La fede razionale di Kant

Come sanno coloro che hanno una sufficiente conoscenza della storia del pensiero filosofico, Immanuel Kant rappresenta una sorta di spartiacque tra la filosofia antica/medievale e quella moderna/contemporanea. Sebbene i motivi del suo sistema siano presenti in molti dei suoi predecessori (basti pensare a Cartesio con il principio dell’Io penso, a Berkeley negatore della materia e precursore dell’idealismo fino allo stesso Hume che lo risvegliò dal sonno dogmatico), Kant ha il merito di rendere esplicita e di portare ad  estrema conseguenza l’idea secondo la quale, prima del mondo esterno e degli oggetti reali, la conoscenza è innanzitutto conoscenza della propria coscienza. Confermando che il vero esploratore è colui che è consapevole di aver scoperto un nuovo mondo e non soltanto qualche sua regione, il padre dell’illuminismo ribattezza la sua opera secondo la metafora della rivoluzione copernicana: così come Copernico aveva inaugurato il nuovo mondo scientifico ponendo fine al primato della terra orbitante intorno al sole, Kant pone fine al primato dell’oggetto e del realismo sostenendo il principio secondo il quale sono piuttosto gli oggetti a conformarsi alla struttura dell’intelletto. È dunque necessario, al fine di poter conoscere qualcosa, scoprire i meccanismi attraverso i quali l’essere umano si forma le rappresentazioni del mondo esterno. Le conseguenze di questo approccio sono almeno tre: il primato della coscienza nell’indagine filosofica, la fine della metafisica e l’etica fondata su se stessa.

La rivoluzione di Kant, a dire il vero, fu ben presto contestata dall’idealismo tedesco e in particolare dalla grande triade costituita da Schelling, Fichte e Hegel. Il fatto che la filosofia italiana si sia affiancata all’idealismo assoluto e non a quello trascendentale di matrice kantiana spiega almeno in parte la non eccessiva fortuna del filosofo di Königsberg nel nostro Paese. Stesso discorso per altri filosofi (anch’essi scarsamente studiati) i quali, pur rimanendo all’interno delle categorie kantiane,  hanno cercato di andare oltre i guadagni del suo pensiero e di integrare le scoperte del mondo scientifico con quelle della filosofia. Ci riferiamo a Schopenhauer, il “grande eremita della filosofia kantiana” secondo la definizione di Rosenkranz (il primo curatore degli scritti di Kant), e a tutti quei pensatori riconducibili alla fertile stagione del neo-kantismo, del funzionalismo, dello strutturalismo fino agli stessi sviluppi della neurobiologia. Il rinascere degli studi kantiani nella filosofia contemporanea ha poi mostrato che il Goodbye Kant è ancora lontano da venire.

Al di là di questi aspetti più o meno polemici, la formazione sui testi e sul pensiero di Kant rimane ancora oggi ineludibile per chi cerchi una seria formazione filosofica. Le opere, difficili quanto straordinarie, sono note: le tre Critiche (pura, pratica ed estetica), i Principi metafisici della scienza della natura, il gruppo di scritti sull’etica e sulla religione. Se la vera conoscenza di un autore è fornita (come diciamo da tempo) soltanto grazie al confronto diretto con i suoi testi, di valido aiuto sono in questo caso due monografie: la prima, divenuta quasi un classico, è quella di Otfried Höffe, Immanuel Kant, edita nel 2002 dal Mulino; l’altra di Manfred Kuehn, Kant. Una biografia,  edita nel 2011 sempre dal Mulino (ma l’edizione originale è del 2001) nella quale, in oltre 600 pagine dense di storia e filosofia, si traccia un quadro esaustivo di colui che fu anche definito l’allerzermalmender, lo stritolatutto.

