“Essere o Non Essere”: non è questo il problema

Nel mese di novembre del 2014, l’Università di Macerata ha organizzato un convegno interdisciplinare dal titolo “Assoluto e Relativo”. Molto apprezzabile mi è sembrato l’intento alla base dell’iniziativa: raccogliere tentativi di ragionamento in termini assoluti, e non assolutistici, per trovare risposte soddisfacenti alle derive relativiste della contemporaneità.

Fin dal primo intervento, si è proposta la domanda fondamentale: “che cosa compete all’assoluto, l’Essere o il Non Essere?” Come ha immediatamente fatto notare il professor Francesco Totaro nel suo intervento Assoluto, relativo, prospettiva, in Occidente è stato Parmenide a dettare la via, mettendo direttamente in bocca alla Verità queste parole:

Quale origine vuoi cercare? Come e donde il nascere? Dal Non Essere non ti permetterò né di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare ciò che non è
(Parmenide, Frammento 8) Continue Reading

Per un paradigma non dualistico della corporeità: l’esperienza del pensiero cinese

Nuova Asia 1600ca

In questo breve scritto cercherò di illustrare come, al di là di alcune correnti filosofiche che si sono avvicendate nel Novecento, esista un modo alternativo e ad esse complementare per sollevare obiezioni a un dualismo tra anima e corpo. Nella prima parte cercherò di avvicinarmi al lavoro di François Jullien mostrando come secondo la sua interpretazione il pensiero cinese abbia percorso una via diversa da quella del dualismo per considerare il rapporto anima-corpo, preferendo una polarità dinamica immanente. Cercherò di insistere sulla possibilità di utilizzare queste risorse concettuali per mobilitare – nella seconda parte – una concezione del corpo diversa da quella tradizionale come sottoposto al canone monopolizzante della bellezza o del meccanicismo, sperando di proporre due tematiche e due possibili linee di riflessione che integrino teoresi e prassi. Continue Reading

Le radici filosofiche del confucianesimo

Prima di proseguire lungo il cammino che ci porterà ad esplorare alcune delle idee e delle suggestioni che – attraversando la Via della Seta –  sono giunte fino in Europa, è indispensabile aprire una finestra sui valori che di quel mondo sono stati il fondamento. Addentrarsi fino alle radici del pensiero orientale non è compito semplice, perciò, risulta quanto mai prezioso affidarci ad una guida esperta. Il confucianesimo di Maurizio Scarpari è senz’altro uno dei testi più adatti per iniziarci alla sapienza del mondo cinese. Una civiltà che al di là dai deserti aridi dell’Asia centrale, ha saputo scavare al proprio interno fino a trovare il seme di una morale capace di tradursi in disegno politico, e da lì, ispirare una storia lunga più di quattromila anni. In un percorso che, lungi dall’averla svilita, all’inizio del terzo millennio la trova anzi, più vigorosa e in salute che  mai, pronta a giocare quel ruolo da protagonista della scena mondiale al quale da sempre si sente vocata. Perché se è vero che tianxia, il mondo sotto il cielo, ha notevolmente esteso i propri confini rispetto a quello delle prime dinastie, è altrettanto vero che a questa Cina non mancano di certo la forza e la mentalità per ergersi a faro. Come andrà a finire sarà solo il tempo a dircelo, intanto però, cominciamo a capire come tutto ha avuto inizio.

Le radici confucianesimo

C’è un legame molto profondo tra la storia del pensiero cinese e la sua matrice mitologica. Esso affonda senza timore le proprie radici nel regno del mito, in una dimensione velata dalla foschia che avvolge l’inizio stesso della civiltà, e da lì, protende i propri rami, carichi di frutti, oltre le nebbie del tempo, fino ai giorni nostri. Ed è già qui che si mostra chiaramente uno dei valori fondanti, del confucianesimo prima, ma in seguito dell’intera tradizione cinese: una concezione del passato come sorgente di saggezza e sapere. 

È proprio dalla fede in questo presupposto che prende forma il pensiero Kongzi (550-479 a.C.), o come abbiamo imparato a conoscerlo noi occidentali, Confucius. Cioè dalla necessità di trovare un appiglio ideologico cui aggrapparsi per fronteggiare e arrestare la degenerazione politica e sociale che ha accompagnato il lento disgregarsi della dinastia Zhou (1046-256 a.C.). Laddove gli uomini contemporanei mostravano segni di debolezza e corruzione, il Maestro trovò nella narrazione – vera o meno che importa – delle gesta dei re-saggi del passato, il seme per fondare una nuova morale capace di guidare l’intera società, verso la virtù. 

Il confucianesimo dunque, è un sistema di pensiero che nasce come risposta ai propri tempi, la formulazione dei presupposti di una vita esemplare – che proprio dalla volontà di seguire un esempio ha origine – regolata da solidi principi etici capaci di condurre l’individuo e la comunità intera, verso l’armonia. Di questa vocazione comunitaria, il corpus degli insegnamenti di Confucio non porrà mai in secondo piano l’importanza, anzi, si può dire senza timore che le raccolte stesse delle sue massime sono frutto di un percorso di confronto e condivisione. È  impossibile infatti, attribuire con certezza al Maestro la stesura delle formulazioni più antiche dei suoi Dialoghi, il Lunyu, e lo è altrettanto affermare che tutto quanto gli viene attribuito sia suo. Tuttavia, il valore di quanto in essi contenuto non viene minimamente scalfito da tale ombra, perché se non fu l’uomo, fu senz’altro il germe contenuto nelle sue riflessioni a dare origine ad ognuna di quelle parole. Tanto basta. Nel desiderio di tramandare e far evolvere il pensiero del Maestro, i suoi allievi hanno reso un servizio prezioso non solo a lui, ma a tutta l’umanità. 

