Lettera a Umberto Eco

Riceviamo e pubblichiamo una lettera di Sossio Giametta ad Umberto Eco

Milano, 10 maggio 2013

Ill.mo e caro Eco,
ebbi il piacere di salutarla alla serata in onore di Raffaele La Capria. Lei mi disse di aver ricevuto il mio libro, L’oro prezioso dell’essere, ma di non averlo letto. Tutto normale. Immagino le montagne di libri che le arrivano. E poiché le arriveranno anche montagne di lettere, invoco il suo generoso perdono per il mio farmi vivo pur sapendo tutte queste cose. Perché lo faccio? In generale perché noi poveri autori non famosi non possiamo onestamente sperare che nel riconoscimento di coloro che possono capirci, e perché in particolare io ho motivi personali per rivolgermi a Lei. Credo infatti di aver fatto una scoperta che, se è fondata, non può non interessarla quale filosofo e commentatore degli evi antico, medio e moderno. Questa presunta scoperta riguarda appunto l’evo moderno, sul quale è uscito ultimamente un libro da Lei curato.
Approfondendo lo studio semisecolare di Nietzsche, sono arrivato a capire il suo genio profondo, da tutti ancora ignorato e insospettato, e poiché esso è, secondo me, il punto d’approdo della modernità, sono arrivato a capire anche il senso, tuttora ignorato e insospettato, della modernità. Questo è un processo unitario, drammatico, angoscioso, che impone la reinterpretazione dei suoi protagonisti in base alla posizione da ciascuno occupata in esso. Tutto ciò è contenuto nel capitolo mediano del libro, intitolato Come fu che intuii quello che avevo capito. Ma per non obbligarla a leggere il libro, lo ripeto qui in altra forma.


