Il principio di non contraddizione maschera del nichilismo

La filosofia di Emanuele Severino, che prenderemo in esame in modo sistematico da oggi e nei prossimi articoli per meglio fissare i dialoghi del ritiro filosofico svolto la scorsa settimana, è prima di tutto una grande filosofia dell’ente, il concetto con il quale gli uomini hanno pensato e pensano la cosa. L’ente è il determinato (tode ti), una cosa, questa stanza, questo mio scrivere, la storia: tutto ciò che implica la negazione di altro secondo il principio omnis determinatio est negatio. L’ente, o la cosa come preferisce dire Severino, è pensata come ciò che oscilla tra due ambiti tra loro irrevocabilmente separati: l’essere e il niente. Questa oscillazione dell’ente è ciò in cui per Severino consiste propriamente il nichilismo, ovvero l’idea che la cosa è niente sia nel momento in cui è niente, sia nel momento in cui è non-niente che, in quanto tale, è niente.

Il doppio nichilismo di Severino e gli altri nichilismi
Per comprendere il significato autentico della distinzione tra essere e niente, Severino, nella convinzione che quello di Platone non era stato un delitto ma un semplice ferimento, ritorna a Parmenide per ripetere il parmenicidio: non basta affermare che l’essere è e non può non essere se questo si accompagna, come predica l’eleate, all’illusione della molteplicità degli enti. All’affermazione dell’essere infatti si deve aggiungere la dimostrazione che tutti gli enti determinati sono reali ed eterni. Il problema allora è l’esatta comprensione del divenire. In che modo infatti avere consapevolezza che l’evidenza suprema, cioè l’andare nel nulla di tutte le cose, è pura follia? Nel riformulare il significato del divenire, Severino distingue due tipi di nichilismo: uno in cui regna la persuasione che l’ente è niente, definito come nichilismo della cosa in sé, e un altro in cui si è certi che l’ente non è niente, definito come nichilismo fenomenico. Utilizzando un linguaggio tratto dalla psicanalisi, il nichilismo della cosa in sé viene definito anche come inconscio mentre il nichilismo del fenomeno viene detto del preconscio. In questa seconda forma il nichilismo si presenta in forma rovesciata (in altre parole il niente è sotteso nel momento in cui si afferma che l’ente non è niente) a causa della convinzione di fondo relativa al senso della cosa, intesa come oscillazione tra l’essere e il niente. Sulla base di questo secondo nichilismo, legato con necessità alla certezza inconscia e affiorante soltanto in superficie, si struttura il principio di non contraddizione il quale, nonostante intenda affermare che l’ente non è niente, è la maschera che copre la persuasione della nientità dell’ente.
Per comprendere l’autentica portata del concetto di nichilismo in Severino si rende necessario non solo quanto precisato sopra ma anche la distinzione con gli altri tipi di nichilismo emersi nella storia. Da questo punto di vista Severino elenca quelli principali: quello di Jacobi che lo fa coincidere con l’idealismo che identifica al niente la realtà esterna e indipendente al pensiero; quello di Nietzsche in cui il nichilismo è la morale e la stessa filosofia in quanto non riconosce l’autonomia dell’esistenza della terra ponendo nell’al di là il fondamento e il valore di ogni esistenza; quello di Heidegger, che intende il nichilismo come la dimenticanza dell’essere dell’ente inteso come aletheia, disvelamento, apparire, dove il nichilismo è la stessa metafisica intesa come progetto di manipolazione dell’ente. A questo proposito bisogna comprendere a fondo la distanza che intercorre tra il nichilismo di Heidegger e quello di Severino. Per il primo il niente si manifesta nell’ente tanto che entrambi si tengono per così dire mano nella mano: proprio nell’essere dell’ente avviene il nientificare del niente. Heidegger punta il niente, vero “oggetto” della sua filosofia. Per Severino al contrario l’ente è apparizione dell’essere ed il nichilismo (che le concezioni sopra indicate non risolvono perché ribadiscono soltanto la nientità di ciò che altri ritengono esistente) finisce per essere un problema ancora non risolto dalla cultura odierna la quale, per questo motivo, ne è interamente dominata: la fede nell’esistenza nel divenire, cioè nella nientificazione degli enti, si erge nel pensiero contemporaneo come verità ultima ed indiscutibile.

