Come deve comportarsi il filosofo se lo Stato è ormai irrimediabilmente corrotto e la politica un campo di conflitti pericoloso e violento? Si tratta di una domanda drammatica in un quel contesto storico e culturale dell’impero romano che vedeva il filosofo, come ogni cittadino, prendere parte attiva alla vita pubblica. Per Seneca, dopo un primo accomodamento con la dottrina stoica, non ci sono dubbi: prima che il filosofo si spenda in sforzi che non giungeranno ad alcun esito, prima di impegnarsi in un aiuto che sarà sistematicamente violato o rifiutato, è possibile ed anzi necessario affidarsi interamente agli studi e vivere una vita ritirata. Perché la vera vocazione del filosofo non è la politica ma l’educazione.
Il contesto storico e culturale
De otio è il titolo dell’ottavo dialogo contenuto nella raccolta Dialogorum libri di Lucio Anneo Seneca. Lo scritto senecano ci è giunto privo di una datazione certa e mutilo in principio e in fine. Seneca vi discute della legittimità per il filosofo di ritirarsi dalla vita attiva per dedicarsi alla contemplazione. Il tema trattato sembra prendere le mosse dalla vicenda autobiografica dell’autore. Nel 62 d.C., col permesso concessogli da Nerone, il vecchio Seneca si ritira dall’attività politica. Tacito gli fa pronunciare un lungo discorso col quale Seneca avrebbe chiesto congedo dal suo ufficio politico alla presenza dell’imperatore romano (anche se non si hanno prove che l’orazione sia stata realmente pronunciata da Seneca al momento della sua rinuncia agli incarichi pubblici per ritirarsi a vita privata). Ciò potrebbe indurre a credere che questo breve e denso dialogo possa essere stato di fatto dettato dalle circostanze biografiche, politiche e storiche nel quale l’autore vive e opera. Si potrebbe anche sospettare che il De otio sia un’opera di carattere prettamente apologetico. Quello che si intende mostrare invece è che: 1) il De otio non è affatto uno scritto meramente autobiografico, 2) il dialogo non è riducibile in alcun modo a opera autoapologetica del suo autore, 3) lo scritto consegna una dimostrazione filosoficamente fondata della necessità per il saggio della scelta contemplativa.
L’aspetto apologetico del dialogo è determinato dalle circostanze storiche, sociali e politiche nelle quali lo scritto vede la luce. Nella società romana, tutta orientata all’impegno politico e militare, il ritiro dagli uffici pubblici è giustificato soltanto come momentaneo e come diversa modalità di azione: esempio tipico di temporaneo ritiro dall’attività pubblica per ritornarvi con più efficacia era Scipione Emiliano. Un caso di ritiro obbligato dalla vita politica per altrui imposizione era invece la vicenda di Cicerone, mentre il modello del rifiuto della lotta politica a favore dell’impegno storiografico fu Sallustio. Al lettore romano Seneca deve fornire una legittimazione anzitutto politica alla scelta dell’inazione. Non per questo però lo scritto senecano rinuncia ad offrire una fondazione teoretica a tale esortazione. La trattazione condotta da Seneca è estremamente lucida e concisa: il testo a noi pervenuto consta di appena otto brevi capitoli nei quali sono esposte e provate le tesi essenziali della presa di posizione senecana. Di queste ci basti riprodurne almeno tre.
Il ritiro filosofico coerente con la dottrina stoica dell’impegno politico
Agli occhi di Seneca, filosofo fedele alla dottrina stoica e cittadino romano, una precisazione sembra occorrere prima di esporre le ragioni teoretiche a favore del ritiro dalla politica. Il discorso che condurrà è rivolto a chi vive in uno Stato ormai «troppo corrotto perché sia possibile gli si rechi aiuto». In questo caso l’esortazione al ritiro filosofico è pienamente coerente con i precetti stoici diffusi al tempo di Seneca. Si tenga presente questa considerazione preliminare che sarà rovesciata a fine dialogo dall’affermazione della necessità di un ritiro incondizionato del saggio. Ora, il buon cittadino che si allontana dalla politica corrotta non si ritira in un «dolce far niente» (così Seneca nell’ottava lettera a Lucilio); ma si dedica agli studi, coltiva la virtù e migliora se stesso «per essere utile a un numero maggiore di persone». Come chiarisce quindi nel De otio: «per questo giova agli altri, perché prepara una persona che ha intenzione di essere loro utile».
