È un sereno pomeriggio di aprile quello che ci accompagna mentre attraversiamo Piazza della Repubblica a Foligno, con passo deciso; sono passate da qualche minuto le sedici e siamo in leggero ritardo per il nostro appuntamento. In penombra, seduto al tavolo di un bar, già s’intravede il nostro interlocutore, celato da un ampio cappello scuro. Non vuole saperne di formalità Massimo Donà, titolare di una cattedra in filosofia teoretica al San Raffaele di Milano nonché ex allievo di Emanuele Severino; ci invita subito a sederci e a raccontare chi sono questi due giovani con cui sta per prendere un caffè. Ascolta con passione il professore veneziano e lascia venir fuori tutto il suo calore di amante della vita, soprattutto quando si finisce a parlare di musica. Il tempo però è un tiranno, e così, dopo un ultimo tiro al suo mozzicone di sigaretta, la nostra chiacchierata ha inizio.
Dio è la natura?
Si è svolto mercoledì 15 maggio presso il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Macerata un dialogo tra il prof. Filippo Mignini, ordinario di storia della filosofia, e il Lama Denys Rinpoche, maestro buddhista del lignaggio tibetano Shangpa Kagyu e Presidente Onorario dell’Unione Buddhista Europea. La conferenza, inserita nel programma del Festival nazionale degli studenti universitari, si è svolta nell’ambito delle celebrazioni del Vesak 2013 sotto l’egida dell’UBI (Unione Buddhista Italiana). L’incontro, durato quasi due ore e mezzo, ha visto la presenza di un pubblico numeroso. Di seguito diamo un ampio stralcio della discussione che abbiamo inserito nella sezione Dialoghi del sito.
Un dialogo fra Oriente e Occidente
Il principio indeterminato e l’Assoluto
Filippo Mignini
Da molto tempo mi sono convinto che il primo problema culturale del nostro tempo è quello di affrontare in modo profondo e duraturo un dialogo tra oriente e occidente. Ho dedicato diversi corsi universitari ad indagare quale potesse essere questa linea di pensiero che parte dai greci e attraversa come un fiume carsico l’intera storia della filosofia occidentale non giungendo mai a diventare un punto di vista culturalmente dominante. La tradizione a cui mi riferisco è stata sempre perdente dal punto di vista del successo culturale: la maggior parte della nostra popolazione ha sempre pensato in altro modo. Eppure questa tradizione di pensiero è molto chiara, la si può ricostruire ed è costituita da quelle filosofie che hanno considerato il principio come indeterminato. Che cosa pensa la nostra cultura dominante? Pensa che la causa prima di tutte le cose, quella che chiamiamo Dio, sia un ente determinato, determinatissimo, in quanto ha una sua particolare natura intellettiva ed essendo sostanza spirituale (così si dice nel catechismo); è dotato di intelletto e volontà; si suppone che possa costituirsi come persona e rispondere con un Io ad un Tu che lo interpelli. Questo è un esempio di principio determinato.
Ebbene nella storia della filosofia occidentale esiste una tradizione di pensiero che potremmo far iniziare con Anassimandro, il filosofo dell’apeiron, del principio che è senza limite, e scendere fino ad una filosofia che chiamiano neo-platonismo nella quale il principio viene posto come assolutamente indeterminato, indicibile, indifferente: non ci sono definizioni che si possono dare perché tutto ciò che possiamo descrivere e definire è determinato, appartiene cioè al mondo degli effetti.
Passano i secoli ma all’inizio dell’età moderna incontriamo un filosofo come Cusano che riprende questa tradizione, rovescia radicalmente la filosofia scolastica che lo aveva preceduto e riporta in auge il principio come la potenza assolutamente indeterminata, il posse ipsum, cioè la potenza punto e basta, non una potenza di intedere, di volere, di essere, che sono tutte determinazioni, ma la potenza in quanto potenza. Questa tradizione viene ripresa poi da Bruno, Spinoza, Schopenhauer, Bergson. È dunque possibile ricostruire un filo rosso all’interno della tradizione occidentale dominata, all’opposto, dall’idea di un principio determinato, di una causa prima determinata, dall’idea che il principio primo è pieno e non vuoto. Questa tradizione è il punto più avanzato verso Oriente a partire dal quale sono maggiori le possibilità di dialogare ed incontrare le filosofie orientali (buddismo, confucianesimo, taoismo ecc.).
Personalmente ho avuto poi la possibilità di studiare il primo incontro tra cristianesimo e filosofie orientali in Cina attraverso l’esperienza di Matteo Ricci. Si è trattato di un’esperienza non solo difficile ma per molti aspetti fallita: il tentativo di stabilire un dialogo con una o più filosofie che considerano il principio come assolutamente indifferente e indeterminato dal punto di vista di una filosofia come quella scolastica che invece considera il principio e la causa come determinata.
Lama Denys Rinpoche
Reputo eccellente questo dialogo attorno alla figura di Spinoza che, sebbene io non sia uno specialista, considero come il filosofo occidentale più buddista o perlomeno, senza voler mettere dei superlativi, molto buddista.
In primo luogo credo che sia molto importante trovare una base di dialogo tra oriente e occidente, una tesi universale che sia al fondo dell’etica, della spiritualità e della filosofia.
Il secondo punto è che se esiste un fondo universale è perché esso si situa nell’esperienza, nel vissuto dell’esperienza. L’esperienza è unica nella diversità dei concetti. L’esperienza unisce i concetti di vita. Personalmente cito spesso una frase: se due veri saggi si incontrano e non sono d’accordo, uno dei due non è saggio; se due teologi o metafisici si incontrano e sono d’accordo, vuol dire che uno dei due non è teologo o metafisico.
Il terzo punto è la Realizzazione, ovvero la distinzione tra filosofia speculativa e la filosofia operativa. La prima specula nel concetto; la seconda utilizza il concetto per comprenderne i limiti e per portarsi nell’esperienza diretta e immediata. L’immediatezza ha un carattere universale ed è primordiale, preconcettuale, e in questo senso è la dimensione naturale. L’esperienza diretta è sia il fondo dell’empatia, cioè dell’amore e della compassione, sia dell’intelligenza immediata.
Come ultimo e quarto punto, vorrei dire che Dio è Assoluto: in generale ciò non pone a priori dei grandi problemi. L’infinitudine, la magnificenza, l’onnipotenza, l’onnipresenza, l’assolutezza di Dio. Nella tradizione di Budda non si parla di Dio come nelle religioni monoteiste preferendo parlare di natura o di quelle che si definisce la natura di Budda. Tuttavia, nella tradizione del Tantra, c’è la nozione di deità che è intesa come quell’assoluto al di là di Dio nel senso che ha suggerito Meister Eckhart. Il punto è che qui l’assoluto è sinonimo di non dualità ed è onnipresente. Si può parlare di natura, ma una natura risvegliata che nel buddismo si definisce la natura di Budda, la buddità. Questa natura abbraccia tutto, è infusa, onnipresente e assoluta. È per questo che si può porre l’equivalenza Dio-Natura. Ciò che è importante è il metodo per la Realizzazione: come scoprire questa natura? La Realizzazione è la liberazione dall’ignoranza, dall’illusione e dalle passioni. In generale liberazione dalla disarmonia, dal malessere e dalla sofferenza.