Altrettanto fondamentale nel pensiero confuciano, è la centralità della dimensione umana a discapito della speculazione. Questa matrice pratica, che verrà poi sfruttata dal mondo cristiano, e da Matteo Ricci in particolare, per instillare gocce di fede in una cultura votata all’agire etico, sarà uno degli elementi cardine del proprio successo. Nella Cina degli albori come in quella odierna. Perché è proprio nel suo desiderio di promuovere l’ordine sociale necessario a contrastare le incertezze della politica di allora, che ancora oggi, il confucianesimo, si pone come una forma eccezionale di educazione civica. Ed è in tale veste che ora come allora, ci incalza con la sua capacità di proporre linee di condotta tanto semplici quanto condivisibili e sempre attuali. Qui sta senz’altro il più grande successo del pensiero di Confucio, nell’aver saputo trovare nel passato più remoto i germogli da piantare nel presente affinché un nuovo futuro, un futuro migliore, fiorisca.

La via del dao e la ricerca dell’equilibrio
Che fra le intenzioni di Confucio non ci fosse quella di fondare una nuova religione o di dare vita ad un pensiero mistico, appare chiaramente dalle sue parole: «Dedicarsi a ciò che è giusto per il popolo e mostrare rispetto per spiriti e divinità pur tenendoli a debita distanza, è indice di sapienza». Rimarrà perciò deluso chiunque, in questo pensiero, cerchi una dimensione spirituale analoga a quella che si può invece trovare nel daoismo. Una corrente di pensiero che nasce negli stessi anni del confucianesimo e intorno ad un concetto che anche in questo svolge un ruolo fondamentale, il dao, ma che ben presto, si discostò dalla dimensione umana, in cerca di qualcosa di più.
Che cos’è il dao? Innanzitutto, per poterci avvicinare ad un concetto tanto fluido, è fondamentale chiarire che esso, perlomeno nel confucianesimo, non ha nulla a che fare con la divinità. Essa piuttosto, è riconducibile a Tian, il Cielo. Lungi dall’assegnare sembianze umane dunque, la tradizione cinese ripone nell’elemento naturale che più di tutti sovrasta e veglia sul mondo, il ruolo di simbolo del divino. È proprio da questa entità distante, più simile a un supervisore che a un protagonista delle vicende del mondo, che Confucio impara il valore del silenzio. Già gli antichi saggi  «trattenevano le parole per timore di non riuscire a dar loro seguito nella pratica», tuttavia qui si tratta di un piano diverso. Non è il silenzio del timore, ma quello della consapevolezza che Confucio scopre nel Cielo. Non c’è bisogno ch’egli parli o si spieghi, la sua opera è sempre presente e visibile «Non se ne vede il lavoro, ma se ne vede l’effetto», questa è la saggezza che ci insegna il Cielo, agire senza agire, perché c’è già sempre un agire al di là del nostro non agire. Essere modelli con il nostro comportamento e lasciare che sia questo a parlare per noi e a irradiarsi come forza morale per le persone intorno a noi. Così nasce un maestro, imparando il silenzio di Tian. E il dao è la grande strada da percorrere per diventare capaci di una simile saggezza. 

Wen è il primo passo, la cultura, elevarsi attraverso lo studio e l’educazione pone l’individuo in sintonia con il dao e lo aiuta a migliorare la propria posizione sociale – effetto inscindibile dal cammino lungo la via che conduce alla virtù – e a contribuire alla crescita armoniosa della società. «È l’uomo che può rendere grande il dao, non il dao che può rendere grande l’uomo», e lo studio continuo dei grandi insegnamenti del passato è l’elemento fondamentale per avere la conoscenza necessaria a destreggiarsi nei diversi contesti che la vita ci sottopone. Ecco dunque un altro carattere fondamentale della via confuciana, essa non è un immutabile statico al pari dei 10 comandamenti, essa non va scolpita su pietra e tramandata identica a se stessa per tutti i secoli dei secoli. Tutt’altro. «Solo chi comprende a fondo il nuovo sulla base di un’attenta analisi di quanto è già noto è degno di diventare maestro», perché la mutevolezza dei momenti fa sì che neppure il riprodurre fedelmente ogni scelta già presa dagli antichi saggi possa, di per sé, essere garanzia di un agire virtuoso. Occorre saper scegliere, saper pesare con estrema attenzione le proprie scelte, avendo la capacità di riflettere prima, sulle conseguenze che queste comporteranno per noi e per gli altri. È questa la facoltà che contraddistingue il sovrano illuminato come il saggio, è ming, «la capacità di comprendere ogni situazione valutandola simultaneamente  e con lucidità da tutte le angolazioni possibili, liberi da ogni pregiudizio o vincolo». Solo attraverso lo studio si può sperare di limare la materia grezza che dà forma all’uomo, e ne offusca il giudizio, per condurlo al giusto equilibrio.Per far sì che raggiunga la condotta virtuosa e si erga a modello capace di influenzare gli altri.

Ad aiutarci in questo difficile compito ci sono i li, l’insieme di norme comportamentali e riti che la tradizione ci ha riportato quali binari per dare un assetto stabile alla propria persona. È dunque dal mantenere in equilibrio gli insegnamenti, i li e yi (la capacità di un giudizio morale) che discende la possibilità di vivere in sintonia con il dao, con il cammino che conduce alla virtù. Come preciserà Xunzi, uno degli allievi più importanti di Confucio «Il dao degli antichi sovrani consiste nell’esaltare l’amore per il prossimo e nel metterlo in pratica seguendo la dottrina del giusto mezzo (zhong). Che cosa s’intende con giusto mezzo? Avere un comportamento appropriato nel rispetto dei riti e delle norme di comportamento (liyi). Il dao non è il dao del Cielo e nemmeno il dao della Terra: è il modo in cui l’uomo si comporta (dao), il modello che la persona esemplare segue (dao)».