Il saggio del 1786 e la disputa sul panteismo spinozista
C’è un piccolo scritto tuttavia che, anche a  motivo della sua brevità, può essere utile allo scopo di introdurre ad alcune coordinate del suo pensiero. Il titolo è Was heißt sich im Denken orientieren? tradotto nella collana della piccola biblioteca dell’Adelphi a cura di Franco Volpi. Si tratta di un brevissimo saggio scritto da Kant nel 1786 in occasione della controversia tra Mendelssohn e Jacobi nota con il nome di Pantheismusstreit. La vicenda avrebbe bisogno di un approfondimento specifico a causa della sua importanza e degli effetti che ebbe in tutto il secolo successivo. Nata quasi per accidente dalla pubblicazione di uno scambio epistolare tra Jacobi e Mendelssohn circa lo spinozismo di Lessing (l’autentico fondatore dell’illuminismo tedesco il quale, un anno prima della sua morte, dichiarò la sua conversione al panteismo e alla dottrina di Spinoza) la controversia finì per coinvolgere tutta l’Europa. In generale, come spiega bene Volpi nella sua breve quanto efficace introduzione, la disputa assunse il significato di uno scontro tra fede e ragione. Più in particolare, essa ebbe tre grandi conseguenze (e qui ci rifacciamo allo studio classico di Frederick Beiser del 1987, The fate of reason): la prima fu l’introduzione dello spinozismo in Germania e l’inizio della Spinoza Renaissance; la seconda fu l’esplosione e la diffusione del pensiero di Kant; la terza, particolarmente gravida di conseguenze, fu l’inizio della crisi dell’Aufklärung e la concomitante ripresa del pensiero religioso. Nello scritto in esame Kant elabora una risposta che ha tre aspetti teoretici di fondo: l’indicazione della fede razionale, la polemica contro lo spinozismo, la libertà di pensiero.

La fede razionale
Il tema prende spunto dalla confutazione della tesi di Mendelssohn secondo cui per dirigere in modo adeguato il pensiero è necessario l’intervento del senso comune. In realtà, spiega Kant, proprio questo sano buon senso finisce per distruggere la ragione. La dimostrazione viene data attraverso il concetto dell’orientarsi che Kant, non senza contraddizione per la verità, assume avere un connotato esclusivamente soggettivo. Questo principio del ritener vero nasce da un preciso bisogno costitutivo della ragione, che consiste nell’ammettere qualcosa in mancanza di dati oggettivi. Applicato con procedimento analogico l’esempio dell’orientarsi all’ambito filosofico, il diritto della ragione di speculare in ambiti sovrasensibili è ammesso soltanto nel caso di un essere originario primo e ciò a motivo del fatto che esso viene presupposto dalla ragione per consentire il suo stesso funzionamento. Si tratta di una premessa soggettiva e mai oggettiva che dunque serve in senso regolativo o, nei termini del saggio, appunto orientativo. La ragione opera necessariamente come se Dio esistesse in quanto ciò è connaturato al suo stesso modus operandi valevole sia nel campo teoretico sia in quello morale. Kant sottolinea che si tratta non di una conoscenza della ragione ma di un suo bisogno e lo definisce “fede razionale”. In questo modo essa «si fonda esclusivamente sui dati contenuti nella ragion pura» per cui ne segue che «ogni fede è dunque un ritener vero che in termini soggettivi è sufficiente ma in termini oggettivi è cosciente della propria insufficienza». Per questo motivo la fede, ogni fede, viene distinta e contrapposta al sapere. In realtà una fede che può diventare sapere esiste ed è quella storica (ad esempio la morte di un personaggio nel momento in cui sia denunciata dalle autorità e quindi resa pubblica oppure, aggiungiamo noi, la risurrezione di un uomo dimostrata da evidenze inconfutabili). Ma in questo caso, avverte Kant, tale fede perderebbe il carattere dell’immutabilità e quindi della sua saldezza in quanto non è escluso che, attraverso la conoscenza di nuovi fatti, essa sia modificata. Solo la fede razionale è la bussola per orientarsi nel sovrasensibile in quanto «il concetto di Dio e la stessa convinzione della sua esistenza si possono rinvenire solo ed esclusivamente nella ragione». L’idea di Dio non viene fornita né da un’ispirazione né da un racconto e quello razionale è l’unico vero presupposto di qualsiasi fede.