Matteo Ricci e Spinoza
Filippo Mignini
Vorrei seguire due percorsi: uno diretto, l’altro indiretto. Quello indiretto è costituito dalla percezione che Matteo Ricci ebbe della tesi fondamentale sostenuta dai suoi interlocutori cinesi e che espone con molta precisione: la tesi secondo cui tutte le cose sono unite in una medesima sostanza. Scrive Matteo Ricci: «L’oppinone che adesso è più seguita, pare a me pigliata dalla setta degli Idoli – cioè il buddismo – da cinquecento anni in qua, è che tutto questo mondo sta composto in una sola sustantia, e che il creatore di esso con il Cielo e la terra, gli uomini e gli animali, alberi et herbe con i quattro elementi tutti fanno un corpo continuo, e tutti sono membri di questo corpo; e da questa unità di sustantia cavano la charità che habbiamo d’aver gli uni con gli altri, con il che tutti gli huomini possono venire a essere simili a Dio per esser della stessa sustantia con esso lui. Il che noi procuriamo di Confutare non solo con ragioni, ma anco con autorità de’ loro Antichi, che assai chiaramente insegnorno assai differente dottrina» (Della Entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella Cina, Quodlibet, Macerata, 2008). Si tratta della tesi dominante in Cina nella quale si trova quella nozione di deità, di cui parlava prima il lama, che sta al di là di Dio inteso come creatore. Questa sostanza infatti è tale da includere in sé il creatore del mondo, il mondo e tutte le sue manifestazioni. Riguardo al tema della carità viene dedotto dalla partecipazione degli uomini alla medesima sostanza. C’è però una seconda parte che rende drammatica questa constazione: quella cioè nella quale Matteo Ricci si propone di confutare, con argomenti logici e con l’autorità dei loro stessi testi classici, che i loro antenati non hanno insegnato quello che attualmente credono quanto piuttosto un principio molto simile al nostro creatore del mondo, cioè un dio trascendente, dominatore, giudice ecc. Questa contesa si avvia in Cina in forma drammatica e violenta: dopo l’uscita della prima opera di Ricci si coagula una prima forma di oppositori.
In Europa, da almeno un secolo e mezzo, la filosofia moderna aveva preso una strada che portava invece alla dottrina del principio indeterminato di Cusano, cioè dell’Assoluto. Non c’è nessun dubbio che in questa filosofia Dio sia l’Assoluto il quale non ha nessuna delle caratteristiche che la teologia tradizionale ha attribuito al Dio ebraico, cristiano o islamico perché esso è privo di ogni determinatezza, tale cioè da non poter essere dichiarato o descritto. Questa tradizione passa espressamente a Bruno il quale dichiara, nel quinto dialogo della Causa principio et uno, di fare propria l’ontologia del divino Cusano. Questo principio è portato alle estreme conseguenze da Spinoza. Basterebbe leggere alcuni passaggi tratti dalla prima formulazione del suo sistema contenuti nel Breve Trattato nei quali, dalla concezione di Dio rigorosamente assoluto, emerge un infinito del tutto sproporzionato rispetto a qualsiasi finito, nel senso che non è possibile stabilire nessun rapporto tra infinito e finito pretendendo di assumere i due termini come termini di un rapporto. Se, al contrario, si pone il finito come termine di un rapporto con l’infinito, e quindi altro rispetto all’infinito, si rende finito anche l’infinito. Hegel chiamerà questo modo di pensare il rapporto tra finito e infinito, supponendo che il finito sia un termine di relazione adeguato o sufficiente con il finito, “cattiva infinità”, cioè una falsa infinità. L’infinito deve invece essere pensato come il tutto: qualsiasi termine può essere trovato solo dentro l’infinito, non fuori: se possiamo e dobbiamo pensare il finito lo possiamo e dobbiamo fare solo nell’infinito. Questo è detto chiaramente da Spinoza.
Se consideriamo l’assoluto una potenza viva e capace di produrre effetti, l’assoluto potrà produrre effetti in se stesso, cioè immanenti, e quindi segue la distinzione tra natura naturante e natura naturata, termine con in quale si intende l’insieme degli effetti immanenti prodotti eternamente, necessariamente e per natura: viene tolto ogni riferimento all’intelletto e alla volontà della causa la quale è una natura assoluta capace di permanere eternamente nell’essere e, con la stessa potenza, produce tutti gli effetti che hanno la potenza di esistere. Tutto ciò che esiste di determinato è un modo di questa natura infinita, o sostanza infinita, ed esiste soltanto e nella misura in cui inerisce a questa sostanza. Da questo punto di vista la posizione di Spinoza è molto prossima alla tesi dell’assolutezza della divinità. Ma potremo anche dire che questa natura o sostanza, in se stessa, essendo l’identico soggetto di tutte le essenze, poiché tra tutte le essenze esiste anche una differenza e persino una contrarietà, non può essere qualificata secondo nessuna di queste essenze, perché altrimenti non potrebbe essere identico soggetto di esse, e dunque, in sé, è assolutamente indifferente e indeterminata.
Gli altri aspetti che venivano toccati sono quelli della destinazione pratica della filosofia. Per Spinoza la filosofia ha per supremo interesse la vita. Tutto ciò che nella filosofia non è utile a produrre una vita buona deve essere buttato via come superfluo. Da questo deriva la conseguenza relativa alla Realizzazione: cosa significa infatti vivere una vita buona? Significa vivere una vita libera. Siccome la sostanza agisce per necessità della sua natura e, di conseguenza, tutto ciò che esiste e tutto ciò che non esiste lo sono per necessità, in quanto che ci sono delle cause determinate affinché tutto esista o non esista, non si dà libertà d’arbitrio, nessuno può pensare di essere libero e di possedere una libertà indifferente di essere o di non essere, di fare o di non fare. Se infatti è determinata la nostra essenza, così lo è la nostra esistenza ed anche la nostra azione. Dunque, ciò che noi possiamo fare, entro questo limite di forte necessità e determinatezza, è conoscere la nostra posizione nell’universo, sapere dove stiamo, chi siamo, e, attraverso la conoscenza, attivare un processo di liberazione, cioè un processo attraverso il quale ci rendiamo sempre più liberi dalla forza delle cause esterne. Per quanto possibile ovviamente, perché, per Spinoza, in assoluto questo non sarà mai possibile. Ma, attraverso la conoscenza, possiamo agire per renderci più liberi, ossia meno determinati dalla forza delle cause esterne. Credo che le tesi di Spinoza siano molto vicine a quelle elaborate dal lama.