Il junzi e la società giusta
La decisione del proprio comportamento è dunque un momento fondamentale del vivere sociale che, per essere misurabile, deve poggiare su parametri oggettivi di decisione e su una capacità di giudizio legata alle norme. Junzi è il nome che viene dato a colui che sa costruire in modo armonioso la propria personalità e sa comportarsi in modo adeguato grazie al rispetto dei li e di yi, anteponendo l’amore per il prossimo all’interesse personale come in una famiglia. Ed è all’interno della famiglia che tutto inizia, è alla sua basilarità che il confucianesimo si ispira come alla matrice naturale sulla quale si basa ogni rapporto umano. Qui, l’amore e il rispetto dei vincoli familiari – in particolare la sottomissione del figlio al padre – sono il fondamento dell’equilibrio, ed è a questi stessi principi che la società deve rifarsi, se vuole mettere in atto un equilibrio altrettanto solido e fecondo. Così come è fondamentale, per l’individuo virtuoso, saper irradiare in direzione del prossimo, i medesimi valori che coltiva all’interno della propria famiglia. Di tutti, il più importante è senz’altro il ren, l’amore verso il prossimo, è questo ideale dinamico che deve accompagnare ogni tappa del percorso di crescita dell’individuo affinché possa, con il suo operato, far crescere l’intera società. Ed è proprio da questa centralità del rapporto con gli altri che nasce la seconda virtù confuciana per eccellenza: shu, «non imporre agli altri ciò che non desidereresti per te stesso». È grazie a shu che Confucio riesce a delineare il metodo del ren, ossia lo spingerci nei panni del prossimo per migliorare la capacità di comprendere e valutare le nostre azioni in funzione della relazione con gli altri. A queste due si affiancano zhong, la virtù che prescrive di fare sempre il proprio dovere, xin, la sincerità, e yi, che come abbiamo già detto è la capacità di giudicare in modo appropriato. Seguire questi modelli significa pòrci sulla via per diventare simili ai saggi dell’antichità e raggiunge la dimensione dello shengren (il saggio). Tuttavia, essa pare più come un ideale di riferimento che non come una dimensione realmente alla portata dell’uomo, che, piuttosto, secondo Confucio, deve ambire alla dimensione dello junzi, della persona esemplare per virtù e nobiltà d’animo.

Il ritorno di un vecchio saggio
Il modello di società proposto da Confucio dunque, coglie nel mantenimento dell’equilibrio l’elemento fondamentale di ogni benessere. Esso infatti, comprende chiaramente che non ha senso tentare di far prevalere, una volta per tutte, un valore sul suo opposto, yin su yang, o viceversa, ma che è importante far sì che essi si trovino inarmonia e nessuno dei due tenti di prevalere sull’altro. Ben vengano dunque anche l’esercizio della violenza e delle armi, se necessari a correggere chi disattende alle direttive del sovrano, perché infondo, si configurano come mezzo per il mantenimento dell’ordine. Il quale però, va promosso anche attraverso altre vie. Tanto più che le contingenze della vita, rendendo impossibile a molti l’accesso allo studio e quindi all’elevazione, rischiano di trasformare il popolo in una pedina al servizio di fomentatori e rivoltosi, che nella rottura dell’equilibrio vedono la propria via d’accesso al potere. È per questo che è parimenti importante per il sovrano mostrarsi retto, oltre che autorevole,perché «se si governa con le leggi e si mantiene l’ordine con le punizioni, il popolo cercherà di evitare le punizioni e non proverà vergogna per le proprie mancanze. Se invece si governa con magnanima virtù e si mantiene l’ordine con i li, il popolo proverà vergogna per le proprie mancanze e si correggerà». Ancora una volta dunque, è nell’innalzarsi che sta il segreto per far sì che anche gli altri si innalzino con noi e si possa, tutti insieme, dar vita ad una società retta.

Innalzando una condotta basata su rispetto e amore per il prossimo, il confucianesimo ha favorito l’emersione di una civiltà capace non solo di far prevalere l’istinto comunitario sull’individualismo, ma anche di fare proprio di tale caratteristica il suo maggior punto di forza. Per questo non è un caso che la Cina contemporanea abbia saputo cogliere in Confucio quel il saggio maestro del passato capace di ispirare il futuro, che egli stesso, a suo tempo, aveva cercato nei saggi-re dell’antichità. Già una volta questa scelta ha permesso alle genti dello Zhongguo (Stati del Centro, come la Cina chiamava se stessa anticamente) non solo di unificarsi all’insegna di una stessa identità culturale, ma anche si riunire e dominare su tutto il tianxia; perché non dovrebbe poter funzionare di nuovo?  

Europa e Cina sotto le lenti dei filosofi di ieri e di oggi

Odi et amo. È forse questa l’espressione che meglio di tutte riesce a cogliere la natura del rapporto tra Occidente e Oriente, per lo meno per come lo si percepisce da Occidente. Tutto, e il suo contrario, contemporaneamente. Come nella dottrina dei contrari di Eraclito, questi due momenti del mondo vivono una perenne contrapposizione – ieri più geografica e culturale, oggi economica e politica – all’interno della quale però, in sporadici punti di contatto, hanno saputo scoprirsi molto più simili di quanto non potesse sembrare.

Fra le tante voci che hanno contribuito ad approfondire questo guardarsi da lontano – spesso troppo lontano – una delle più autorevoli è senz’altro quella di Eugenio Garin, celebre storico della filosofia che nel 1975, con il suo saggio Alla scoperta del “diverso”: i selvaggi americani e i saggi cinesi, contenuto nella raccolta Rinascite e rivoluzioni, s’interrogava sul ruolo giocato dalla Cina nell’evoluzione della civiltà europea nell’età moderna.

Dopo di lui, un altro studioso che più si è prodigato affinché tali punti di convergenza potessero emergere e rendersi visibili a beneficio di entrambe le parti è Filippo Mignini. Docente universitario presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata, Mignini è stato anche direttore dell’Istituto Matteo Ricci per le relazioni con l’Oriente. Nel suo Europa e Cina, uscito in questo turbolento 2020, Mignini tenta di ricostruire le tappe fondamentali del percorso di assimilazione del pensiero orientale dall’Europa illuminista, per farne il punto di partenza di una speculazione che allunga il suo sguardo fino al futuro prossimo.