La verità come episteme e la verità come destino
Come sanno coloro che coltivano i testi di Severino, la fede nel divenire è il presupposto del crollo di qualsiasi episteme che voglia bloccarlo o imprigionarlo all’interno di una verità definitiva. Allo stesso tempo, il nichilismo inconscio (la persuasione latente secondo cui l’ente è niente) è la condizione della possibilità che la nientità dell’ente sia accettata all’interno di ciò che il pensiero chiama verità. Essa, parola chiave per la filosofia, appare dunque compromessa in quanto non ha più quel significato positivo che aveva ricoperto nel corso del pensiero filosofico. Anzi, anche in questo caso si determina un rovesciamento: la verità tradizionalmente intesa è fede, ovvero il tenere per vero, certezza, che, in quanto tale, è incapace di scrollarsi di dosso qualsiasi contraddizione perché essa stessa contraddizione. Di fatto, la verità dell’episteme altro non è che nietzscheana volontà di potenza. Severino tuttavia assegna al senso della verità il nome nuovo di destino che indica propriamente ciò che riesce a stare al di fuori dell’isolamento della terra. Definito come negazione della propria negazione (cfr. Severino 1992, 167-173), o meglio come sintesi originaria tra l’apparire dell’esser sé dell’essente e l’autonegazione della negazione dello stante (Severino 2009, 39), il destino, oltre a non avere nulla a che vedere con il concetto di fatalismo (così come viene comunemente inteso), si trova in una situazione del tutto particolare rispetto alla fede, cioè al nome con il quale viene indicata ogni contraddizione: sebbene separati dal punto di vista della loro essenza, destino e fede (cioè appunto verità e contraddizione) si trovano a convivere. Ciò significa che la verità vive ora nella contraddizione che di essa è parte costitutiva: si tratta di un tema scandaloso quanto decisivo con il quale si deve fare i conti per comprendere il sistema filosofico di Severino.