Liberazione, sostanza, etica
Lama Denys Rinpoche
La liberazione è il punto centrale nella tradizione del Budda. La liberazione da che cosa? Dall’ignoranza e dall’illusione. Per il buddismo è molto importante distinguere la coscienza dalla gnosi. La coscienza è di tipo duale e genera una dinamica dualistica nella quale si annida l’ignoranza. La gnosi è invece l’esperienza immediata e diretta che genera la vera conoscenza. Dall’ignoranza e dall’illusione dualistica si generano le passioni. Esse sono emozioni conflittuali da cui vengono varie forme di difficoltà e sofferenza. Una buona vita è una vita liberata dall’ignoranza e dalle illusioni nella realizzazione della felicità e della salute. Nella tradizione buddista c’è una prospettiva terapeutica: il percorso potrebbe essere chiamato una terapia fondamentale per realizzare la salute per il corpo e per la persona. Salute, armonia, benessere, felicità sono dei sinonimi così come i loro corrispettivi negativi (malattia, disarmonia, malessere, infelicità).
Matteo Ricci era un missionario e quindi quelle parole che abbiamo prima ascoltato devono essere intese nel senso apologetico: quando parla di quegli antichi orientali che avrebbero insegnato una dottrina differente egli sta facendo una sorta di wishful thinking. Nella via mediana del Budda ci sono due mezzi di conoscenza. Il primo è la ragione cioè la logica, l’inferenza, la matematica: una logica molto sofisticata vicina a quella aristotelica soltanto che non c’è il principio del terzo escluso. Il secondo è l’immediatezza.
Riguardo alla sostanza unica, bisogna dire che la nozione è complicata. In generale, nella tradizione buddista, essa è il fondo, più precisamente il fondo del fondo. Le prospettive sembrano essere diverse ma esse convergono in un approccio sistemico.
La prima prospettiva considera la sostanza come qualcosa di sostanziale e materiale. Tutto è materia e la mente è un epifenomeno della materia.
Una seconda prospettiva considera la sostanza come spirituale dove la materia è fenomeno della mente. C’è evidentemente una contraddizione.
La terza prospettiva è di tipo cognitivo che postula un Tutto materia e spirito al quale si può mettere un’etichetta a piacimento. Si tratta di un approccio decostruttivo che dimostra le contraddizioni che vengono dal processo di concettualizzazione mentale. Si tratta di decostruire le prospettive concettuali per sfociare in una sospensione o apertura. In questa dinamica l’approccio culmina in un non concettuale che è l’al di là dei concetti.
In merito alla nozione di creazione si tratta di un’assurdità logica che può essere mantenuta soltanto grazie alla fede. Per contro c’è la possibilità di considerare la creazione come eterna come al di là dallo spazio e dal tempo.
Nella tradizione buddista c’è un modo di presentare tutto ciò presentando l’assoluto come Uno, non duale e trino. È possibile fare un’analogia con la dottrina della Trinità. L’assoluto presente è la dimensione del padre; la presenza nel tempo e nello spazio è il corpo di emanazione nella dottrina buddista e il figlio nella tradizione cattolica; infine lo spirito realizza l’esperienza perfetta. Se si continua si può vedere Dio e la natura nella tradizione dei Tantra come Dio e madre. La loro unione non è dualista ma ha un carattere assoluto.
In merito all’etica, la buona vita avviene attraverso un triplice addestramento. Il primo aspetto è la disciplina di vita che è allo stesso tempo disciplina di salute e di benessere: principio etico fondamentale universale è la regola d’oro: “non fare agli altri la violenza che non faresti a te stesso”. Si tratta di una regola di empatia, d’amore e di compassione. La seconda regola è quella dell’esperienza profonda, ovvero la presenza aperta e attenta. La terza regola è la comprensione dell’interdipendenza di tutti gli esseri. Essa è quella dell’intelligenza immediata, a livello assoluto e non dualistico. In linea generale è la comprensione della realtà, ciò che sono e vivo. Si tratta di un’esperienza liberatrice. Sarei curioso di sapere, infine, se Spinoza abbia mai proposto degli esercizi spirituali.
Filippo Mignini
In Spinoza ci sono tre forme di conoscenza. Quella più comune di cui tutti partecipiamo e di cui la maggior parte degli uomini non si libera è l’immaginazione: si tratta della conoscenza che produce l’illusione, che nasce dal pregiudizio, che si manifesta in opinioni non sostenibili né dimostrabili. Il secondo livello è la ragione. Ma la vera conoscenza, e quindi la liberazione, si ha nel terzo genere che chiama intelletto, cioè la conoscenza immediata dell’essenza delle cose. In essa non c’è bisogno di dimostrazione in quanto tale conoscenza si può soltanto intendere, allo stesso modo con cui si intende l’assioma “il tutto è maggiore della parte”: se si conosce il significato dei termini “tutto” e “parte” non c’è bisogno di alcuna dimostrazione. Questo genere di conoscenza, del quale pochi partecipano, al quale bisogna essere educati ed esercitarsi per tutta la vita, ci consente di cogliere la nostra essenza non soltanto come un’esistenza nella durata e nel tempo ma anche come esistenza come sub specie aeternitatis. La cosa più difficile da capire in questa filosofia è la tesi secondo cui tutto ciò che esiste ha una duplice e simultanea dimensione: appartiene al tempo ma è anche eterna.
Per quanto riguarda la sostanza la posizione di Spinoza non coincide con nessuno dei tre punti di vista (anche se forse si può avvicinare al terzo). Spinoza considera la sostanza come costituita da tutte le essenze che esprimono perfezione. Se l’estensione, cioè la materia, costituisce una forma di realtà, essa appartiene alla sostanza. Se il pensiero, costituisce una forma di realtà, anch’esso appartiene alla sostanza. Così tutto ciò che necessariamente esprime realtà appartiene alla sostanza. Noi uomini, che partecipiamo soltanto di pensiero ed estensione, conosciamo questi attributi. Ma capite che quella sostanza, medesimo soggetto che si dice in se stesso pensante ed esteso, non può essere né pensante né esteso perché tra pensiero ed estensione non c’è nulla in comune. Dunque, la sostanza può essere l’identico soggetto di pensiero ed estensione se, in quanto sostanza, non è né pensiero, né estensione, cioè è indeterminata. In Spinoza invece non troviamo qualcosa di simile alla Trinità.