Due voci che partendo da punti diversi, cercano di accorciare le distanze, per lo meno dal punto di vista mentale, fra due mondi che proprio nel dialogo basato sulle reciproche differenze potrebbero trovare la chiave per un nuovo mondo.

L’Occidente allo specchio
«È l’anima stessa dell’Europa che si riflette nell’immagine che gli Europei si fanno degli altri popoli», questo l’intento che muove l’analisi di Garin, questo il segreto che si nasconde dietro il “diverso”. Il nostro modo di descriverlo è in realtà il miglior modo per raccontare chi siamo. In fondo è proprio questo che accadde tra XV e XVI sec. Con la scoperta delle Indie l’Europa vide mutare la propria consapevolezza di sé perché scoprì gli altri. Altri diversi dal mondo arabo con cui si era incontrata e scontrata ormai da secoli, altri che non venivano considerati dagli antichi testi su cui si fondava la cultura identitaria europea, i primi veri Altri dai tempi dei Romani.

Garin si sofferma molto sul momento rappresentativo dell’incontro, tanto per quello con i nativi americani, quanto per quello con i cinesi. Ne consegue che entrambe le civiltà furono “misurate” e “comparate” dagli europei, sulla base delle immagini che essi stessi ne avevano preventivamente formulato. Nessuno scambio, nessun confronto fra diverse culture, solo la cinica valutazione di come gli altri si possano e debbano collocare all’interno del proprio schema valoriale. E se magari c’era stato il caso, forse mosso da un qualche istinto romantico, di un’esplorazione in nome della pura conoscenza all’origine delle scoperte geografiche, è evidente che in breve tempo fu l’economia a prendere in mano le redini della situazione, con conseguenze ancora molto forti, soprattutto in America. È di fronte al massacro degli Indiani d’America che l’Europa inizia ad avvertire l’esigenza di individuare chiavi di lettura culturali per legittimare e assolvere il proprio operato, velocemente passato da un confronto inter pares fatto di guerre per il predominio, al trionfo del paradigma capitalista: l’affermazione della dialettica servo-padrone.

Garin mostra come, paradossalmente, furono proprio gli interventi a supporto delle popolazioni indigene brutalizzate dalla frustrazione dei rozzi soldati occidentali, partiti in cerca dell’oro e poi rimasti esclusi dal paradiso sognato di Eldorado, a favorire questa evoluzione. Perché l’evidente superiorità bellica degli Europei portava comunque con sé un enorme dispendio di risorse, e quando neppure la causa evangelizzatrice riuscì a placare il malcontento dell’opinione pubblica per quanto si stava consumando oltre oceano, il passaggio dallo scontro aperto all’inganno offrì l’abito giusto per proseguire nell’intento iniziale. Non c’era né il tempo né l’interesse a portare avanti il confronto tra civiltà finalizzato al reciproco apprendimento, le ragioni dell’economia esigevano un approccio più veloce ed efficace. La portata innovatrice del contatto col nuovo andava ridotta e riportata all’interno di schemi già noti che ne facilitassero la comprensione.

Così, dietro i miti dell’innocenza edenica e dell’età dell’oro, si nascondeva un messaggio ben più crudo: questo mondo siamo noi ai nostri albori, in esso si rendono visibili sogni e ricordi di un’intera civiltà, non c’è altro da imparare se non da un punto di vista storico. A nulla serviranno le riflessioni di Montaigne e il suo invito a ragionare sulla pluralità delle culture, il destino dell’America era segnato.

Ben diversa la questione relativa all’Oriente. Perché se è vero che anche in questo caso, la rappresentazione occidentale di quel mondo tendeva a ricondurlo a schemi semplificati, è altrettanto vero che, di fronte alla Cina, l’Europa «si rende conto dell’esistenza di una civiltà più antica della propria, diversa ma non meno ricca, anzi degna di essere innalzata a modello».

Partiti con in testa i miraggi del Milione di Marco Polo, ciò che si trovarono di fronte gli Occidentali, soprattutto i Gesuiti, fu una società in cui la gerarchia sociale era figlia di quella morale, in cui l’assenza della rivelazione non aveva minimamente pregiudicato la possibilità di un ordine politico esemplare, ma soprattutto, una cultura capace di mettere in scacco l’identità di un mondo. Quando nel Settecento intervennero le bolle papali a bloccare questo flusso di idee e di conoscenza, era ormai troppo tardi, il mito della saggezza e della superiore moralità degli atei cinesi era già lì, a mettere in crisi le coscienze europee. Il mito cinese, insieme a quello del Nuovo Mondo, sembravano dimostrare che non c’era bisogno di Dio per un mondo bene ordinato, anzi, ciò che appariva era la presenza di una “legge di natura” più antica di ogni credenza umana il cui valore oltrepassava ogni rivelazione. Questa profonda critica religiosa aprirà poi le porte ad una nuova visione dell’uomo all’insegna della multiculturalità.

L’Europa che si credeva avanguardia, si scoprirà, nelle parole dei letterati, barbara e sopraffattrice e viene invitata a confrontarsi con gli altri mondi, con gli altri uomini.

Il Commercium lucis e la morale cinese che entra in Europa
La figura centrale affinché questo scambio tanto fecondo fra Oriente e Occidente fosse possibile, è Matteo Ricci. Fu lui, per Mignini, l’alfiere di quel processo di “inculturazione” – cioè del farsi parte della cultura ospitante, impararne i dettami per acquisire stima e credibilità al suo interno, e solo poi provare a trasmettere insegnamenti e dottrine – che ha portato l’Europa a conoscere la Cina attraverso i testi.