Non è solo la degenerazione politica a spingere l’uomo a rifuggire la vita pubblica e a prediligere il ritiro filosofico: è la sua stessa natura a indirizzarlo verso entrambe le attività. Così Seneca, riproponendo una tesi dalla lunga tradizione filosofica greca da Anassimandro fino ad Aristotele, ricorda al lettore ellenico che «la natura invero ha voluto che facessi entrambe le cose, e agire e dedicarmi alla contemplazione: entrambe le cose io faccio, dal momento che neppure la contemplazione è senza azione». Poiché infatti la virtù è «contemplazione del vero e azione», la filosofia stessa non può che essere «speculativa e attiva insieme» (cosa che Seneca ribadisce ripetutamente a Lucilio). Come si mostrerà, non solo la contemplazione è una forma di azione, ma è anche la più alta forma di azione.
Ma prima di discutere ciò, bisogna chiedersi in cosa consista l’azione propria della contemplazione. Per rispondere a tale quesito il testo senecano ci viene presto in soccorso. A modello di vita dedita a una contemplazione attiva Seneca pone l’esempio dato da Zenone e Crisippo, che «hanno compiuto azioni maggiori che se avessero condotto eserciti, avessero ricoperto cariche, avessero proposto leggi: queste le proposero, non per una sola popolazione, ma per tutto il genere umano». L’insegnamento che ne trae Seneca è chiaro: «trovarono il modo in cui la vita appartata fosse più utile agli uomini che non il correre di qua e di là». Allo stesso modo ammonisce ancora Lucilio: «se mi rivolgo con tali argomentazioni ai posteri, non ti sembra che io sia più utile che quando scendevo al Foro?». Con una chiusa apparentemente paradossale aggiunge poi nel De otio che questi «sembrarono aver molto agito, sebbene in nulla agissero a livello pubblico». L’azione più propria della contemplazione consiste dunque nella costruzione speculativa della migliore costituzione possibile.
La lezione platonica e la metafora dei due Stati
Ma torniamo ora alla precondizione posta al principio da Seneca perché il ritiro dalla vita pubblica del saggio sia giustificato senza che sia infranto il precetto stoico dell’impegno politico del cittadino. Riguardo allo Stato, nel De otio si legge che «se è già in balia dei mali, non vi dedicherà il saggio un inutile sforzo né spenderà sé stesso, perché sa che non potrà essere di alcun aiuto». L’asserzione senecana sembra riprodurre una considerazione già lucidamente espressa da Crisippo allorché ammoniva i suoi dicendo che l’uomo assennato «può anche partecipare alla vita politica, ma non nel caso che qualcosa lo impedisca e soprattutto nel caso che ciò non sia di alcun giovamento alla sua patria, e se concepisse che ne conseguono grandi ed aspri pericoli». Il monito di Crisippo, a sua volta, sembra sintetizzare due luoghi classici poco noti ma rivelatori della radicale lezione del realismo politico di Platone contenuti rispettivamente nel sesto libro della Repubblica e nella controversa Lettera Settima. Platone aveva infatti consigliato al filosofo di non gettarsi nell’agone politico perché, conoscendo la follia del volgo, si sarebbe ben presto trovato «nella condizione di un uomo caduto in mezzo alle belve»: un destino ineludibile per il giusto, il quale «se non vuole associarsi all’ingiustizia e non è in grado di opporsi da solo a tutti quei selvaggi, muore prima di giovare in qualche modo alla città o agli amici, inutile a sé stesso e agli altri» (Rep. 496, D). Un’esortazione ancora più esplicita al ritiro dalla politica è affidata alla Lettera Settima dove si afferma che l’uomo di senno debba parlare «se gli sembra che [la città] non sia ben governata, se non è destinato a parlare a vuoto e se esprimendo la sua idea non rischia di essere messo a morte, ma non usi la forza per cambiare la costituzione alla patria, quando non sia possibile che si realizzi la costituzione migliore se non a prezzo di esili e stragi di uomini, e non prenda iniziative e formuli voti per il bene suo e della città» (Lettera VII, 331 D). Il buon cittadino insomma farebbe bene a non perdere inutilmente la propria vita per redimere uno Stato irredimibile. Ma come conciliare l’esortazione platonica (riproposta da Crisippo) con il precetto stoico che comanda di servire la propria città? Per evitare quest’aporia politica Seneca ricorre alla celebre metafora dei due Stati: quello storico in cui si nasce e quello universale a cui si appartiene. Allorché non è possibile recare aiuto alla città terrena, si impone al saggio di servire la città cosmica: infatti «di questo Stato più grande ci è possibile metterci a completo servizio anche nel ritiro, anzi, forse meglio nel ritiro, per cercare che cosa sia la virtù». Il servizio alla città cosmica consisterà allora in ciò che Seneca spiega altrove a Lucilio, ovvero il lavoro per i posteri. Solo così egli può avere la speranza di scrivere qualcosa che sarà loro utile, concludendo enigmaticamente: «quelli che sembrano non combinare nulla, fanno cose più importanti, occupandosi della realtà intera, umana e divina».