In merito all’etica, devo dire che le prime pagine della sua prima opera, il Trattato sull’emendazione dell’intelletto, vertono sul tema della disciplina. Quello che egli chiama institutum vitae: nesssuno può darsi alla filosofia se non adegua la sua vita ad essa, cioè se non si dà un adeguato tenore di vita. Non si può essere filosofi e cercare la liberazione, vivendo in qualsiasi modo. Il tema della comprensione profonda del nostro essere e della interdipendenza è molto presente in Spinoza per la ragione molto semplice che tutto ciò che esiste, esiste come una serie di cause, a cominciare dal nostro corpo che non può vivere al di fuori della relazione con altri corpi (aria, cibi ecc.). Questo vale anche per le nostre menti e per la nostra conoscenza: tutto ciò che esiste, esisten in un sistema di interdipendenza. Se non si capisce questo non si capisce nulla della filosofia di Spinoza. Questo ha a che fare con la natura modale delle cose, perché la sostanza è unica e indipendente.
Spinoza aveva degli amici ma non ha costituito una scuola, né un sistema di terapia. La terapia è costituita dalla lettura e dalla comprensione di quei testi, dalla meditazione continua grazie alla quale si può comprendere qualche cosa di più. Ma certo Spinoza non ha costruito comunità, né esercizi spirituali. L’esercizio spirituale è simile a quello che compie il lettore del Manuale di Epitteto: entrare in un processo di iniziazione, ma non quello di entrare in una comunità dove le persone sono accolte e guidate. Spinoza non ha costruito una religione o un sistema pratico di trasmissione della sua filosofia.
Al termine del dibattito ci sono state alcune domande da parte del pubblico presente.
Il principio indeterminato non comporta rivedere le modalità logiche con le quali noi pensiamo? Se cioè l’occidente ha seguito il principio determinato, ciò non è dovuto forse al fatto che l’occidente abbia adottato il principio di non contraddizione? Aprirsi all’oriente non significa rivedere i fondamenti della logica? Come si può seguire la logica dell’indeterminato rimanendo all’interno del principio di non contraddizione?
Filippo Mignini
La risposta l’ha già data Cusano quando sostiene che il principio di non contraddizione vale per il mondo degli effetti, ma non vale per l’assoluto. Nell’assoluto è esattamente la coincidenza dei contrari. Noi possiamo adottare tutte le logiche che vogliamo, ma se manteniamo fermo il principio della non proporzione e della non comparabilità dell’assoluto e del determinato, allora possiamo dire che la logica tradizionale vale per il determinato ma non per l’assoluto che è invece l’esplosione di questa logica.
Lama Denys Rinpoche
La determinazione è sempre una determinazione: se l’assoluto fosse determinato sarebbe una contraddizione. Nella logica buddista c’è il rifiuto delle proposizioni concettuali per cui può esistere l’affermazione in base alla quale A non può essere non A, ma allo stesso tempo si dà anche l’affermazione che A è non A. Ogni affermazione concettuale è ridotta all’assurdo e quindi evacuata.
Si è parlato di processo di liberazione come conoscenza della nostra posizione nell’universo. In Occidente e in Spinoza, con le dovute specificazioni, questo processo ha un nome: quello di scienza moderna. Volevo sapere se nel buddismo la scienza moderna, così come è stata intesa in occidente, può avere lo stesso significato.
Lama Denys Rinpoche
C’è una grande convergenza tra la visione buddista e la scienza moderna. La ragione di questa convergenza è l’utilizzazione della logica e della ragione come strumenti di analisi e di conoscenza. La scienza moderna si è sviluppata adottando un modo oggettivo che non ha considerato l’immediatezza ed ha finito per eliminare il soggetto. Il soggetto è invece il vero protagonista dell’osservazione. Soltanto recentemente c’è stata la reintroduzione della modalità cognitiva con la considerazione del soggetto che sperimenta, con un approccio che tiene conto delle modalità e della posizione dell’osservatore e la sua interazione con l’oggetto osservato.
Definire Dio come natura non è come dire che Dio non esiste e che esiste solo la natura?
Lama Denys Rinpoche
Dio è onnipresente, la natura è onnipresente. Dio e la natura sono coestensivi. Non si tratta di concepire uno contro l’altro. Se si vuole trovare un modo per combinarli c’è il polo maschile dell’intelligenza riflessiva che abbraccia la natura femminile onnipresente.
Filippo Mignini
Dio è un termine comune che è stato utilizzato nella storia della cultura occidentale in contesti e significati diversi. Altro è ciò che chiamiamo Dio nell’Antico Testamento, altro è ciò che chiamiamo Dio nell’antica Grecia, altro ancora è ciò che è Dio presso i Romani, altro ancora è Dio nella tradizione patristica e forse altro ancora nella tradizione scolastica. Abbiamo cioè un termine comune con il quale indichiamo cose diverse. La storia della nostra conoscenza di Dio è di fatto parallela: da una parte una conoscenza che pretende di derivare da una rivelazione, che di fatto però ha bisogno di profeti, intermediari o interpreti finendo per dover credere a loro; l’altra via è quella della ragione. Il primo libro dell’Etica di Spinoza si intitola Di Dio: per lui come per tutti gli autori sopra citati il termine Dio significa la Natura.
Dialogo sulla vera teologia
Tratto “liberamente” dal carteggio che Spinoza ebbe con Oldenburg, segretario della Royal Society, abbiamo riscritto, adeguatamente riformulato e semplificato (anche nei nomi), il dialogo che i due personaggi ebbero tra il novembre del 1675 e il febbraio del 1676 riguardante tre argomenti decisivi: il determinismo dell’agire umano, i miracoli e la risurrezione di Cristo. Anche questo è un contributo per la comprensione del Trattato Teologico Politico.
Oldenburgio (Epistola 22).
Caro Barucco, è ora che tu ti esprima in modo più semplice riguardo a quanto hai scritto nel tuo Trattato teologico politico. Intanto vorrei che tu facessi chiarezza sul rapporto tra Dio e natura, dal momento che molti pensano che tu confonda le due cose. In secondo luogo tu togli valore ai miracoli, e questo non è giusto. Infine vorrei che tu parlassi senza ambiguità su Gesù Cristo, nostro salvatore.
Barucco (Epistola 23).
Caro Oldenburgio, cercherò di essere quanto più chiaro possibile nei tre punti sui quali mi chiedi di esprimermi meglio.
Innanzitutto ti ribadisco che le cose, come dice S. Paolo, sono e si muovono in Dio: nonostante ciò molti continuano a non capire il rapporto esistente tra Dio e natura. A costoro dico, come dice Gesù, che chi ha orecchi per intendere intenda.
In secondo luogo io dico che i miracoli equivalgono all’ignoranza e sull’ignoranza non si può edificare alcunché. Anzi ti ricordo che l’ignoranza è fonte di ogni malvagità per cui non mi stancherò mai di denunciarla e di combatterla.
Infine confermo che per la salvezza non è necessario conoscere Gesù Cristo nella carne, cioè credere nell’incarnazione, espressione che oltretutto comprendo allo stesso modo di chi mi voglia convincere che il cerchio possa diventare quadrato. Gesù Cristo infatti è una tra le tante manifestazioni della sapienza divina, così come fu Salomone.