La sua scelta di privilegiare l’intento comunicativo rispetto alla conversione infatti, gli permise, una volta conquistata la fiducia dei suoi interlocutori, di comprendere e tramandare la cultura di una civiltà che, separando la morale dalla religione, aveva fatto della razionalità il fulcro della propria vita politica ed etica. La possibilità di entrare a stretto contatto con questa dimensione culturale, mostrò a Ricci quanto profondamente il confucianesimo e il suo sistema valoriale fossero interconnessi, non solo con la sfera spirituale, ma anche e soprattutto con quella politica e sociale. Al punto che il gesuita nei suoi scritti, fornì traduzioni di parole chiave come Tian (Cielo) o Shangdi (Imperatore dell’Alto) che penalizzavano l’intento evangelizzatore e quindi la verità della rivelazione, arrivando a consentire ai convertiti al cristianesimo anche la possibilità di continuare a seguire le prescrizioni della ritualità confuciana. Perché in essa Ricci vedeva un valore esclusivamente civile ed educativo non in contraddizione con la fede cristiana.

Queste aperture, come visto sopra, porteranno a una dura condanna da parte dell’ambiente ecclesiastico e culmineranno perfino nello scioglimento della Compagnia di Gesù. Tuttavia, nonostante le ripercussioni, l’operato di Ricci e di altri gesuiti al suo fianco, era ormai passato e tanti frutti erano in arrivo. Il suo lavoro infatti, permetterà all’Europa di conoscere una Cina sì atea, ma, ciononostante, capace di elaborare una morale perfetta e di costruire un sistema politico esemplare. Il paradigma occidentale fondato sui due assiomi fondamentali del Cristianesimo per cui non è possibile una morale senza religione e non è possibile una società di atei, rischiava di entrare in crisi.

Leibniz fu tra i primi a cogliere in questo incontro tra Europa e Cina una grande opportunità, non solo perché queste due grandi realtà si equivalgono sul piano culturale, ma anche perché da questo incontro epocale poteva nascere non solo un grande progresso in ambito scientifico, ma si potevano anche gettare le basi per il grande sogno del secolo dei lumi: la pace tra i popoli e lo sviluppo dell’umanità. Commercium Lucis: è con questa espressione che il filosofo tedesco definisce questo scambio di conoscenze in cui coglie un duplice obiettivo. Sul piano religioso, quello di portare il cristianesimo in Cina da un lato e di far riscoprire la religione naturale all’Europa dall’altro; sul piano del sapere naturale invece, quello di far tesoro delle conoscenze cinesi in ambito scientifico, in cambio di quanto comunicato loro dagli europei.

Tutto ciò però, sarà possibile soltanto attraverso l’approccio promosso da Matteo Ricci; “tutto deve diventare di tutti”. Un invito alla conoscenza reciproca, che poi si sarebbe facilmente potuto evolvere in una compenetrazione di una parte nell’altra e viceversa.

Dopo Leibniz, anche Wolff entrò nel dibattito sulla questione cinese, e nel suo Discorso sulla filosofia pratica dei cinesi, sostiene che il porre la ragione a fondamento, ha consentito loro tanto di fondare una morale efficace, quanto di dotarsi di un sistema di governo invidiabile.

Lo stesso Voltaire si inserì su questa scia sottolineando che è solo grazie alla centralità della ragione che la religione cinese non è mai entrata in conflitto con il potere politico, ed è proprio qui che si deve andare a cogliere il senso della sua religione naturale. La fedeltà alla nostra natura di esseri razionali è la sola possibilità che abbiamo per permette alla luce di Dio di illuminare tutti i popoli e di prospettare una pace universale. L’esatto contrario di quanto portava avanti l’Europa in quegli anni, accecata dalla presunzione e dalla bramosia, lavorava alacremente affinché all’estensione dei commerci facesse seguito quella di un intero sistema valoriale ad essi affine.

La Cina però non era l’America, e nel momento esatto in cui gli emissari dell’Occidente, con la loro presunzione di superiorità, iniziarono a minacciare lo spirito e l’ordine dell’Impero, l’imperatore non esitò, espellendoli dal proprio universo.

Il tramonto dei Lumi
Fu una stagione ricca di frutti quella che unì Cina ed Europa tra XVII e XVIII secolo, ma che si spense troppo velocemente. Con il naufragio dell’esperienza di Napoleone in Europa, vennero meno gli stessi valori su cui la sua esperienza si era poggiata e sorretta; gli ideali di libertà uguaglianza e fratellanza della Rivoluzione. L’Europa della Restaurazione rinnegò velocemente tutto quanto aveva messo a repentaglio il suo equilibrio. I rapporti con la Cina si deteriorarono velocemente e da modello iniziò a venire dipinta più come un qualcosa di arcaico, straordinariamente evoluto sì, ma non più una vetta della civiltà umana, quanto piuttosto un inizio luminoso rimasto troppo a lungo uguale a se stesso.

È in fondo questo lo scenario che dipingerà Hegel nella sua Filosofia della storia quando parlerà del movimento dello Spirito che partendo giovane da Oriente, cresce e si sviluppa fino a raggiungere il suo pieno compimento nel mondo occidentale. Sono questi i valori che fanno da sostrato ideologico all’attacco inglese al porto di Hong Kong; il ritorno in auge di una presunzione di superiorità legittimata dalla capacità di essere più forti. Non c’era tempo di aspettare che la Cina, votata alla piena autosufficienza, si convincesse ad aprirsi al commercio, quando le prime ambasciate inglesi furono respinte, impazienti come chi non conosce la via per la saggezza, gli Occidentali bruciarono, insieme ai palazzi, ogni barlume di credibilità e divennero invasori e oppressori. Un progetto di grande impatto ma allo stesso tempo di scarsissime vedute. Non è passato molto tempo da quando l’Europa ha violato con la forza il silenzio della saggezza confuciana che avvolgeva la Cina e ora, si trova schiacciata dallo stesso peso che ha imposto al Paese di Mezzo appena due secoli fa.

È inclemente Mignini nella sua analisi fra i rapporti tra Cina ed Europa nel XXI secolo. Una potenza in rapida ascesa su tutti i fronti, capace di strutturare programmi e progetti fino ai prossimi 50 anni, che si trova di fronte un mosaico di egoismi locali e scarso spirito di coesione. Il declino del Vecchio Continente sembra ormai iniziato e procede sempre più velocemente. Stanche istituzioni, distanti dalle popolazioni che si trovano a governare, amministrano il bene comune sempre con un occhio al proprio di bene, e parimenti puntano il dito contro chi, con un modello democratico incentrato su valori diversi dai nostri, porta benessere e si prefigge anche l’obiettivo di portarne agli altri.

