La riflessione filosofica di Franciscus Hemsterhuis, autore olandese della seconda metà del Settecento, pone al centro il problema dei rapporti tra l’anima e il corpo. Entro il solco della tradizione platonico-cartesiana, l’autore tenta di concepire, accanto all’autonomia e alla specificità delle due componenti, una loro possibile relazione. L’elemento più rilevante su cui questo contributo tenta di far luce è la funzione affidata al corpo il quale, agendo sull’anima per il tramite degli organi, ne svela l’alterità. Dunque, l’esperienza mediata dal corpo acquisisce, nella prospettiva dell’autore olandese, una funzione centrale nella fondazione del mondo morale in quanto rivela il soggetto non soltanto in quanto essere percipiente, e dunque passivo rispetto alla conoscenza della realtà esteriore, ma anche in quanto essere morale e, dunque, agente investito di doveri verso le cose che sono fuori di lui.

Il corpo: l’eredità di un problema
La condanna della corporeità a vantaggio di una supposta superiorità dell’anima costituisce un leit motif della riflessione filosofica scaturita dalla tradizione platonica. L’insistenza su alcuni elementi del pensiero platonico, in particolare sull’immagine del corpo come carcere dell’anima, ha determinato, lungo il corso di sviluppo della storia della filosofia, il divaricarsi – in verità non autenticamente platonico – della distanza, in termini di dignità ontologica, tra il corpo e l’anima o, altrimenti, tra la dimensione fisico-materiale e quella morale-spirituale. A quest’ultima andrebbero indirizzati tutti gli sforzi della filosofia nell’ottica di inverare la natura dell’uomo, dalla quale scaturiranno virtù e felicità. La realizzazione dell’uomo nel pieno dispiegarsi della sua natura psicologico-razionale si associa, quindi, ad un lavoro di umiliazione della corporeità e delle esigenze ad essa connesse nella direzione dell’arricchimento dell’anima.
Curiosamente, la tradizione platonica, che ha contribuito in certa misura ad ampliare il divario tra il corpo e l’anima, ha anche proposto, in alcuni frangenti della sua lunga storia di sviluppo, talune ipotesi di recupero di una possibile relazione tra le due componenti, in alcuni casi associata ad una spiccata valorizzazione della corporeità.
Vediamo, dunque, di ripercorrere i punti essenziali della riflessione filosofica hemsterhuisiana alla luce del ventaglio di problematiche connesso al cosiddetto dualismo platonico-cartesiano che attraversa il Settecento europeo.
L’eterogeneità dell’anima e del corpo
Franciscus Hemsterhuis fu un autore assai apprezzato in età moderna. Le sue opere, principalmente lettere e dialoghi filosofici, furono lette, commentate e recensite da alcuni dei massimi esponenti dell’illuminismo e del romanticismo europei. Per citare un esempio, Herder tradusse in lingua tedesca la Lettre sur les désirs, corredandola di un saggio di commento, intitolato Liebe und Selbstheit, con il quale trasferì il problema del desiderio dal contesto olandese di fine Settecento a quello del primo romanticismo tedesco.
Nel tentativo di elaborare una filosofia capace di contestare, in termini filosofico-scientifici, il materialismo francese e alcune istanze dello spinozismo, e nell’ottica di una riabilitazione della libertà umana e della face morale dell’universo, Hemsterhuis tematizza il problema dell’eterogeneità tra l’anima e il corpo. L’obiettivo principale di tale incursione nei problemi ereditati dalla tradizione cartesiana era quello di dimostrare, con i mezzi della ragione, l’esistenza di un principio immateriale concepito in relazione alla corporeità.
La trattazione più completa e articolata dei rapporti tra l’anima e il corpo finalizzata alla dimostrazione della loro eterogeneità è affidata, nello specifico, alla Lettre sur l’homme et ses rapports, pubblicata nel 1772 a l’Aja. L’argomentazione lì sviluppata sfrutta il paradigma meccanicistico e fisico-sperimentale, rispettivamente di derivazione cartesiana e newtoniana.
Prima di osservare la nozione di anima come oggetto degno dell’indagine filosofica, in quanto principio della vita spirituale e morale dell’uomo – contro il riduzionismo materialistico di certe istanze della filosofia europea settecentesca –, l’analisi hemsterhuisiana si impegna, quindi, a dimostrare, innanzitutto, l’esistenza dell’anima in quanto principio immateriale e, quindi, differente ed autonomo rispetto al corpo.
Il primo passaggio dimostrativo coniuga il principio cartesiano della conservazione del moto con la prima legge del moto di Newton, per cui un corpo rimane nel proprio stato di quiete o di moto uniforme sino a quando non interviene «l’azione di una cosa diversa da questo corpo» (Hemsterhuis 2001, 21). Da ciò si ricava la conclusione per cui «il principio motore del corpo chiamato anima è una cosa differente da esso» (Hemsterhuis 2001, 22). Entro tale argomentazione, l’anima viene fatta coincidere con l’atto della «velleità» – ovverosia il principio della volontà –, che interviene sulla materia modificandola «secondo i suoi fini».