Oldenburgio (Epistola 24).
Se la metti così cercherò di trarre alcune conseguenze da quanto mi dici.
Se tu stabilisci che ogni cosa è in Dio, allora significa che ogni cosa, azione, persona è guidata da una fatale necessità: con la conseguenza che saltano le leggi, le morali, i premi e i castighi per le singole azioni. Tutti saranno giustificati e nessuno sarà colpevole di fronte a Dio. L’hai detto tu (sebbene implicitamente): se tutto è necessario, non c’è spazio per il libero arbitrio!
Il secondo punto, quello sui miracoli, mi sembra inammissibile. Intanto come la metti con le risurrezioni di Lazzaro e di Gesù? E poi, essendo gli uomini degli esseri finiti, come anche tu riconosci, in che modo questo può essere imputato a loro colpevolezza?
Sul terzo punto dici di non capire l’incarnazione. Ma qui il Vangelo parla chiaro: “il verbo divenne carne”. Se togli ciò, la religione cristiana diventa una favola!
Barucco (Epistola 25).
Ah, adesso capisco! Hai timore che si dica che l’essere umano non è libero ma agisce in base al più rigido determinismo! E hai timore che questo si dica anche di Dio! Ma si tratta proprio del fondamento del mio Trattato Teologico politico! Allora voglio chiarirti meglio il problema elencandoti le conclusioni che si devono trarre dalla questione della necessità:
io non sottopongo Dio al fato ma ritengo che ogni cosa derivi da Dio: quindi non c’è rapporto di sottomissione, perché Dio stesso è il fato. E dicendo ciò salvaguardo anche la sovranità e l’onnipotenza di Dio, stai tranquillo. E questo te lo dico facendo anche riferimento a quel grande sapiente che fu Seneca!
questa necessità non cancella né le leggi divine né quelle umane. Il punto infatti non è tanto quello di agire secondo libertà o secondo necessità: il vero problema è piuttosto quello di liberarsi da speranza e timore!
gli uomini sono in potere di Dio in tutto e per tutto, così come la creta lo è nelle mani del vasaio: quindi gli uomini sono senza scuse nei suoi confronti!
Adesso capisci meglio cosa intendo per fatale necessità?
Riguardo ai miracoli, insisto su quanto ti dicevo: chi vuole fondare la dimostrazione di Dio sui miracoli non fa una riduzione all’assurdo (come si dice…) ma una riduzione all’ignoranza! Ti faccio presente, a questo proposito, che l’apparizione di Cristo agli apostoli non è diversa dall’apparizione di Dio ad Abramo quando questi invitò quei tre uomini a pranzare con lui come è scritto nel libro della Genesi.
Per quanto riguarda infine la risurrezione, considera lo stesso episodio che ti ho appena citato per i miracoli: Abramo cioè credette che Dio fosse stato a pranzo con lui. Ma anche in questo caso, così come nel caso della risurrezione, si tratta di concetti adattati per la mente degli uomini. Ne consegue che la risurrezione di Cristo fu in realtà spirituale e con quell’espressione (risurrezione appunto…) si deve intendere che Cristo diede un esempio di eccezionale santità con la sua vita e con la sua morte. E il significato dell’espressione secondo la quale egli fa risuscitare dai morti significa che i suoi discepoli risorgono quando prendono a modello il suo vivere e il suo morire.
E poi, scusa: i cristiani hanno interpretato spiritualmente tutto quello che i giudei hanno inteso carnalmente; ora io non posso interpretare spiritualmente tutto quello che i cristiani vogliono interpretare carnalmente? Dai, sù, Oldenburgio! Abbi pazienza! Io riconosco come te la debolezza dell’uomo: e proprio per questo motivo, noi siamo forse in grado di dire fin dove si estende la forza e la potenza della natura? Sai tu dirmi per caso che cosa è in grado di fare un corpo? Dimmi, chi è più presuntuoso: chi vuole rispondere a queste domande o chi non sa che cosa rispondere? Ciò che non è spiegabile allora lasciamolo in sospeso perché, come forse dirà qualcuno in futuro, su ciò di cui non possiamo parlare è preferibile tacere! Anzi, ti dirò di più: chi ha veramente compreso qualcosa, dovrebbe rimanere in silenzio. E infine (giusto per portarti un altro esempio in merito al problema dell’incarnazione) quando la Scrittura dice che Dio era nella nuvola, nel tabernacolo o nel tempio significa che Dio era diventato nuvola, tabernacolo e tempio? Guarda, non so più che cosa aggiungere…
Oldenburgio (epistola 26).
D’accordo, ora capisco meglio cosa tu intendi per fatale necessità. Tuttavia i problemi non sono ancora risolti. Se l’uomo è in potere di Dio così come la creta lo è nelle mani del vasaio, allora io posso dire che l’uomo, al contrario di quanto tu pensi (e anzi a maggior ragione), l’uomo dicevo è addirittura in grado di giustificarsi per ogni sua azione e tutti avranno una scusa bella e pronta per qualsiasi loro comportamento.
Non aggiungo altro sui miracoli e prendo atto che tu li consideri al pari dell’ignoranza.
Riguardo alla risurrezione infine, ti chiedo: dobbiamo intenderla come una cosa allegorica? Certo, gli evangelisti ne parlano in modo così chiaro che mi sembra un’interpretazione strana la tua…
Barucco (episola 27).
Tu dici che gli uomini, se tutto è determinato, sono perdonabili. Va bene: ma che conclusione trai da ciò? Se dici che Dio non può adirarsi con loro, sono d’accordo con te. Ma, dimmi, puoi dire che essi sono tutti felici? Io dico di no: perché se gli uomini possono essere perdonati per il fatto di non essere responsabili delle proprie azioni, tuttavia possono mancare della felicità e vivere male. Un cavallo è un cavallo, un cane randagio è un cane randagio, un uomo è…un uomo! Che significa? Significa che egli ha una natura, quella di avere una ragione, che, se esercitata, conduce alla sua libertà; se invece quella natura non viene esercitata, l’uomo si perde e non è più uomo: allora di che cosa ci si lamenta? Chi non sa controllare le proprie passioni, necessariamente si perde.
Sui miracoli aggiungo solo che non riesco proprio a capire perché, se si stabilisce l’uguaglianza tra essi e l’ignoranza, si debba considerare il potere di Dio uguale al sapere umano.
Sulla resurrezione ti confermo che io la considero allegorica. Stai attento peraltro a quello che dice S. Paolo: quello cioè di aver conosciuto Gesù non secondo la carne ma secondo lo spirito.
Oldenburgio (epistola 28).
Quello che dici sul primo punto è duro e difficile da accettare: qualcuno ti accuserà di crudeltà per questo.