Forse c’è uno sbilanciamento eccessivo nelle analisi fatte dal professore: probabilmente sorvola troppo velocemente sugli aspetti più oppressivi del sistema politico cinese che, quando parla del riconoscimento di libertà politiche e individuali purché non entrino in contrasto con gli interessi, sociali, statali e collettivi, né con gli altri cittadini, in realtà riconosce la mancanza di vere libertà nel senso occidentale del termine. Eppure, forse, il difetto non è nella sostanza del modello cinese ma nell’approccio intuitivo del pensiero occidentale al concetto di democrazia. Nella tendenza ad associare implicitamente la libertà individuale alla democrazia, senza riflettere quanto magari questa tanto sbandierata libertà si perda fra i meandri e le pieghe del sistema democratico per come lo intendiamo noi. Si perde nelle disuguaglianze sociali, si perde nella diversa accessibilità a servizi fondamentali come salute e istruzione; si perde perfino nell’iperestensione della tolleranza – il problema del rispetto anche delle opinioni intollerabili come gli estremismi. La democrazia è un sistema politico tutt’altro che definito e tutt’altro che di facile applicazione, proprio per questo forse, un confronto onesto con chi ne ha individuata una forma diversa potrebbe fornire spunti di riflessione e momenti di crescita. Quando il nuovo avanza, i vecchi schemi devono essere capaci di adattarsi per non soccombere. E cosa c’è di meglio di una sfida sul tema che da sempre accalora i popoli dell’Occaso, il governo della cosa comune?

Riferimenti bibliografici

  • Garin, Eugenio. 1975. “Alla scoperta del «diverso»: i selvaggi americani e i saggi cinesi” in IDEM, Rinascite e rivoluzioni Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo Roma-Bari: Laterza, pp. 327-362.
  • Mignini, Filippo. 2020. Europa e Cina. Macerata: Quodlibet.

Un dialogo fra Oriente e Occidente

Il principio indeterminato e l’Assoluto

Filippo Mignini
Da molto tempo mi sono convinto che il primo problema culturale del nostro tempo è quello di affrontare in modo profondo e duraturo un dialogo tra oriente e occidente. Ho dedicato diversi corsi universitari ad indagare quale potesse essere questa linea di pensiero che parte dai greci e attraversa come un fiume carsico l’intera storia della filosofia occidentale non giungendo mai a diventare un punto di vista culturalmente dominante. La tradizione a cui mi riferisco è stata sempre perdente dal punto di vista del successo culturale: la maggior parte della nostra popolazione ha sempre pensato in altro modo. Eppure questa tradizione di pensiero è molto chiara, la si può ricostruire ed è costituita da quelle filosofie che hanno considerato il principio come indeterminato. Che cosa pensa la nostra cultura dominante? Pensa che la causa prima di tutte le cose, quella che chiamiamo Dio, sia un ente determinato, determinatissimo, in quanto ha una sua particolare natura intellettiva ed essendo sostanza spirituale (così si dice nel catechismo); è dotato di intelletto e volontà; si suppone che possa costituirsi come persona e rispondere con un Io ad un Tu che lo interpelli. Questo è un esempio di principio determinato.
Ebbene nella storia della filosofia occidentale esiste una tradizione di pensiero che potremmo far iniziare con Anassimandro, il filosofo dell’apeiron, del principio che è senza limite, e scendere fino ad una filosofia che chiamiano neo-platonismo nella quale il principio viene posto come assolutamente indeterminato, indicibile, indifferente: non ci sono definizioni che si possono dare perché tutto ciò che possiamo descrivere e definire è determinato, appartiene cioè al mondo degli effetti.
Passano i secoli ma all’inizio dell’età moderna incontriamo un filosofo come Cusano che riprende questa tradizione, rovescia radicalmente la filosofia scolastica che lo aveva preceduto e riporta in auge il principio come la potenza assolutamente indeterminata, il posse ipsum, cioè la potenza punto e basta, non una potenza di intedere, di volere, di essere, che sono tutte determinazioni, ma la potenza in quanto potenza. Questa tradizione viene ripresa poi da Bruno, Spinoza, Schopenhauer, Bergson. È dunque possibile ricostruire un filo rosso all’interno della tradizione occidentale dominata, all’opposto, dall’idea di un principio determinato, di una causa prima determinata, dall’idea che il principio primo è pieno e non vuoto. Questa tradizione è il punto più avanzato verso Oriente a partire dal quale sono maggiori le possibilità di dialogare ed incontrare le filosofie orientali (buddismo, confucianesimo, taoismo ecc.).
Personalmente ho avuto poi la possibilità di studiare il primo incontro tra cristianesimo  e filosofie orientali in Cina attraverso l’esperienza di Matteo Ricci. Si è trattato di un’esperienza non solo difficile ma per molti aspetti fallita: il tentativo di stabilire un dialogo con una o più filosofie che considerano il principio come assolutamente indifferente e indeterminato dal punto di vista di una filosofia come quella scolastica che invece considera il principio e la causa come determinata.