Contro lo spinozismo
In questo discorso le parole più dure sono riservate al sistema di Spinoza. Nonostante sembri affine al suo pensiero, Kant sostiene che lo spinozismo non solo è dogmatico ma, pretendendo di indicare in Dio qualcosa d’altro rispetto ad un ente costituito da puri concetti dell’intelletto, finisce per condurre addirittura all’esaltazione. Si tratta di un giudizio ribadito nel commento allo scritto di Mendelssohn che segue immediatamente il saggio in esame nel quale Kant afferma che quello di Spinoza è un sistema frutto di fantasticheria in cui, in virtù di un dogmatismo arrogante, prima viene eretto e poi abbattuto lo stesso principio di un essere sommo. In una lettera a Jacobi infine (contenuta anch’essa in quelle comprese nella raccolta) Kant si spinge ad accusare Spinoza di sincretismo e di mancanza d’onestà. Una valutazione che rinnova di fatto l’accusa di  ateismo misto a vaneggiamento nei confronti del filosofo ebreo-olandese.

La libertà di pensiero
Il problema, come affermato nelle pagine finali, è che se vincesse il metodo di chi privilegia un approccio diverso da quello della fede razionale ne sarebbe inficiata la stessa libertà di pensiero: e ciò comprende il caso non solo di tutte le altre fedi ma anche dello stesso spinozismo il quale, da una parte, concepisce l’impossibilità di un oggetto per la ragione ma, dall’altra, ne riconosce la realtà in base ad altre fonti. Per questo motivo, Kant enuncia tre grandi principi:

  1. la libertà di pensiero è intimamente legata alla libertà di espressione, sicché un potere politico o sociale che impedisca la seconda finisce di fatto per privare anche la prima;
  2. ogni condizionamento precoce degli animi costituisce un impedimento ad ogni indagine autonoma;
  3. la libertà di pensiero deve essere intesa come la ragione che si sottomette solo ed esclusivamente alla legge che essa si dà in quanto, altrimenti, deve piegarsi alle leggi imposte da altri.

Dall’ipotesi di una ragione lasciata al genio e all’ispirazione derivano una serie di effetti deleteri: prima l’esaltazione, poi la superstizione fino a giungere alla stessa incredulità consistente nella rinuncia alla fede razionale, rinuncia che concretizzerebbe una vera e propria “incredulità della ragione”. Ma ciò non basta: il libertinismo, generato da una ragione che rifiuta di essere legata a qualsiasi legge, provoca la reazione dell’autorità costituita la quale, preoccupata degli effetti di questa situazione, finisce per sopprimere la stessa libertà di pensiero.

Lo scritto si conclude con un appello a pensare da sé, ovvero «a cercare in se stessi (cioè nella propria ragione) la pietra ultima di paragone della verità» nel che consiste la quintessenza  dell’illuminismo. Con un avvertimento: se è facile radicare l’illuminismo nelle singole persone, più difficile è educare un’epoca a causa delle mille difficoltà che ostacolano questo compito.

Con questo saggio Kant si dimostra ancora una volta intransigente difensore della ragione, lasciando aperta la possibilità di una fede sebbene circoscritta nei suoi limiti. Si tratta di una posizione che si colloca a metà tra quella di Jacobi (che propugnava il “salto della fede”) e quella di Lessing/Mendelssohn (che riconoscevano, sulla linea di Spinoza, la possibilità che la ragione giungesse a conoscere Dio). Nel versante dell’ortodossia quella di Kant è una fede inaccettabile per i cattolici ma compatibile con la fede protestante. Nel versante razionalista ci si interroga se la ragione kantiana costituisca un modello sostenibile o se sia ancora troppo debole contro i “cannoni della fede”.

Dal nostro punto di vista, l’idea di una ragione che è guida ma allo stesso tempo necessariamente erronea nelle questioni metafisiche ci sembra molto simile all’immagine di un ipovedente che guida un altro ipovedente. Ma in un mondo fattosi di nuovo cupo e preda delle follie più disparate, anche la guida di un cieco razionalmente accorto sarebbe oggi più che auspicabile.

Foto di Andreas ***** su Unsplash

Questo articolo è stato pubblicato la prima volta su Ritiri Filosofici il 22 febbraio 2015.

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