Sui miracoli diciamo così: tu credi che l’uomo abbia la stessa potenza e sapienza di Dio. Io non sono d’accordo perché Dio supera di gran lunga la sapienza umana.
Sulla resurrezione infine non sono disposto a seguirti: tutta la religione cristiana poggia su tale fede in modo tale che, se essa viene meno, viene meno anche la missione di Cristo. Se intendi la resurrezione come un fatto allegorico, sovverti tutta la verità evangelica.
Ci risentiremo in merito agli esperimenti che sto portando avanti.
A presto.
[p.s.: Il numero tra parentesi delle epistole si riferisce a quello dell’edizione Mignini-Proietti delle Opere di Spinoza].
Spinoza, Seneca e lo stoicismo latino
Un vecchio scambio di email fra alcuni componenti della redazione che hanno un contenuto filosofico, e anche una buona quantità di spunti.
SM
La tesi sulla quale mi sto focalizzando, per luglio 2012, verte – ancora in modo molto generale – su un commento e sulla relazione con altri autori di Seneca e del suo stoicismo, che si distacca e di molto da tutta la scuola stoica, a partire da Crisippo in poi.
Al di là di altri collegamenti (con Aristotele sul tema dell’amicizia, ed altri ancora da scandagliare meglio) ho trovato subito interessante una cosa.
Mentre leggevo le Epistole a Lucilio, e Seneca parla a più riprese del tema della libertà (che egli intende come, nota bene: accettazione, e non rassegnazione, quindi conquista, del destino – inteso come moira greca, ossia causalità – come legge che governa il mondo e le cose; ed in più -scrive Reale nel suo saggio di presentazione a Seneca-: “L’accettazione del Destino e il porsi in sintonia con esso, quindi il saper volere ciò che vuole il Destino, implicano l’accettazione della morte, e il volerla come la vuole il Destino“).
Strabiliante.
E soprattutto, se non ho inteso male, vicinissimo allo Spinoza dell’ultima parte dell’Etica che afferma la trasformazione del determinismo naturale da mero determinismo fisico ad una intellezione maggiore, come determinismo spirituale. Ovvero, contraddicimi se sbaglio, da quel punto in poi, dice Spinoza: non solo le nostre idee si concatenano seguendo il filo conduttore offerto da determinismo fisico-naturale dei corpi, ma anche la necessità causale, da cui si svolgono tutti i processi fisiologici che concernono il corpo, si lascia interpretare e si adegua alla consapevolezza razionale, che siamo in grado di imprimere ai moventi del nostro agire.
La cosa mi sembra – sempre se ho colto lo spirito senecano e quello spinoziano – alquanto vicina. La prima parte da una costituzione fisica, da una costatazione di carattere, potremmo dire in modo anacronistico, fenomenologica; la seconda invece da una lettura strettamente metafisca-speculativa volta alla dimostrazione (non della cura dell’anima, come fa Seneca) dell’ordine universale del mondo, che invece il filosofo romano, da quasi per assunto.
Che ne dici Maurizio? Potrebbe essere una relazione possibile, o è una forzatura? Semmai, a quali passi potrei attingere per ricavarne spunti e riflessioni?
Tutto ciò poi, mi sembra coniugarsi bene con l’ideale spinoziano dell’uomo saggio, che ispira la propria condotta ad un ideale di razionalità, e che si sforza di vincere la forza degli affetti, perché desidera vivere sotto la guida della ragione e sa che le passioni dividono gli uomini, mentre la ragione li unisce.
L’uomo saggio è l’orizzonte di pensiero anche di Seneca, inteso come colui che guarda alla filosofia come volta alla verità ma anche alla “fioritura della vita umana” (M. Nussbaum, Terapia del desiderio).
Ed ancora: Seneca ripete più volte nelle Epistole che la filosofia deve passare ad essere praxis altrimenti è un puro vagare intellettuale, ma non passare unicamente nella prassi politica, ma nella attività dell’uomo saggio.
In più, un altro punto di vicinanza, mi sembra essere il discorso fatto intorno alle diverse valutazioni morali: dice Spinoza che non è possibile generare una morale sopra le emozioni e le affezioni, perché ciò sarebbe inadeguato, e non ci porterebbero alla vera conoscenza.
Altro non sembra che una cura dei mali dell’anima, una ricerca di stabilità, che Seneca dichiara a chiare lettere.
E tutto ciò, nel filosofo romano, emerge soprattutto -cosa secondo me assai significativa- dopo l’allontanamento dalla vita politica, dai giochi di palazzo e dalla politica.
Mentre Spinoza teorizza una forma politica volta alla Libertà, con la ragione che ci guida moralmente verso la passione della gioia (Severino?) e verso la nostra autoconservazione; Seneca si distacca dalla politica che lo ha ingabbiato e lo ucciderà.
Ricapitolando, schematicamente i punti che mi appaiono (scusa il termine!) in comune, o comunque con possibili punti di analisi:
1) il tema della libertà e l’accettazione del destino come legge che regola il mondo, in Seneca, ed il passaggio al determinismo spirituale in Spinoza;
2) il tema dell’uomo saggio, che in entrambi i filosofi, è colui che viene ispirato a vivere per mezzo della ragione, curando la sua anima dai mali delle passioni;
3) il tema della morale come inconcludente se generata sopra alle emozioni, o comunque a partire da esse;
4) il tema politico che in Spinoza si riassume nella forma della tolleranza ed in Seneca pure, se intendiamo come una fuga – come lui afferma velatamente – il suo distacco dalla politica attiva che poi lo ucciderà.
MM
La questione dello stoicismo di Spinoza (anche se non so se è esattamente questo l’oggetto della tesi, ma è su questo che posso risponderti) è contenuta nel carteggio Spinoza-Oldenburg degli anni 1675-76 (ti rimando dunque a quelle lettere). Spinoza conosce Seneca, il più importante stoico latino, avendo anche messo in scena alcune delle sue tragedie al teatro di Van den Enden. Ad una lettura immediata, lo stoicismo di Seneca viene ulteriormente radicalizzato da Spinoza fino a diventare addirittura “diodoreo” (cioè da Diodoro crono che, all’interno dello stoicismo, aveva sostenuto il più rigido determinismo, al contrario di Crisippo che, come sai, lascia un varco alla libertà umana). Spinoza in quelle lettere non si fa vanto di citare Seneca, ma è Oldenburg che lo accusa di porre a fondamento della sua filosofia quella fatalis necessitas senecana (v. Naturales Quaestiones, II, 36). Oldenburg colpisce nel centro. Infatti, proponendo l’accordo tra intelligenza e ordine della natura, Spinoza intende promuovere il continuo perfezionamento intellettuale dell’uomo, la gioia della ricerca ecc. Le seguenti espressioni:
– “quella parte di noi che si definisce mediante l’intelligenza, cioè la parte migliore di noi” .(Etica IV, Appendice, cap.32)
– “poiché la parte migliore di noi è l’intelletto” (TTP, IV, 4) costituiscono entrambe un riferimento diretto alle Naturales Quaestiones, (v. I, prefazione, 13-14).