Lama Denys Rinpoche
Reputo eccellente questo dialogo attorno alla figura di Spinoza che, sebbene io non sia uno specialista, considero come il filosofo occidentale più buddista o perlomeno, senza voler mettere dei superlativi, molto buddista.
In primo luogo credo che sia molto importante trovare una base di dialogo tra oriente e occidente, una tesi universale che sia al fondo dell’etica, della spiritualità e della filosofia.
Il secondo punto è che se esiste un fondo universale è perché esso si situa nell’esperienza, nel vissuto dell’esperienza. L’esperienza è unica nella diversità dei concetti. L’esperienza unisce i concetti di vita. Personalmente cito spesso una frase: se due veri saggi si incontrano e non sono d’accordo, uno dei due non è saggio; se due teologi o metafisici si incontrano e sono d’accordo, vuol dire che uno dei due non è teologo o metafisico.
Il terzo punto è la Realizzazione, ovvero la distinzione tra filosofia speculativa e la filosofia operativa. La prima specula nel concetto; la seconda utilizza il concetto per comprenderne i limiti e per portarsi nell’esperienza diretta e immediata. L’immediatezza ha un carattere universale ed è primordiale, preconcettuale, e in questo senso è la dimensione naturale. L’esperienza diretta è sia il fondo dell’empatia, cioè dell’amore e della compassione, sia dell’intelligenza immediata.
Come ultimo e quarto punto, vorrei dire che Dio è Assoluto: in generale ciò non pone a priori dei grandi problemi. L’infinitudine, la magnificenza, l’onnipotenza, l’onnipresenza, l’assolutezza di Dio. Nella tradizione di Budda non si parla di Dio come nelle religioni monoteiste preferendo parlare di natura o di quelle che si definisce la natura di Budda. Tuttavia, nella tradizione del Tantra, c’è la nozione di deità che è intesa come quell’assoluto al di là di Dio nel senso che ha suggerito Meister Eckhart. Il punto è che qui l’assoluto è sinonimo di non dualità ed è onnipresente. Si può parlare di natura, ma una natura risvegliata che nel buddismo si definisce la natura di Budda, la buddità. Questa natura abbraccia tutto, è infusa, onnipresente e assoluta. È per questo che si può porre l’equivalenza Dio-Natura. Ciò che è importante è il metodo per la Realizzazione: come scoprire questa natura? La Realizzazione è la liberazione dall’ignoranza, dall’illusione e dalle passioni. In generale liberazione dalla disarmonia, dal malessere e dalla sofferenza.

Matteo Ricci e Spinoza

Filippo Mignini
Vorrei seguire due percorsi: uno diretto, l’altro indiretto. Quello indiretto è costituito dalla percezione che Matteo Ricci ebbe della tesi fondamentale sostenuta dai suoi interlocutori cinesi e che espone con molta precisione: la tesi secondo cui tutte le cose sono unite in una medesima sostanza. Scrive Matteo Ricci: «L’oppinone che adesso è più seguita, pare a me pigliata dalla setta degli Idoli – cioè il buddismo –  da cinquecento anni in qua, è che tutto questo mondo sta composto in una sola sustantia, e che il creatore di esso con il Cielo e la terra, gli uomini e gli animali, alberi et herbe con i quattro elementi tutti fanno un corpo continuo, e tutti sono membri di questo corpo; e da questa unità di sustantia cavano la charità che habbiamo d’aver gli uni con gli altri, con il che tutti gli huomini possono venire a essere simili a Dio per esser della stessa sustantia con esso lui. Il che noi procuriamo di Confutare non solo con ragioni, ma anco con autorità de’ loro Antichi, che assai chiaramente insegnorno assai differente dottrina» (Della Entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella Cina, Quodlibet, Macerata, 2008). Si tratta della tesi dominante in Cina nella quale si trova quella nozione di deità, di cui parlava prima il lama, che sta al di là di Dio inteso come creatore. Questa sostanza infatti è tale da includere in sé il creatore del mondo, il mondo e tutte le sue manifestazioni. Riguardo al tema della carità viene dedotto dalla partecipazione degli uomini alla medesima sostanza. C’è però una seconda parte che rende drammatica questa constazione: quella cioè nella quale Matteo Ricci si propone di confutare, con argomenti logici e con l’autorità dei loro stessi testi classici, che i loro antenati non hanno insegnato quello che attualmente credono quanto piuttosto un principio molto simile al nostro creatore del mondo, cioè un dio trascendente, dominatore, giudice ecc. Questa contesa si avvia in Cina in forma drammatica e violenta: dopo l’uscita della prima opera di Ricci si coagula una prima forma di oppositori.
In Europa, da almeno un secolo e mezzo, la filosofia moderna aveva preso una strada che portava invece alla dottrina del principio indeterminato di Cusano, cioè dell’Assoluto. Non c’è nessun dubbio che in questa filosofia Dio sia l’Assoluto il quale non ha nessuna delle caratteristiche che la teologia tradizionale ha attribuito al Dio ebraico, cristiano o islamico perché esso è privo di ogni determinatezza, tale cioè da non poter essere dichiarato o descritto. Questa tradizione passa espressamente a Bruno il quale dichiara, nel quinto dialogo della Causa principio et uno, di fare propria l’ontologia del divino Cusano. Questo principio è portato alle estreme conseguenze da Spinoza. Basterebbe leggere alcuni passaggi tratti dalla prima formulazione del suo sistema contenuti nel Breve Trattato nei quali, dalla concezione di Dio rigorosamente assoluto, emerge un infinito del tutto sproporzionato rispetto a qualsiasi finito, nel senso che non è possibile stabilire nessun rapporto tra infinito e finito pretendendo di assumere i due termini come termini di un rapporto. Se, al contrario, si pone il finito come termine di un rapporto con l’infinito, e quindi altro rispetto all’infinito, si rende finito anche l’infinito. Hegel chiamerà questo modo di pensare il rapporto tra finito e infinito, supponendo che il finito sia un termine di relazione adeguato o sufficiente con il finito, “cattiva infinità”, cioè una falsa infinità. L’infinito deve invece essere pensato come il tutto: qualsiasi termine può essere trovato solo dentro l’infinito, non fuori: se possiamo e dobbiamo pensare il finito lo possiamo e dobbiamo fare solo nell’infinito. Questo è detto chiaramente da Spinoza.
Se consideriamo l’assoluto una potenza viva e capace di produrre effetti, l’assoluto potrà produrre effetti in se stesso, cioè immanenti, e quindi segue la distinzione tra natura naturante e natura naturata, termine con in quale si intende l’insieme degli effetti immanenti prodotti eternamente, necessariamente e per natura: viene tolto ogni riferimento all’intelletto e alla volontà della causa la quale è una natura assoluta capace di permanere eternamente nell’essere e, con la stessa potenza, produce tutti gli effetti che hanno la potenza di esistere. Tutto ciò che esiste di determinato è un modo di questa natura infinita, o sostanza infinita, ed esiste soltanto e nella misura in cui inerisce a questa sostanza. Da questo punto di vista la posizione di Spinoza è molto prossima alla tesi dell’assolutezza della divinità. Ma potremo anche dire che questa natura o sostanza, in se stessa, essendo l’identico soggetto di tutte le essenze, poiché tra tutte le essenze esiste anche una differenza e persino una contrarietà, non può essere qualificata secondo nessuna di queste essenze, perché altrimenti non potrebbe essere identico soggetto di esse, e dunque, in sé, è assolutamente indifferente e indeterminata.
Gli altri aspetti che venivano toccati sono quelli della destinazione pratica della filosofia. Per Spinoza la filosofia ha per supremo interesse la vita. Tutto ciò che nella filosofia non è utile a produrre una vita buona deve essere buttato via come superfluo. Da questo deriva la conseguenza relativa alla Realizzazione: cosa significa infatti vivere una vita buona? Significa vivere una vita libera. Siccome la sostanza agisce per necessità della sua natura e, di conseguenza, tutto ciò che esiste e tutto ciò che non esiste lo sono per necessità, in quanto che ci sono delle cause determinate affinché tutto esista o non esista, non si dà libertà d’arbitrio, nessuno può pensare di essere libero e di possedere una libertà indifferente di essere o di non essere, di fare o di non fare. Se infatti è determinata la nostra essenza, così lo è la nostra esistenza ed anche la nostra azione. Dunque, ciò che noi possiamo fare, entro questo limite di forte necessità e determinatezza, è conoscere la nostra posizione nell’universo, sapere dove stiamo, chi siamo, e, attraverso la conoscenza, attivare un processo di liberazione, cioè un processo attraverso il quale ci rendiamo sempre più liberi dalla forza delle cause esterne. Per quanto possibile ovviamente, perché, per Spinoza, in assoluto questo non sarà mai possibile. Ma, attraverso la conoscenza, possiamo agire per renderci più liberi, ossia meno determinati dalla forza delle cause esterne. Credo che le tesi di Spinoza siano molto vicine a quelle elaborate dal lama.