Tutto comincia con la decadenza del cristianesimo e con l’incapacità dei popoli di vivere senza un tetto, una copertura religiosa, come la storia dimostra. Con i rivolgimenti causati dal risveglio dei valori antichi e dalla nuova scienza nell’umanesimo e nel Rinascimento, il cristianesimo,  che giunto alla sua massima realizzazione era ormai incamminato sulla strada della corruzione, come è di tutti gli organismi invecchiati, si ritirò sempre più dalle coscienze europee. Subì il duro colpo della Riforma di Lutero e il suo posto fu preso sempre più, nei secoli che seguirono, dalle tendenze secolarizzanti. Nel suo rapporto con la laicità si creò quello che Spinoza dice che avviene con la teologia e la filosofia: quanto più si alza il piatto della bilancia della filosofia, tanto più si abbassa quello della teologia, e viceversa.
Dette tendenze laicizzanti, però, senza l’ausilio della fede e del Dio padre, del Dio provvidente, avevano grande difficoltà a sostituire la religione, della quale l’uomo ha evidentemente un naturale bisogno: perché facevano appello all’intelletto e non all’anima. Questo processo laicizzante, consistente nel sostituire Dio con la natura, si sviluppò dunque da allora oscillando in due direzioni parallele: una negativa, scettica, pessimistica, e una positiva, affermatrice, ottimistica, non senza ripetuti tentativi da parte dell’una di incorporare l’altra.
I protagonisti di questi due rami della laicizzazione dell’Europa sono i protagonisti della cultura (Kultur) europea. Solo alcuni nomi: Nicola Cusano, Erasmo da Rotterdam, Lutero, Giordano Bruno, Giulio Cesare Vanini, Montaigne, Descartes, Pascal, Hume, Kant, Hegel, Stirner eccetera eccetera, fino al picco della tendenza negativa con Schopenhauer e la sua scuola, Philipp Mainländer, Julius Bahnsen e Eduard von Hartmann. Questi ultimi furono l’ultima grande provocazione in senso negativo ed è a essa, a Schopenhauer in particolare, suo “perfetto antipode”, che Nietzsche più immediatamente risponde con la sua tendenza affermatrice, rappresentata soprattutto da Così parlò Zarathustra.
Schopenhauer e i suoi discepoli si erano essi stessi opposti a quella che era stata l’ultima grande provocazione in senso contrario. Dopo il tentativo di Cartesio di “portare il cristianesimo a compiuta efficacia innalzando la ‘coscienza scientifica’ alla sola coscienza vera e valida”,[1] dopo il tentativo di Pascal di ri-saltare con una “scommessa” dal campo laico a quello cristiano, dopo quello di Leibniz di fare ingoiare all’uomo il male del mondo come una purga sgradevole ma benefica, e quello di Hamann di rovesciare l’illuminismo col ricorso al cristianesimo profondo, c’era stato il grandioso tentativo di Hegel di divinizzare il mondo portando la filosofia al cristianesimo, invece che il cristianesimo alla filosofia come credeva.[2]
Con lo Zarathustra, in cui si esprime con la massima forza la tendenza affermatrice che è la caratteristica principale del suo genio, Nietzsche fonda la religione laica. Questa passa attraverso la radicalizzazione del pessimismo schopenhaueriano, fondato sull’ineluttabile dipendenza dell’uomo dalle sue condizioni di esistenza, come parte infinitesimale di un immenso organismo, l’universo, alle cui  leggi è sottoposto (religione dunque dell’umiltà e non della superbia, come ha sostenuto Benedetto XVI), e l’affermazione dell’essenza divina della vita, di cui tutti gli esseri sono partecipi. L’essenza sublime e beatificante della vita non può essere negata, ma solo oscurata o impedita dalle circostanze o condizioni di esistenza. Dunque slancio, passione, entusiasmo, amore della vita sono giustificati nonostante tutti i possibili orrori e tragedie dell’esistenza. Questa è la grande novità predicata da Nietzsche.
Quando, composto il primo Zarathustra, egli non sapeva quale valore e senso esso potesse avere, e lo domandava agli amici oltre che a se stesso, Peter Gast sentenziò: “È una sacra scrittura”. Ciò lo illuminò, lo aiutò a capire se stesso, finché non ebbe più dubbi. Parlò allora dello Zarathustra come “la Bibbia del futuro, la massima esplosione del genio umano, in cui è racchiuso il destino dell’umanità”.[3]
Ciò nonostante, in seguito si fece riassorbire dallo Zeitgeist e dai dibattiti dell’epoca, agitata dai venti selvaggi della reazione alla decadenza e impegnata soprattutto nello scalzare gli ostacolanti valori cristiani. Come suprema antenna e strumento dell’epoca, Nietzsche si distaccò pian piano dalla sua più grande e gloriosa conquista per tornare a combattere il cristianesimo non più con l’eccellenza, con la divinità della vita concepita laicamente, ma con la lotta corpo a corpo, con lo scontro aperto. Ciò vuol dire che il suo genio si era oscurato. Da Al di là del bene e del male in poi, attraverso la Genalogia della morale, il Crepuscolo degli idoli, L’Anticristo e Ecce homo, egli precipitò in una specie di monomania, si dedicò a uno scontro personalissimo col cristianesimo dai toni stridenti, esagerati e in definitiva grotteschi.
Nietzsche era stato sempre agitato dal genio religioso. Questo cercò di venire in luce in tutti i modi, anche per vie traverse: nell’adolescenza come adesione appassionata al cristianesimo, che però, per la sua stessa radicalità, sfociò nella negazione; poi con la teoria dell’Eterno Ritorno, che egli concepì appunto come religione e di cui si pensava, sia pure con raccapriccio, destinato ad essere il maestro.
Ma l’Eterno Ritorno era contraddittorio. Pensato come stimolo a una vita degna, di cui ci si potesse compiacere per l’eternità, dunque come incitamento morale, guardava al futuro ma saltava il passato. Infatti, se l’Eterno Ritorno è veramente eterno, la nostra vita attuale non è che la pedissequa ripetizione di quella che è dall’eternità e tale sarà per l’eternità, immutabilmente. Dunque nessuno sforzo per il suo miglioramento è possibile e ha senso. In tal modo il progettato incitamento morale si capovolge in deprimente fatalismo. Pertanto l’Eterno Ritorno, come religione, non funzionava.
Funzionava invece quello che egli, in opposizione a Schopenhauer, chiamava il “pessimismo dionisiaco” o pessimismo della forza. A patto però di distinguere i due elementi che erano in esso intrecciati. Il dualismo in filosofia è di solito un problema. Ma qui esso è la soluzione. Il dualismo ha in effetti due corni: l’essenza divina e beatificante della vita e le condizioni di esistenza, che possono essere ostacolanti e impedienti fino all’orrore. Nella vita, negli esseri, le due cose si fondono e confondono, ma sono diverse e vanno distinte. L’una non tocca l’altra.
A questa scoperta, illustrissimo e caro Eco, se ne aggiungono nel libro altre, fatte continuando il lavoro dei “miei” autori. Se Lei, magari spinto dalla bella recensione del sedicente incompetente La Capria, dovesse, potesse e volesse, con opera di santità, leggere almeno in parte il libro, cioè accettare questa seconda sfida, dopo quella delle Eterodossie crociane, allora due sono i casi: se Lei trova che il libro non è che uno dei tanti magari buoni che girano attualmente in Europa, bene, la finisca lì; se invece trova che in Europa non gira un libro con un simile carico di intuizioni e scoperte, che sia altrettanto vasto e profondo, chiaro semplice e solido, allora, per piacere, ne scriva qualcosa, perché solo a Lei e a Repubblica e a L’espresso i giovani credono, non al Corriere: i giovani che sono i soli veramente aperti alla filosofia.
Voglia, ripeto, perdonarmi per tutte queste vanterie e pretese, ispirate certo  anche dal bisogno dell’artigiano di veder riconosciuto il suo lavoro, dunque dalla vanità, ma soprattutto dal bisogno di vedere che i risultati del lavoro di chiarificazione fatto in tutta una vita di studio e di ricerca arrivino al pubblico.

Sossio Giametta


[1] Max Stirner, Der Einzige und sein Eigentum (L’unico e la sua proprietà), Reclam, Stuttgart 2011, p. 92 (… das Christentum zu vollendeter Wirksamkeit zu bringen, indem sie das “wissenschaftliche Bewusstsein” zum allein wahren und geltenden erhob).

[2] Come ultimo ostacolo Nietzsche non vede Schopenhauer, ma il cristianesimo, che era e restava il suo più grande nemico, e a cui correva sempre il suo pensiero: “Persino il cristianesimo diventa necessario: solo la forma suprema, più pericolosa, più seducente del no alla vita ne sfida la suprema affermazione” (Frammento 25 [7] dicembre 1888-gennaio 1889). Nel frammento 14 [25] primavera 1888 aveva indicato tuttavia in Schopenhauer, oltre che in Vigny, Dostoevskij, Leopardi e Pascal, il principale ostacolo al pessimismo classico o della forza.

[3] F. Nietzsche, lettera del 26 novembre 1888 a Paul Deussen.

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