Ma, oltre che Spinoza, bisognerebbe ricordare come molte espressioni di Seneca non possono avere un valore diverso da quello di un ambiente strettamente stoico. In Seneca animus, ad esempio, significa parte razionale (e non anima) e quindi non si può ricollegare (come fanno alcuni) ad una sorta di stoicismo vitalistico o del soffio divino. O ancora lo stesso concetto di Dio che è da intendersi come la totalità delle cose visibili e invisibili, ordine necessario e immanente, causalità rigidissima. Addirittura, come tu dici, determinismo spirituale.
Ho accennato alle criptocitazioni di Spinoza in relazione alle opere tragiche e alle Naturales Quastiones di Seneca. Non basta però. Perché Spinoza conosce e criptocita il Seneca del De tranquillitate animi (4,8) e delle Epistole 3,6 e 94,45 dove il saggio latino aveva scritto che la virtù si divide in due parti: contemplazione e azione. Ebbene questo è il messaggio (non tanto segreto) del TTP. Dove? In quali passaggi specifici? Be’, a questo punto il tuo lavoro si salda con quello del ritiro. Magari mi puoi far sapere dove e in quali punti del TTP questo avviene. Dunque, come dici giustamente tu, la necessità della praxis è iscritta nell’ideale del saggio.
Per finire (anzi per iniziare…).
La nozione stoica di fatum per Spinoza è decisiva: con essa infatti egli può affermare e difendere il diritto di ciascun individuo alla libertà di pensiero, ovvero al sottotitolo del TTP dove si afferma che “la libertà di filosofare si può concedere senza danno per la pietà e la pace dello Stato, ma anche che essa non si può togliere senza togliere la pietà e la pace dello Stato“. Già qui ci fai una tesi intera…
SM
In realtà la tesi è più incentrata su Seneca, che su Spinoza, semmai il rapporto fra questi due sarà uno dei capitoli, insieme a quello che vorrei porre fra Seneca ed Aristotele in tema di amicizia. Ed altri, che dovrò sviluppare.
MM
Per venire subito ad una delle tue domande, ti dico subito che lo stoicismo spinoziano è stato l’oggetto specifico di un corso tenuto da Proietti nel primo semestre dell’anno accademico 2008-2009. Il titolo era: “Spinoza e lo stoicismo latino”. Ovviamente non spreco aggettivi per definire quel corso: ti basti soltanto pensare che, avendo lezione tre volte a settimana, ho dovuto fare circa 4.000 km per seguirlo integralmente. Il testo sul quale abbiamo studiato era quello stesso di Proietti, Agnostos Theos [edizioni Quodlibet, 2006] che è sicuramente la migliore introduzione per comprendere lo stoicismo spinoziano. Conservo preziosamente gli appunti di quel corso che, grazie anche alle tue sollecitazioni, spero di sistemare in forma digitale. Parte di essi, o comunque le questioni tematiche, sono contenuti e rielaborati in queste mie risposte. Per rimanere nel tema dei corsi del Dipartimento di Filosofia di Macerata, ti informo che Mignini ha appena cominciato in questo semestre un corso dedicato integralmente alle Lettere a Lucilio. Non aggiungo altro se non il rincuorarti dicendoti che non sarà necessario che tu faccia quei 4.000 km in quanto Mignini registra puntualmente le sue lezioni. Se invece vuoi comunque essere presente (anche per fare domande ecc.) credo che il prof non avrà certo scrupoli nell’ammetterti nell’uditorio…
Hai detto che la finalità della tua tesi è dimostrare come Seneca riscuota oggi consensi (e dimostrerai poi quali). Il problema però è di stabilire quale Seneca. Perché, come certamente sai, Seneca è stato oggetto di interpretazioni che nulla hanno a che fare con il mondo culturale nel quale egli ha vissuto. Basta che tu legga Giovanni Reale. Se si dice infatti che in Seneca affiora il concetto di trascendenza e quello di voluntas è chiaro che poi la spiegazione prende una piega diversa da quella fondata sulle categorie di immanentismo e di determinismo. Credo dunque che tu, compatibilmente con l’oggetto della tua tesi, debba dichiarare quale Seneca intenda. Il testo migliore e classico per lo studio dello stoicismo è ancora oggi La Stoa di Pohlenz.
Da parte mia ti dico che in Seneca quelle categorie di cui si parlava sopra (trascendenza, voluntas, ecc.) devono essere lette alla luce del suo immanentismo e materialismo. Dunque quella spiegazione, di un Seneca che ha contenuti che rompono con la struttura di fondo della Stoa, è una vera e propria violenza, un’assurdo. Capisco che bisognerebbe esibire gli argomenti di questa affermazione, che in parte ho già fatto, ma per questo dobbiamo ritornarci appositamente.Ti basti solo pensare per ora che uno degli argomenti a supporto di quella tesi è quello di uno stoicismo intimista, ripiegato sul privato. Osservazione che viene ripresa spesso a riguardo dello stoicismo, sia a proposito di quello antico dei greci, sia a proposito di quello nuovo dei latini. Niente di più errato: la valenza politica dello stoicismo è sempre stata fortissima. Il portico da cui la scuola prese il nome (il Portico di Pisianatte) era quello sotto il quale erano stati massacrati 1400 cittadini durante il Governo sanguinario dei Trenta tiranni (404 a.C.) e ciò non può essere senza significato. Se lasciamo questi aspetti “simbolici”, come si può non vedere che lo stoicismo latino è la filosofia politica di Roma capace di formare tutta la sua classe dirigente annoverando tutta una serie di Prìncipi filosofi e non soltanto il celebre Marco Aurelio? Che Seneca, prima di essere il consigliere di Nerone, è stato il vero e proprio reggente del Principato romano? Che il De otio è uno scritto di grande respiro politico? Che il determinismo ha sempre portato con sé delle forti valenze politiche (ricordi l’intervento di Severino dell’anno scorso)? Come si fa a sostene che “la Stoa romana si fa essenzialmente meditazione morale e religiosa” (G. Reale)? E ci sarebbero altri esempi che però ora tralascio.
In merito alla questione della libertà bisogna essere chiari e senza tentennamenti. È della massima importanza distinguere:
– la libertà degli antichi, che corrisponde integralmente al concetto di necessitas: la libertà è lo studio della sapienza e la conoscenza della connessione causale che regola tutti gli eventi e l’ordine della natura;
– dalla libertà dei moderni, che corrisponde al concetto di contingenza e caso: in questo senso la libertà è assenza di qualsiasi legge, piena ontologia della volontà, gettatezza nella fatticità (per usare un linguaggio heideggeriano), libero arbitrio e liberazione dalla ragione.