L’incondizionato ritiro del saggio dalla vita politica
Risulta così giustificato il ritiro filosofico sia dal punto di vista storico-politico (la corruzione dello Stato) sia dal punto di vista pratico-morale (il servizio allo Stato universale). Ma Seneca non si accontenta di questa duplice legittimazione: il nostro filosofo intende fondare la necessità di un ritiro incondizionato del saggio dalla vita pubblica sulla base di un’argomentazione teoretica e metafisica. È a questo scopo che sul finale del dialogo Seneca osserva che nessuno Stato appare mai incorrotto agli occhi acuti del saggio e pone retoricamente la questione: «che importa dunque in che modo il saggio venga al ritiro o perché lo Stato manca a lui, oppure lui allo Stato, se a tutti lo Stato purtroppo è destinato a mancare?». E ne precisa la ragione teoretica: «se vorrò passarli in rassegna uno per uno, non ne troverò alcuno che sia in grado di tollerare il saggio o il saggio di tollerarlo. Se non si trova quello Stato che noi ci immaginiamo, comincia per tutti a essere necessario il ritiro».
Con un vero e proprio capovolgimento dialettico della posizione moderatamente stoica accettata al principio (che consentiva al saggio di ritirarsi dall’attività politica allorché lo Stato si fosse rivelato troppo corrotto per giovargli) nel finale Seneca riconosce l’impossibilità metafisica che si dia uno Stato incorrotto o avviato alla migliore costituzione al quale il saggio possa onestamente contribuire. Si noti il carattere radicalmente antiutopico dell’osservazione conclusiva del De otio con cui Seneca toglie ogni ulteriore dubbio: «[lo Stato] sempre mancherà a chi ne fa ricerca in modo scrupoloso. Io domando a quale Stato il saggio possa avvicinarsi. A quello degli ateniesi in cui Socrate viene condannato, Aristotele, per non esserlo, va in esilio?». Se persino lo Stato ateniese è ineluttabilmente destinato alla imperfezione, se persino la città greca che ha reso possibile la filosofia non è mai in grado di tollerare il filosofo, allora il ritiro, la contemplazione e la filosofia sono una necessità politicamente praticabile e metafisicamente giustificabile per colui che aspira alla sapienza. Dovere del saggio allora è ritirarsi, per definire ed edificare la migliore costituzione possibile. Suo compito politico è poi indicarla non solo ai concittadini, ma anche ai posteri e a tutto il genere umano. Seneca dimostra così che non la politica ma l’insegnamento è l’attività più propria del vero filosofo.
Riferimenti bibliografici
– Le citazioni del De otio senecano sono tratte dall’edizione a cura di G. Viansino: Lucio Anneo Seneca, I Dialoghi. Lettere morali a Lucilio. Mondadori, Milano, 2008.
– Le citazioni degli scritti di Platone sono tratte dalla edizione a cura di Enrico V. Maltese, con un saggio di Francesco Adorno: Platone, Tutte le opere, Grandi tascabili economici Newton, Roma 2005 (vol. IV, vol. V).
– La citazione di Crisippo è tratta da Stoicorum Veterum Fragmenta, a cura di Franco Scalenghe, Libro III, 690.
Grazie, molto pessimista (e teorico) sulla politica, ma così è Seneca nel De Otio.
Complimenti all’autore per la bella analisi.
Manca solo un aspetto: il collegamento con l’attualità e in particolare l’America di Trump, preannunciato da M. Morini nell’introduzione alla serie.
Caro Maurizio, il collegamento con l’attualità preferiamo per ora lasciarlo all’intelligenza e alla sensibilità del lettore, semmai ci confronteremo. Riguardo a Trump e all’America, il mio era solo un riferimento esemplare senza intendere e preannunciare l’oggetto sistematico della serie.
Più che pessimista, il Seneca del De otio parrebbe un realista, quasi un conservatore.
L’attualità italiana offre numerosi esempi di uomini onesti ingenuamente «caduti in mezzo alle belve».
Alcuni teoreti hanno recentemente riscoperto la vocazione politica della filosofia, invitando i filosofi a rientrare nella città. Compito degli storici mi pare essere al contrario quello di riproporre la lezione degli antichi sul ruolo del filosofo rispetto alla politica. Da Platone a Seneca infatti si esorta a rimanere ai margini della città, per agire con mezzi diversi e fini più alti.
L’allusione moriniana a un conservatorismo statunitense che sembra rivendicare la propria azione politica apparentemente improvvisata e scomposta legittimandola con il motto «charge the cockpit or you die» potrebbe mostrare la mancata comprensione della lezione di quel realismo politico che da Machiavelli a Strauss indica nella conoscenza e nella prudenza la bussola dell’agire pubblico.
Grazie, concordo. Mi è sempre molto difficile trovare un rimando filosofico all’approccio di Trump.