Essere nella follia o essere nella verità?
Come si è detto in precedenza, nel principio di non contraddizione la nientità dell’ente resta affermata proprio nell’atto in cui la si vuole escludere nel modo più perentorio. La cosa è dominata dalla persuasione abissale della sua nientità di cui il principio di non contraddizione è la formulazione più rigorosa e mascherata, nonché luogo originario dove la nientità dell’ente sta al fondamento dell’opposizione dell’ente al niente. (Severino 1972, 269-27). Facendo perno sulla definizione contenuta nel quarto libro della Metafisica di Aristotele, Severino ricostruisce il principio di non contraddizione in tre passaggi: come premessa si tratta di un principio assiomatico o apofantico che deve essere presupposto; come contenuto esso si definisce come la cosa che conviene o non conviene rispetto ad un medesimo tempo, indicazione che si riassume in modo più semplice in quella per cui una proposizione non può essere vera e falsa allo stesso tempo; come conseguenza, cioè nell’impossibilità di trovarsi in errore, ovvero nel convincersi di ciò di cui il principio è negazione.
In merito a questo terzo passaggio, si devono distinguere due aspetti del discorso, veri e propri corni da cui partono due diverse argomentazioni: da una parte quella relativa alla confutazione della negazione del principio; dall’altra quella dell’impossibilità dell’esistenza del contraddirsi, dove cioè il negatore del principio crede di essere negatore del principio. La confutazione della negazione (il primo corno del discorso) suona più o meno in questo modo: se io nego il principio di non contraddizione (dicendo ad esempio che questo tavolo è allo stesso tempo sia nero che bianco) pongo a mia volta un’asserzione determinata che finisce per confermare il principio. Si tratta dell’argomento preso in considerazione dalla maggior parte dei pensatori. Tuttavia il principio aristotelico (definito come elenchos) è più ampio e Severino prende in esame anche e soprattutto il secondo aspetto dell’argomentazione, quello cioè relativo a chi crede di essere negatore del principio. In questo caso infatti viene in rilievo la posizione di colui che non sa esprimere nel proprio linguaggio il proprio essere nella verità: Aristotele, quasi liquidando il problema, dice che «non è necessario che uno ammetta veramente ciò che dice» (Metafisica, IV, 1005b, 25-26). In altre parole è impossibile l’errare, ovvero è necessario essere sempre nella verità. Ma allora, si chiede Severino, come è possibile la tesi secondo cui la storia dell’Occidente è follia? Si tratta di un problema che Severino affronta in maniera particolarmente seria se è vero, come è vero, che la discussione del senso e della portata dell’elenchos è il fondamento di tutti i suoi scritti (Severino 2008, 91). La soluzione a questo problema è la chiave d’accesso alla successiva elaborazione del sistema in quanto «ogni contraddizione, anche la contraddizione del nichilismo, si manifesta all’interno della negazione del nichilismo, e cioè si manifesta all’interno della verità. Per quanto radicale possa essere un’alienazione, è necessario che essa appaia all’interno della negazione dell’alienazione, cioè che appaia all’interno della verità» (Severino 2009, 249 e ss.), il che significa che è impossibile che appaia un individuo se non appare il destino della verità: la contraddizione può apparire solo se è negata ed essa non può mai apparire in forma pura, ma soltanto in forma rovesciata. Severino tiene a sottolineare che il suo va ben oltre qualsiasi atteggiamento fenomenologico (Severino 2009, 271) perché il rimando alle cose, ben lungi dall’essere il mero apparire, è in realtà il rimando all’eternità in cui consiste l’essenza di ogni essente. In altre parole si tratta piuttosto di osservare che quello che si crede che si dia (ad esempio, il diventar altro della legna in cenere) in realtà non si dà (quello che si dà infatti è l’iniziare ad essere della cenere): nel primo caso infatti si finisce per identificare la legna alla cenere, nel secondo si osservano tanti essenti diversi gli uni dagli altri.

L’impossibile costituzione dell’individuo o del “mortale”
Capire Severino significa capire un sistema filosofico che pone a suo radicale fondamento la relazione esistente tra il tutto e la parte. In questo contesto l’individuo, cioè la parte, è una sorta di scheggia impazzita che pretende di fare a meno del tutto in cui abita e da cui viene nutrita. L’individuo è il contrasto tra l’isolamento e il destino della verità e il linguaggio che lo nomina esprime esattamente questa contesa: «Noi siamo il contrasto tra l’apparire del destino e la persuasione isolante, ossia l’isolamento della terra. Noi siamo questo contrasto, noi siamo questa contesa, noi siamo questa contraddizione» (Severino 2009, 290). Ci si domanda allora: perché l’individuo (nel linguaggio di Severino il “mortale”) esiste come persuasione del divenir altro, cioè della follia estrema, che per Aristotele non si costituisce? Quali sono in altre parole le condizioni dell’errare? La risposta è chiara in quanto ogni apparire dell’essente ha come predicato l’apparire del destino della verità e il destino è il predicato di ogni essente: se ciò è vero, l’apparire dell’individuo, inteso come totalità di ciò che appare, non è mai l’apparire di un essente ma errore che si manifesta nella verità.

Riferimenti bibliografici

  • Severino, Emanuele. 1972. Alienazione e salvezza della verità in Essenza del Nichilismo. Brescia: Paideia.
  • Severino, Emanuele. 1992. Oltre il linguaggio. Milano: Adelphi.
  • Severino, Emanuele. 2008. La tendenza fondamentale del nostro tempo. Milano: Adelphi (seconda ed.)
  • Severino, Emanuele. 2009. L’identità del destino. Lezioni veneziane. Milano: Rizzoli.

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Insegnante con dottorato di ricerca in Filosofia. Vive e lavora a Nocera Umbra, autore del podcast che prende il nome dal suo motto: Hic Rhodus Hic salta.

