In Platone il mito è l’esposizione di un pensiero attraverso le immagini che consente quindi una maggiore e più profonda comprensione del primo. Potremmo dire che il filosofo greco nei suoi dialoghi usa il mito in chiave didattica e per estendere l’indagine razionale con l’intento di farle superare i limiti stessi del pensiero razionale. Ecco allora che indagare il rapporto tra filosofia e cinema è tentare di analizzare due aspetti che nascono già associati fin dall’inizio del pensiero occidentale. In questa serie di articoli si ricostruirà tale rapporto che ha caratterizzato molto la filosofia del ‘900, seguendo l’evoluzione del mezzo cinematografico e lo sviluppo del pensiero filosofico.
«Le cinema est la plus belle escroguerie du monde» afferma Jean-Luc Godard, uno dei massimi rappresentanti della nouvelle vague, movimento cinematografico francese nato con l’idea precisa di rivoluzionare il mezzo cinematografico. E come sarebbe possibile pensare altrimenti al cinema se non in termini di truffa, illusionismo e impressione? In fondo nessun’altra arte ha la pretesa di riprodurre la vita, il suo svolgersi e divenire, creando l’illusione della vita. Neppure la fotografia ci riesce, altra innovazione artistica ottocentesca, mancandole la caratteristica della riproduzione del movimento. Neppure il teatro raggiunge lo scopo, legato com’è al palcoscenico. La stessa parola cinema deriva dal greco κίνημα, che significa appunto moto, movimento. Tanto è vero che la prima cosa che viene in mente ai fratelli Lumière quando si trovano a dover filmare per la prima volta qualcosa che dimostri la validità della loro creazione, è quella di andare a riprendere degli operai che escono da una fabbrica. Ma l’idea di riprodurre il movimento è sempre stata al centro della ricerca scientifica e tecnologica.
Breve storia del cinema
A differenza di ciò che si dice abitualmente però, ad inventare il cinema non furono i fratelli Lumière ma Thomas Alva Edison, il quale progettò una macchina che per la prima volta era in grado di riprodurre il movimento della realtà. Edison, infatti, è il creatore del kinetoscopio, una macchina che riproduce un piano sequenza di massimo 60 secondi e permette ad un solo spettatore di poter usufruire della visione. Edison prende una pellicola flessibile di celluloide da 70 mm di larghezza già presente sul mercato, la taglia a metà e la dota di un set di quattro perforazioni per ogni fotogramma e la mette dentro uno scatolone di legno, il kinetoscopio appunto, dove questa viene proiettata e riavvolta continuamente. Edison intuisce immediatamente le potenzialità economiche dell’invenzione e inizia a produrre questi mobili di legno dentro i quali lo spettatore osserva lo svolgersi della pellicola da uno spioncino. Preso dall’entusiasmo però si dimentica di depositare il brevetto (cosa assai strana per un uomo d’affari attento e scrupoloso come lui) e ciò porterà all’emersione di tante contraffazioni ma anche di miglioramenti nella tecnologia e numerose cause intentate proprio da Edison nel tentativo di contrastare l’utilizzo improprio della sua creazione. È questo il caso dei Lumière.
Di passaggio a Parigi nel 1894, Edison organizza una dimostrazione pubblica della sua invenzione alla quale assistette incuriosito anche Antoine Lumière, padre di Auguste e Louis, che, tornato a Lione, invita i figli a progettare un apparecchio simile al kinetoscopio. Ed ecco che i fratelli si mettono al lavoro e tirano fuori quello che diventerà il cinematografo. I Lumière capiscono che il limite dell’invenzione di Edison sta nel fatto che la visione è unica, soggettiva, ognuno può guardare singolarmente e soprattutto una volta messi una serie di fotogrammi in movimento nella macchina non è possibile cambiarli; quindi, è molto scomodo da trasportare e non si può cambiare lo “spettacolo” che si sta osservando. Partendo dall’invenzione di Edison, i Lumière tolgono il motore elettrico e ci aggiungono la manovella e inseriscono la pellicola in un rullo trasportabile: in pratica inventano il proiettore che ha alcuni, notevoli, vantaggi. Prima cosa è facilmente trasportabile, si può cambiare programma quando lo si desidera e la visione può essere estesa ad un pubblico molto più ampio visto che le immagini vengono proiettate su un grande telo appeso al muro. Così il 28 dicembre 1895, al Salon Indian du Gran Café di Parigi, i due fratelli presentano al mondo la loro invenzione, con 33 spettatori paganti che partecipano a questo nuovo spettacolo, tra cui anche due giornalisti. Grazie ai giornali, infatti, il passaparola è velocissimo e le proiezioni iniziano a fare il tutto esaurito. Il successo diventa mondiale nel giro di pochi mesi.