Per Spinoza non c’è niente di più alieno da questo senso moderno di libertà. “Si dice libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e che è determinata ad agire soltanto da se stessa; necessaria, o meglio coatta, la cosa che è determinata da altro a esistere e operare in una certa e determinata maniera” (E1, def. VII). Ecco, per Spinoza la libertà dei moderni sarebbe piuttosto schiavitù e “coazione” (i moderni insomma sono piuttosto dei coatti, come si direbbe oggi a Roma…). Aggiungo anche che ciò che per lui è decisivo non è tanto il fatto se questa libertà sia immanenente o trascendente, quanto piuttosto che la libertà è liberazione da metus et spes, cioè da speranza e timore. Su questo fondamento egli edifica il TTP che è un inno alla libertà dell’uomo nello Stato una volta sgombrato il campo dalla superstizione. Questo è il concetto di libertà per Spinoza che dunque non contraddice all’uso che egli fa del termine. La quinta parte dell’Etica si intitola “Della potenza dell’intelletto, ossia dell’umana libertà” e con ciò capisci quanto prima spiegato. Meglio ancora se vai a leggere il Trattato politico, capitolo II, paragrafo 7. In esso Spinoza afferma chiaramente che “Quanto più concepiamo l’uomo come libero, tanto più siamo costretti ad ammettere che deve necessariamente conservare se stesso ed essere padrone della sua mente. Il che mi sarà facilmente concesso da chiunque non confonda la libertà con la contingenza. La libertà è infatti una virtù, ossia una perfezione. Tutto ciò che rimanda all’impotenza dell’uomo non può quindi riferirsi alla sua libertà. Ne consegue che l’uomo non può affatto definirsi libero perché può non esistere o perché può non avvalersi della ragione. È libero solo in quanto ha il potere di esistere e di agire secondo le leggi della natura umana” (TP, II, 7). Spinoza non ha dovuto quindi porre nessun “rimedio” per parlare di libertà (semmai lo dovranno fare i moderni). Credo infatti che non ci sia nulla di più chiaro di queste parole non solo per parlare di libertà ma anche per rimandare ad uno spirito autenticamente stoico ed antico.
Alla prossima.
SM
Rispondo schematicamente, visto che i temi sono molti.
1) Per il libro di Proietti non ci sono – di certo – problemi, potrei procurarmelo e vedere che cosa Proietti afferma. (Intanto ho preso in prestito in Biblioteca il libro di Proietti del 2006, che avevi anche te, Philedonius, 1657. E ho già visto che fa richiami diretti a Seneca nella parte centrale).
Per le lezioni di Mignini, che probabilmente saranno meravigliose, anche perché il testo lo è altrettanto, sarebbe molto bello averle e ascoltarle.
2) In merito al “quale” Seneca definire: mi trovo d’accordo con te. Ho letto anche io il saggio di Reale su Seneca (La Filosofia di Seneca come terapia dei mali dell’anima) e non certo mi ritrovo nel suo concetto di Dio di Seneca (come ad esempio quando dice che il Dio di Seneca è un Dio che muove verso la bontà; quando fin dall’inizio si capisce e Seneca lo dice a chiare lettere che il suo Dio si conforma alla Natura ed è “intriso” di fato, di destino!).
Gli stoici – al di là degli influssi che Reale vede del MedioPlatonisti – come dici te, sono stati i reggenti del Principato Romano, e non hanno affatto mosso le loro azioni verso la bontà. Anzi.
Ricordo la lezione di Severino, e ce l’avevo già qui sul mio tavolo. L’avevo riguardata, soprattutto quando dice, alla fine del cappello introduttivo che: la questione del fato, in politica, implica dei problemi davvero seri.
3) In merito alla questione della libertà, e nella differenza fra antichi e moderni, e in Spinoza, tutto chiaro. Ora il discorso mi fila, ero io a non aver capito qualche passaggio.
Ciò che hai scritto, però, mi continua a convincere che Spinoza è “il segno di contraddizione” (come dice Mignini nella sua introduzione alle opere complete) nella modernità. Ed il più grande interprete degli antichi, ed anche degli stoici. E dei più grandi Stoici, io ci metto dentro Seneca, voce fuori dal coro nella scuola della Stoa, dato anche il suo collocamento a Roma e nel Principato che ha governato.
Aggiunta alla risposta 2).
Ammetto che, comunque, sembra esserci un po’ di sfasamento fra il Seneca delle Lettere a Lucilio e quello delle Questioni Naturali, dove in alcuni momenti sembra venir fuori una trascendenza incompatibile con lo stoicismo.
MM
Le lezioni penso io a prenderle… Oltretutto sarà una grossa occasione per affrontare il problema e gli scritti di Seneca.
ML
Saverio, occhio a non cercare una coerenza formale impeccabile fra le opere di Seneca. Come ha chiarito Hadot (v. ad es. Esercizi spirituali e filosofia antica) tutta la filosofia antica – e quella stoica soprattutto- rifugge dalla sistematicità come la intendiamo noi moderni. La filosofia era lo strumento per costruire una buona vita, non una bibliografia perfettamente coerente.
SM
Il tuo commento è più che mai sensato ed utile. Nel testo di Reale, infatti, vengono presi pezzi da un’opera, pezzi da un’altra solo per cercare una coerenza sistemica sul (secondo Reale) “bisogno di trascendenza” che il medio-platonismo ha portato su Seneca.
ML
In effetti, senza la prospettiva di Hadot (un plauso a Maurizio che me l’ha fatto conoscere) si capisce poco un elemento totalmente sottovalutato dall’analisi contemporanea: il fatto, cioè, che il filosofo antico non trovasse alcuna distonia fra l’esercizio della riflessione filosofica e l’esercizio della prassi quotidiana. Penso appunto a Seneca, ma anche a Cicerone e a Marco Aurelio. La filosofia come puro impianto teoretico è affare di noi moderni che, da questo ritirarsi della filosofia in ristretti ambiti accademici, credo che non ci abbiamo guadagnato molto.
SM
La filosofia antica, come spiega Hadot, ma anche Enrico Berti sia nel suo libro In principio era la meraviglia, che nell’ultimo libro Sumphilosophein -La vita nell’Accademia di Platone, afferma che oltre ad essere sforzo teorico, la scuola filosofica era stile di vita.
Ed infatti, per evitare questo rischio (come mi ha consigliato il professore con cui sto facendo la tesi) credo che mi concentrerò sulle Lettere a Lucilio. Con la coscienza, ovviamente, delle altre opere.
Poi, altra cosa interessante (oltre ad avere le lezioni di Mignini sulle Lettere) quel testo fu scritto da Seneca quando oramai era stato cacciato da Roma…