7 Comments

  1. Ho letto affascinata sia l’articolo che l’intero sviluppo delle argomentazioni, con una vaga vertigine da “non addetta ai lavori”. Tuttavia, in qualche intuitivo e certamente poco razionale luogo della mia mente, resta la luce riflessa del lampo del pensiero severiniano. Sintetizzo qui, e mi scuso per la pochezza logico-argomentativa che giustifico e tento di compensare con una specie di intuizione sintetica!, una mia breve impressione che, leggendo laboriosamente alcuni testi di Severino, non smette di riaffacciarsi alla mia poco filosofica mente. Eccola di seguito.
    Spesso, considerando concetti come “destino”, “necessità”, “errore” ed “errare”, o anche “abitatori della Terra”, e soprattutto “Gloria”, non riesco a non pensare ad altri contesti filosofici o comunque ruotanti intorno al termine ultimo “Verità” contenuti nel Cristianesimo (forse sarebbe più adatto dire “gesuanesimo”!) e nel pensiero teologico/filosofico orientale. Infatti termini come “Regno dei Cieli”, “Padre”, “Brahman”, “Ayin”, e moltissimi altri – insomma dai Veda con le Upanisad che li completano fino ai Vangeli – ecco, non riconducono questi forse a quella “necessità” del “destino” dei cosiddetti mortali, anch’essi “enti”, di ricongiungersi all’Ente che tutto comprende, e in questo toglie ogni contraddizione, essendone da sempre congiunti? (Vedi anche le parole di Gesù quando dice “Prima che Abramo fosse, io Sono” o il Budda che considera l’universo un’entità vivente infinita?). E, la morte nel suo significato originario di “mutare”, non è forse una sorta di compendio della trasformazione che non è divenire ma, da sempre, da prima che noi fossimo, destino e Gloria da sempre esistenti nell’Essere che, incontraddittoriamente, appare? Queste antiche o antichissime filosofie non fanno anch’esse parte, come costellazione eterna, del pensiero severiniano?
    Chiedo venia ai precedenti commentatori per questo mio rudimentale argomentare, ma mi sostiene un interesse sincero per la ricerca della verità.
    Sarei davvero felice se, compassionevolmente o anche ironicamente perché no, qualcuno portasse lumi ai miei nebbiosi quesiti …

    1. Cara Cristina, grazie innanzitutto per il tuo commento. In filosofia, come sai, le parole sono degli strumenti (a volte inadeguati o addirittura fuorvianti) di cui il pensiero si serve per significare determinati concetti. Capita così che le medesime parole possono indicare dei pensieri diametralmente opposti o comunque diversi tra loro. E’ il caso ad esempio di un autore a noi caro come Spinoza che, per riferirsi a determinati concetti, usa i medesimi termini che la tradizione filosofica e teologica assegna a tutt’altro genere di significati (vedi il caso del termine Dio o di Provvidenza). Lo stesso avviene nel caso di Severino. Vorrei a questo proposito indicarti due articoli del nostro Saverio Mariani che, in merito a questo aspetto, possono aiutarti a fare luce sulla questione. https://ritirifilosofici.it/note-su-alcuni-termini-del-linguaggio-di-severino-i/ e https://ritirifilosofici.it/note-su-alcuni-termini-del-linguaggio-di-severino-ii/. Grazie e a presto!

  2. Un’ultima osservazione, che farei proprio sulla scorta del titolo “Il principio di non contraddizione maschera del nichilismo”.

    Mi chiedo, infatti, se le aporie (che, per quanto mi riguarda, sono effettive contraddizioni, che Severino fa passare per necessità) del discorso severiniano non siano riconducibili essenzialmente alla “riduzione” dell’incontraddittorio (essere, assoluto, infinito, identità) alla sua formulazione dimostrativo-elenctica ossia il cosiddetto “principio di non contraddizione” ed alla struttura oppositivo/negativa di questo.

    Infatti, la struttura oppositiva (ed opposizione è relazione, la quale Severino vorrebbe fosse originaria, mentre a me appare, sulla scia di Hegel direi, l’ipostasi stessa della contraddizione) è precisamente la struttura mediante cui si svolge la confutazione (élenchos) del negatore del principio.