La seconda dimostrazione chiama in campo il criterio della «proprietà essenziale», ovverosia la proprietà che, operando come una sorta di principium individuationis, determina una cosa per quella che è e senza la quale tale cosa verrebbe meno. Dunque, se la proprietà essenziale del corpo in movimento risiede nella tendenza a mantenersi nella medesima direzione, la modifica di tale direzione per via dell’intervento della «velleità», e quindi la modifica della proprietà essenziale del corpo, introduce l’eterogeneità dell’atto della velleità rispetto al corpo stesso, pena il venir meno dell’individuo in quanto essere agente: «Di conseguenza, l’uomo, se non fosse altro che corpo in movimento, distruggerebbe una proprietà essenziale del proprio corpo in movimento» (Hemsterhuis 2001, 22).
Nel terzo passaggio logico, Hemsterhuis prende in esame il processo conoscitivo basato sulla percezione. Il soggetto percipiente acquisisce le idee delle cose per via del rapporto che la funzione conoscitiva instaura con le cose stesse, le quali devono necessariamente essere «estese» e con una «figura». La funzione percettiva e quella pensante, attraverso cui il soggetto prima percepisce e poi elabora le idee sulla realtà esterna, devono quindi essere necessariamente diverse da ciò che viene percepito. Di conseguenza l’anima, al pari della funzione percettivo-conoscitiva del soggetto, deve essere un principio differente dalla più piccola particella del corpo, che è estesa ed ha una figura.
Le ultime due argomentazioni, strettamente interconnesse, dimostrano in aggiunta che il principio motore che opera nel corpo, dal momento che un corpo in movimento, se non incontra ostacoli, tende a muoversi eternamente in modo uniforme, è anch’esso eterno. Tale conclusione viene strutturata sulla base dei rapporti tra una data causa e il suo effetto: la causa del movimento, che è uniforme ed eterno, deve essere proporzionata al suo effetto e, dunque, deve essere anch’essa eterna.
La riflessione filosofica circa i rapporti tra l’anima e il corpo si sposta, a questo punto, sul «concetto di eterno»: «È certamente vero che una cosa che esiste per se stessa è per sua natura necessariamente eterna, ma non per questo ogni cosa che per sua natura è eterna esiste di per sé». Secondo l’argomentazione condotta dal filosofo, la materia, che non esiste in modo determinato ma, al contrario, è suscettibile di infinite riconfigurazioni, non ha un’esistenza necessaria e, di conseguenza, non esiste per sé ma in altro. Tuttavia, essa è eterna, come dimostra il fatto che non è corruttibile fino all’estinzione della sua natura essenziale, «poiché l’ultima particella di essa è sempre ancora dotata di estensione, figura ed impenetrabilità» (Hemsterhuis 2001, 25). Dunque, la materia è eterna ma non esiste in sé, cioè non è causa sui. Ma, dunque, che cos’è quest’‘altro’ in cui l’intero mondo fisico trova fondamento?
La risposta a tale interrogativo riporta l’analisi sul terreno della metafisica. Il filosofo olandese, infatti, trasferisce alcuni assunti teorici derivati dall’analisi del rapporto di eterogeneità tra l’anima e il corpo dal contesto individuale a quello universale. Entro tale operazione concettuale, Dio si configura nei termini di un principio universale che regge l’intera struttura della realtà, al modo di una «forza centrifuga» che, dall’esterno, agisce sull’universo impedendo l’«unione totale» delle parti, come l’atto della velleità interviene, dall’esterno della sua realtà eterogenea, nei riguardi del corpo fisico.
I due principi contrari che reggono l’intera realtà naturale garantendone l’equilibrio – la tensione delle parti all’unità e la conservazione della loro specificità – vengono presentati attraverso il ricorso a due esempi tratti dal mondo delle scienze esatte: la forza d’attrazione, che conduce le parti molteplici all’unità, è esemplificata dal fenomeno del magnetismo – «ci si può fare una vaga idea di quest’operazione con la calamita e la limatura del ferro» (Hemsterhuis 2001, 37) –, mentre la forza centrifuga, in virtù della quale ciascun ente conserva la propria individualità, dall’azione di una forza esterna che modifica la direzione di un pianeta lungo la sua orbita – «sembra che qualunque sia questa direzione […] essa è sufficiente ad impedire necessariamente l’unione» (Hemsterhuis 2001, 37) –.
Alla luce dell’antagonismo tra i principi su cui si regge l’intero mondo fisico, Hemsterhuis dimostra la sostanziale impossibilità che la materia esista necessariamente e per se stessa: «Dato che è contraddittorio che una cosa che esiste per sé abbia due principi opposti, se ne conclude che l’universo non può esistere per sé e che, di conseguenza, esso esiste in altro» (Hemsterhuis 2001, 39). L’impostazione metafisica cui rimonta la realtà fa capo al principio imperscrutabile di Dio, il quale conferisce all’universo le proprietà essenziali che l’uomo non è in grado di cogliere ma di cui egli stesso è parte integrante: «[…] egli guarda questa Potenza spaventosa con un orrore sacro, si sente un niente e non avverte alcun rapporto con essa, e tale conoscenza oscura, sterile e dolorosa di Dio lo rende il più infelice tra tutti gli esseri» (Hemsterhuis 2001, 40).
