, ovvero il cosiddetto “sacrificio di Isacco” così come è conosciuto l’episodio contenuto nel capitolo 22 del libro della Genesi. Il fatto è noto: una volta ricevuto l’ordine di sacrificare il proprio figlio, Abramo, attraverso continue quanto false rassicurazioni, conduce Isacco sul monte Moriah secondo il comando ricevuto. Dopo aver legato il bambino all’altare sacrificale, Abramo viene fermato all’ultimo momento dall’angelo di Dio che interviene per impedire la consumazione del rito.

Le ragioni per cui il racconto è conosciuto come il sacrificio di Isacco sono numerose. Esse tuttavia sono ingiuste in quanto nessun sacrificio viene perpetrato: sono quindi da respingere interpretazioni legate al proposito iniziale (seppure fatto sotto il comando di Dio) o alla presunta “psicopatologia” di un padre che pur si dirige sul monte per compiere l’uccisione del proprio figlio. Semmai si deve al contrario interpretare il fatto come una prima reazione contro il rito dei sacrifici umani delle religioni pagane, rito inizialmente praticato anche in ambito giudaico. In questo senso la mancata consumazione del sacrificio del bambino segnala il passaggio da una religione arcaica ad una religione più matura e decisamente più umana.

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