    Il punto è questo: la negazione del principio (essere, incontraddittorio) – mediante il cui toglimento, l’innegabilità del principio è restituita – deve apparire, altrimenti nessun élenchos si avvierebbe e si realizzerebbe.

    Ebbene, anche dire che tale negazione (che, poi, è la stessa contraddizione, lo adynaton, l’impossibile) si riduce ad autonegazione risolve il seguente problema: la contraddizione – che viene posta come negata nell’élenchos – che statuto ha?

    Se essa è solo IPOTETICA (tentata), allora anche il suo toglimento resta a livello meramente ipotetico, sicché il principio (l’incontraddittorio) non viene mai realmente negato; proprio per questo, la sua validazione resta limitata al mero piano ipotetico, non tetico, non tale da esibire valenza trascendentale.

    Se, viceversa, la contraddizione appare REALITER, allora anche il suo toglimento sarà reale, e la validazione del principio tetica e trascendentale… senonché, essa lo sarà al prezzo di essere già stato effettivamente violato!

    Da questo punto di vista, ad essere contraddittorio è lo stesso “principio di non contraddizione” e la riduzione (identificazione) dell’incontraddittorio alla sua dimostrazione elenctica (appunto il cosiddetto “principio di non contraddizione”).
    Il nichilismo più radicale e subdolo, nonché contra mentem, è, forse, proprio questo – che è, poi, la riduzione dell’essere (intero metafisico) a totalità “fisica” delle determinazioni (interamente presupposte) dell’intero: il più radicale tradimento di Parmenide, il quale tutto era meno che immanentista, a mio modo di vedere (da rigorizzare nel “venerando e terribile” Eleate sarebbe, semmai l’immediatezza con cui l’essere – che non è nessun ente essendoli tutti, che è tutti gli enti proprio perché irriducibile ad “ente”, quindi inoggettivabile, indeterminabile, sia pure in senso semantico: pretesa di Severino, da coerente pensatore neoscolastico, ma del tutto vana e contraddittoria… ché anche la semantizzazione “è”, ricade nell’essere – è formulato).

  3. 3) Infine: l’errore viene posto come negato dalla (e nella) Verità dell’essere, oppure la Verità nega che l’errore mai si ponga?

    Perché, se l’errore è posto (quindi eterno: coeterno al Vero e, in quanto coeterni, Vero e falso NON si distinguono affatto, appunto perché ad entrambi conviene d’essere essenzialmente eterni!), sia pure come tolto, ebbene, allora non è veramente negato (tolto): infatti, è posto.

    In tal senso il Vero severiniano è contraddittorio esso stesso: non si porrebbe senza il porsi e venire negato del suo (impossibile!) opposto – il quale, in verità, non è nient’affatto opposto, semplicemente perché il Vero nega che il falso (negazione impossibile del vero) si ponga, quindi non si pone nemmeno come negato.

    Il falso (il negativo) non è, pertanto, opposto al vero (positivo) ma “opposto a sé” ( = incapace di opporsi, perché incapace di porsi): il negativo coincide con l’opposizione stessa, che quindi, avendo un solo “termine”, non si costituisce mai. Altro che innegabile!
    Altro modo per dire che positivizzare il negativo (e, viceversa, negativizzare il positivo) nella pretesa “opposizione originaria” dei due, è una, anzi LA contraddizione, non certo la “legge dell’essere”.

    Con ciò non si sta dicendo che la verità (positivo, essere) non neghi il falso (negativo, nulla), bensì si sta dicendo che essa non coincide con tale negazione: la verità nega il falso, perché è verità innegabilmente, ma non è verità perché nega il falso!

    Grazie sin d’ora, un cordiale saluto.
    Marco

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  4. 2) Inoltre, la (cito) «relazione esistente tra il tutto e la parte» a mio avviso, semplicemente non è relazione affatto, perché né parte né tutto sono, a rigore, “termini” di tale asserita relazione (che, quindi, è fallace, è mera costruzione semantica, non logica).