L’anima, infatti, rimane a baluardo della destinazione metafisica dell’universo, a tal punto che la sua attività si muove in armonia con quella di Dio, «con quell’impulso più grande impresso alla natura dalle mani del Creatore».
La trattazione fin qui esposta ha messo in evidenza l’esistenza di una differenza tra la natura dell’anima e quella del corpo-materia senza, tuttavia, entrare nel merito delle qualità essenziali della prima. La necessità di tale approfondimento sposterà la trattazione hemsterhuisiana sulle questioni della libertà e dell’universo morale, laddove il filosofo olandese individua le cifre caratteristiche dell’uomo in quanto «essere agente».
Sento, dunque sono: l’anima in relazione
Se la dimostrazione dell’eterogeneità dell’anima e del corpo consente di ristabilire la fondatezza della tesi circa l’esistenza di un principio immateriale – ma non per questo irreale –, con una particolare enfasi sulla dimensione morale e sulla funzione della «velleità», quest’ultima intesa come facoltà di poter volere e, dunque, come strumento di sottrazione dal meccanismo osservabile nella concatenazione di cause ed effetti della materia, l’attenzione hemsterhuisiana per la dimensione del corpo non perde di rilevanza.
Il riconoscimento del carattere «anfibio» dell’uomo, e cioè la sua doppia natura di essere senziente e di essere razionale, consente al filosofo olandese di salvaguardare, accanto alla dimensione morale, quella fisico-corporea. Nello specifico, Hemsterhuis riabilita la corporeità all’interno di una teoria della conoscenza – formulata principalmente nella Lettre sur l’homme et ses rapports – in cui il ruolo dell’esperienza rimette in gioco il corpo nella sua duplice funzione di mediatore nella conoscenza della realtà esterna e di specchio del sé-anima capace di svelarne l’alterità rispetto a ciò che è fisico ed esteriore. In altri termini, l’esteriorità fisico-corporea che agisce sul soggetto-anima offre, tramite l’esperienza del patimento, l’accertamento di una realtà eterogenea rispetto al corpo e per questo rivelatrice dell’identità del soggetto-anima.
La relazione dell’anima con l’esteriorità fisico-corporea rivela l’identità del Sé-anima: «[…] l’anima sente di esistere solo nel momento in cui acquisisce le idee delle cose esteriori» (Hemsterhuis 2001, 26). La differenza che emerge dalla relazione tra l’anima e la corporeità, per via dell’azione della corporeità sull’anima ricevente, accerta l’identità dell’anima e la sua autonomia: «Essa sente di essere diversa da tutto ciò di cui ha delle idee e da ogni cosa che sta al di fuori di essa. Tutto ciò che è esteriore e da cui riceve delle idee è il punto dal quale può pervenire alla convinzione della propria esistenza» (Hemsterhuis 2001, 26). La convinzione della propria esistenza, e cioè dell’esistenza di un sé-anima differente dalla corporeità estesa e figurata, passa dunque per l’esperienza di una realtà esteriore rispetto allo spazio interiore occupato dall’io. Tale operazione di auto-riconoscimento richiede, però, uno sforzo di «astrazione assoluta» lungo un itinerario che dai corpi e tramite i corpi conduce all’anima.
Entro tale esperienza di conoscenza, la corporeità gioca un ruolo guida al punto che persino l’aspetto morale dell’universo e, insieme ad esso, l’io-anima vengono conosciuti attraverso la sensazione. Poiché patiscono una sensazione, essi (l’uomo in quanto anima e in quanto essere morale) esistono. L’esperienza fondata sulla sensazione, e quindi sul ruolo della corporeità, è essenzialmente un’esperienza di mediazione capace non soltanto di far conoscere la realtà esteriore nei suoi aspetti analoghi agli organi di senso con cui il soggetto percepisce ma anche di far riconoscere al soggetto un aspetto irriducibile ai caratteri della esteriorità percepita. Paradossalmente, il corpo e l’esperienza del corpo schiudono al soggetto la face morale dell’universo, rivelandogli l’io in quanto soggetto morale (e non soltanto in quanto soggetto senziente).
Riferimenti bibliografici
- Hemsterhuis, Franciscus. 2001. Lettera sull’uomo e i suoi rapporti (ed. it. a cura di Claudia Melica). Napoli: Vivarium.
- Melica, Claudia. 2002. “Hemsterhuis filosofo europeo”. Paradigmi. Rivista di critica filosofica XX, no. 59: 347-360.
Photo by Pavel Nekoranec on Unsplash