C’è solo un piccolissimo problema: i Lumière non credono nella loro invenzione. I fratelli, infatti, pensano che il cinema non abbia futuro, cioè non lo vedono come una possibile forma d’arte, non ne intuiscono le potenzialità e ritengono che alla fine possa essere utile a livello documentaristico, ma nulla di più. Credono che il cinema abbia valore puramente scientifico ma non ha nessuna possibilità nel mondo dello spettacolo. Nel giro di pochi anni però le cose cambieranno. E saranno due diverse personalità a dare una svolta. La prima personalità è Georges Méliès, mago e illusionista all’apice del successo ai primi del ‘900. Sarà lui ad offrire ad Antoine Lumière una cifra spropositata per acquistare il brevetto del cinematografo, ma Antoine rifiuterà in modo paternalistico. Méliès però intuisce che con il cinema si può fare altro che riprendere i proletari all’uscita dal lavoro o un treno che arriva in stazione: si può creare illusione. Il mago francese si procura una macchina di produzione inglese, acquista della pellicola Eastman vergine da 70 mm che costa uno sproposito, taglia la preziosissima pellicola in due e inventa una macchina che crea una fila di perforazioni rettangolari su entrambi i lati della pellicola. Il contributo di Méliès è fondamentale: con lui nasce il concetto di montaggio classico e l’introduzione di effetti speciali come la doppia esposizione, la dissolvenza e l’arresto di ripresa. Nel 1902 Méliès gira un film capolavoro: Viaggio nella Luna, celebre per la scena della navicella a forma di proiettile che si conficca nell’occhio della Luna.
L’altro personaggio di questa storia sulla nascita del cinema è l’inglese George Albert Smith che nel 1900 realizza un filmato dove introduce elementi nuovi e assolutamente fondamentali per trasformare il cinema in un linguaggio nuovo e immaginifico. Con Grandma’s Reading Glass e con i suoi 120 secondi si ha l’inserimento del montaggio alternato e della soggettiva, raccontando la storia di un bambino che osserva il mondo attraverso le lenti da lettura della nonna che deformano tutto quello che ha intorno. Da questo momento in avanti il cinema diventa qualcosa di completamente nuovo, qualcosa in grado di creare quell’illusione e quell’idea di movimento che avevano sempre affascinato l’essere umano. Ma ovviamente questo non basta a spiegarne il successo. Nel 1906 il mezzo cinematografico subisce la sua prima grande crisi: le storie sempre uguali avevano stancato il pubblico. L’uscita dalla crisi sarà il cinema narrativo, quello del racconto per immagini con meno descrizioni e che impegna lo spettatore in uno sforzo di interpretazione di ciò che sta guardando. Il cinema diventa una forma d’arte, anzi – per l’esattezza – la settima arte, da quando un critico e scrittore italiano nel 1921 intuisce che il cinema avrebbe sintetizzato il tempo come dimensione e lo spazio come estensione.
Il “cinema” degli antichi
Nel libro VII della Politeia, Platone racconta il celebre mito della caverna e sembra quasi descrivere una sala cinematografica. Scrive il filosofo di Atene:
«dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di veder costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini» (Platone 1982, 229)
Questi schiavi incatenati potrebbero solo vedere di fronte a loro le ombre proiettate sul muro. Quegli uomini, continua Socrate nel suo racconto, somigliano a noi perché se potessero parlarsi chiamerebbero le loro visioni oggetti reali. Quegli uomini somigliano a noi che seduti di fronte allo schermo del cinema restiamo incatenati a quella visione che riteniamo reale, anzi forse meglio ancora della realtà, e non ce ne vorremmo mai staccare. Certo al tempo di Platone il cinema era ancora un’idea lontana, ma il bisogno dell’uomo di illudersi e di entrare in una realtà altra era già fortissimo.
Nella filosofia antica è possibile trovare anche un’altra anticipazione involontaria dell’arte cinematografica: il paradosso di Zenone di Elea della freccia scoccata. Zenone utilizza l’argomento della freccia per negare la realtà del movimento ma è innegabile che questa sia invece una chiara anticipazione di come funzionerà la pellicola per creare movimento. Ogni fotogramma, infatti, occupa una posizione fissa, proprio come la freccia che occupa uno spazio in cui è sempre immobile. È solo il nostro occhio che vede il movimento, vista la velocità con cui si susseguono le immagini e gli spazi occupati dalla freccia immobile. Quando fu inventato il cinema occorreva lo scorrere di 18 immagini al secondo per creare il movimento. Ecco perché, visti oggi, molti di quei filmati sembrano poco fluidi e innaturali, mentre oggi la velocità media è di 24 immagini al secondo; 24 immagini (gli fps in gergo tecnico) che il nostro occhio vede con un flusso continuo di movimento, non riuscendo a distinguere i singoli fotogrammi statici.
Le immagini del cinema insomma arrivano a volte ad esprimere concetti con una pregnanza maggiore rispetto alla pagina scritta perché offrono un’esperienza viva, diretta, emotiva che coinvolge direttamente non solo lo spettatore, ma anche colui che sta cercando di capire o di esprimere dei concetti usando le immagini. Il cinema sembra la realizzazione di un sogno, anzi la trasposizione di sogni e proiezioni mentali che prima potevamo solo immaginare. Non a caso i primi brevi filmati di Méliès e Smith ci trasportano in un mondo onirico. Il cinema diventa insomma il respiro dei nostri sogni e delle nostre idee.
Riferimenti bibliografici
- Platone. 1982. La Repubblica, in Opere complete. 1982. Volume VI. Roma- Bari.p. 229.
- Di Giammatteo, Fernaldo. 2019. Storia del cinema. Venezia: Marsilio.
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