    La “parte” non avendo alcuna autonomia ontologica rispetto al tutto, non è in grado di costituirsi come termine di relazione distinto dal tutto; il “tutto”, a sua volta, per essere termine relato, dovrebbe essere de-terminato: ma un “tutto determinato” è una banale contradictio in adjecto.

    La relazione parte-tutto “è” (meglio: “sarebbe”) la parte stessa!
    Ora, che la parte “sia” (riesca a costituirsi), sarebbe da dimostrarsi, non da assumersi immediatamente: e ciò rimanda, di nuovo, all’aporia della divisione (partizione) dell’intero, che risulta inintelligibile (come agevolmente si può esplicitare e, se richiestomi espliciterò argomentando meglio).

    Ciò fa tutt’uno con la pretesa che la totalità appaia, che l’infinito appaia finitamente: se “apparire” (che implica lo ALTRO, a cui si appare – apparire postula distinzione, appunto alterità tra “ciò che appare” e “ciò a cui appare”… altrimenti, si sta abusando in modo sofistico della nozione di “apparire”!), apparire è, come tale, già e soltanto finitezza (alterità implica la determinazione/divisione dell’intero, appunto).
    Ma, allora, parlare di apparire dell’intero è POSTULARE, PRESUPPORRE proprio ciò che si dovrebbe dimostrare: che l’intero si divida, si distingua in sé e altro da sé, per apparire a se stesso.

    “Apparire a se stesso” è la CONTRADDIZIONE di un sé (appunto: intero) che sarebbe sé (intero) epperò altrettanto e sub eodem, giocoforza, anche altro-da-sé (non-intero), in se stesso e restando se stesso: è dire che l’essere è uno e non-uno, medesimo e non-medesimo, che l’uno è anche due (non-uno).

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  5. Vorrei, se mi è lecito (come suggeritomi sulla pagina Facebook di RITIRI FILOSOFICI), porre un paio di domande all’Autore dell’interessante articolo, Maurizio Morini (a cui proporre, se è d’accordo, di darci del “tu”, ringraziandolo sin d’ora per l’attenzione e, se vorrà, per un riscontro dialogico).
    Strutturerei le mie osservazioni in modo essenziale, in tre punti – eventuali approfondimenti ed ulteriori precisazioni nel prosieguo dell’interlocuzione.

    1) Chiedo, anzitutto, dove Severino DIMOSTRI che il molteplice “è” innegabilmente, ovvero dove si DIMOSTRI (e non si MOSTRI solamente: reperto fenomenologico, apparire… su cui ci sarebbe assai da dire, ma lascio cadere, per ora) si dimostri, dicevo, che l’intero (essere) sia incontradditttoriamente divisibile, quindi diviso (intimamente articolato, distinto, strutturato).

    Ché, se si dimostrasse, al contrario, che la divisione dell’intero è logicamente contraddittoria, allora l’assunzione severiniana di un intero diviso (distinto) ossia “ridotto” a totalità delle determinazioni, sarebbe interamente appesa ad un articolo di fede, meramente ipotetica: non solo infondata ma assurda (“follia”)
    E lo stesso apparire, del resto, non solo non verrebbe supportato dal piano logico (il quale, semmai – come stiamo facendo – lo questiona in toto) ma, anzi, verrebbe proprio dal logos falsificato, venendo l’apparire giudicato come non attestante alcun essere *in modo necessario*, cioè venendo revocato irrimediabilmente in dubbio che esso sia sempre e comunque apparire-dell’essere (infatti, che qualcosa appaia non significa *immediatamente* – come se questa immediatezza equivalesse ad *innegabilità* – che ciò che appare anche “sia”, e, quindi, che quello stesso apparire sia autenticamente, veramente “apparire”, anziché mera parvenza cioè apparire senza essere… ché, di certo, appare ineliminabilmente anche l’errore, che è appunto parvenza, inessenza: nel caso dell’errore, del falso, non vi “è” nulla che appaia, quindi nemmeno effettivo “apparire”).

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