Jan Patočka alla prova della contemporaneità

La polemica del nostro tempo
Vi è spazio per ritenere che la famigerata “instabilità” contemporanea (moderna o post-moderna che sia) (Hobsbawm 1994) abbia in fondo riservato una buona dose di clemenza nei confronti di un congruo numero di isole coerentistiche tutto sommato resistenti al turbamento dell’epoca. La nozione di crisi, bruciante centro gravitazionale di una temperie culturale ormai decisamente fuori moda, pare avere qua e là lasciato il posto alla possibilità di erigere forti strutturazioni concettuali a sostegno di rivendicazioni sempre più cogentemente tendenti ad una chiusura (apparentemente?) irrefutabile. Se è chiaro infatti che il diffondersi di tradizioni (gli antichi “usi e costumi”) (Remotti 2011) eteroclite lascia spazio all’impressione circa il quadro di un’età ormai preda di un dissenso “anti-” o “post-” veritativo, è parimenti chiaro che tale condizione di diffrazione si raggiunge soltanto in virtù di un criterio giustappositivo che presuppone una forte strutturazione interna degli elementi dissonanti.

Insomma, tempo variopinto, ma pugnacemente oppositivo, e dunque irrigidito nelle sue contraddizioni ferree e “a-dialogiche”. E, del resto, l’ingessatura (necessariamente retrograda) non esime le nostre punte di diamante, giacché «anche gli scienziati (…) sono dei conservatori e fanno di tutto per difendere le loro convinzioni» (Remotti 2008, 5-6), e «Dio sa quanto irragionevolmente, per lo più» (Montaigne 1588).

S’intende dunque fissare nel merito della validità la rivendicazione scientifica (e scientista) per cui sarebbe funzione di una retta conduzione della razionalità umana fissare il nocciolo di verità implicito nella struttura di ciò che costituisce la realtà. Ancora recentemente si è infatti avuto modo di sostenere che «science constitutes our best chance at limning [“nel descrivere”, t.d.a.] the true structure of reality» e che «if any knowledge tells us the way the world is, it is scientific knowledge» (Kincaid 1996, 5); la filosofia, in questo senso, non può certo esimersi dal tentativo di comprendere.

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Sulla passività nel pensiero di Bergson e Merleau-Ponty

L’ontologia si fa estetica. Un nuovo punto di partenza
In Evoluzione creatrice, la passività è raffigurata dalla «materia» (Bergson 1959, 603). Essa è quella «resistenza» che lo slancio vitale deve superare per prolungare la sua «spinta», ma è anche – e soprattutto – la «spazialità» che ne permette la manifestazione, come chiarito anche ne Le due fonti della morale e della religione (Bergson 1959, 1191-1194). Non solo: la materia è anche l’altro volto dell’attività creatrice dello slancio, è la ricaduta o la riconversione attuale di questa forza propulsiva. Essa è il nome del suo «affaticamento», del suo venire meno in quanto «tendenza prima» (Bergson 1959, 595-596; Valenti 2019, 283). 

Come ho mostrato in alcuni studi pubblicati, quest’anfibolia non è risolvibile secondo il quadro concettuale offerto da questo testo (Valenti 2020, 268-287; Valenti 2019b). Non è chiaro, in ultimo, cosa esattamente sia questa “corrispondenza” alla virtualità dello slancio bergsoniano, il luogo che accoglie il suo farsi spazio. È il caso, per rispondere a questa domanda, di fare un passo indietro. Occorre prendere in considerazione altri documenti, allo scopo di suggerire una visione più ampia sulla questione della passività. Ecco perché, a mio avviso, è opportuno ripartire da Materia e memoria, uno studio che consente di porre la questione della relazione tra spirito e materia da un punto di vista specificamente estetico.

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Call for Papers 2020: Praxis

L’argomento del Call for Papers per il 2020 è Praxis, termine riconducibile all’ampio significato di pensiero pratico. Grazie ad esso, secondo quanto suggerito da Aristotele, il pensiero muove e determina i mezzi per raggiungere uno scopo: in esso sono compresi la scelta, il desiderio, la morale e tutto ciò che a che fare con l’agire. Ora, proprio la rottura del nesso tra pensiero teoretico e pensiero pratico, tra contemplazione e azione, tra teoria e prassi, è il segno più evidente del nostro secolo. Il Call for Papers intende indagare i momenti della storia della filosofia in cui si è incrinato quel rapporto e quali sono oggi le grandi riflessioni teoretiche che possono riannodarlo.

Gli articoli, in formato word e in formato pdf, dovranno essere inviati all’indirizzo email ritirifilosofici@gmail.com e avere una lunghezza massima di sedicimila (16.000) caratteri, spazi e note a piè di pagina inclusi. Lo scritto dovrà essere preceduto da un abstract iniziale senza note a piè di pagina non inferiore a 800 e non superiore a 1000 caratteri (spazi inclusi). Lo scritto dovrà essere altresì suddiviso in paragrafi. Sono ammessi testi in lingua italiana, inglese, tedesca e francese.

La nuova scadenza ultima per l’invio dei contributi è il 31 agosto 2020.

Il comitato di redazione di RF avrà il compito di esaminare gli scritti pervenuti riservandosi il diritto di scegliere i titoli e le foto che accompagneranno le pubblicazioni sul sito web di Ritiri Filosofici.

I criteri di valutazione saranno le premesse argomentative, lo sviluppo logico, la congruenza rispetto al tema, le conclusioni, la letteratura critica e la corretta redazione del testo.

Con la partecipazione al Call for Papers l’autore dichiara che il testo non è stato pubblicato in precedenza in nessun’altra sede e che esso non è oggetto di valutazione  da parte di alcun’altra rivista. Con la partecipazione al Call for Papers l’autore conferisce a Ritiri Filosofici il diritto di pubblicazione dell’articolo in ogni forma.

 

 

Photo by Ludde Lorentz on Unsplash