Liberazione, sostanza, etica

Lama Denys Rinpoche
La liberazione è il punto centrale nella tradizione del Budda. La liberazione da che cosa? Dall’ignoranza e dall’illusione. Per il buddismo è molto importante distinguere la coscienza dalla gnosi. La coscienza è di tipo duale e genera una dinamica dualistica nella quale si annida l’ignoranza. La gnosi è invece l’esperienza immediata e diretta che genera la vera conoscenza. Dall’ignoranza e dall’illusione dualistica si generano le passioni. Esse sono emozioni conflittuali da cui vengono varie forme di difficoltà e sofferenza. Una buona vita è una vita liberata dall’ignoranza e dalle illusioni nella realizzazione della felicità e della salute. Nella tradizione buddista c’è una prospettiva terapeutica: il percorso potrebbe essere chiamato una terapia fondamentale per realizzare la salute per il corpo e per la persona. Salute, armonia, benessere, felicità sono dei sinonimi così come i loro corrispettivi negativi (malattia, disarmonia, malessere, infelicità).
Matteo Ricci era un missionario e quindi quelle parole che abbiamo prima ascoltato devono essere intese nel senso apologetico: quando parla di quegli antichi orientali che avrebbero insegnato una dottrina differente egli sta facendo una sorta di wishful thinking. Nella via mediana del Budda ci sono due mezzi di conoscenza. Il primo è la ragione cioè la logica, l’inferenza, la matematica: una logica molto sofisticata vicina a quella aristotelica soltanto che non c’è il principio del terzo escluso. Il secondo è l’immediatezza.
Riguardo alla sostanza unica, bisogna dire che la nozione è complicata. In generale, nella tradizione buddista, essa è il fondo, più precisamente il fondo del fondo. Le prospettive sembrano essere diverse ma esse convergono in un approccio sistemico.
La prima prospettiva considera la sostanza come qualcosa di sostanziale e materiale. Tutto è materia e la mente è un epifenomeno della materia.
Una seconda prospettiva considera la sostanza come spirituale dove la materia è fenomeno della mente. C’è evidentemente una contraddizione.
La terza prospettiva è di tipo cognitivo che postula un Tutto materia e spirito al quale si può mettere un’etichetta a piacimento. Si tratta di un approccio decostruttivo che dimostra le contraddizioni che vengono dal processo di concettualizzazione mentale. Si tratta di decostruire le prospettive concettuali per sfociare in una sospensione o apertura. In questa dinamica l’approccio culmina in un non concettuale che è l’al di là dei concetti.
In merito alla nozione di creazione si tratta di un’assurdità logica che può essere mantenuta soltanto grazie alla fede. Per contro c’è la possibilità di considerare la creazione come eterna come al di là dallo spazio e dal tempo.
Nella tradizione buddista c’è un modo di presentare tutto ciò presentando l’assoluto come Uno, non duale e trino. È possibile fare un’analogia con la dottrina della Trinità. L’assoluto presente è la dimensione del padre; la presenza nel tempo e nello spazio è il corpo di emanazione nella dottrina buddista e il figlio nella tradizione cattolica; infine lo spirito realizza l’esperienza perfetta. Se si continua si può vedere Dio e la natura nella tradizione dei Tantra come Dio e madre. La loro unione non è dualista ma ha un carattere assoluto.
In merito all’etica, la buona vita avviene attraverso un triplice addestramento. Il primo aspetto è la disciplina di vita che è allo stesso tempo disciplina di salute e di benessere: principio etico fondamentale universale è la regola d’oro: “non fare agli altri la violenza che non faresti a te stesso”. Si tratta di una regola di empatia, d’amore e di compassione. La seconda regola è quella dell’esperienza profonda, ovvero la presenza aperta e attenta. La terza regola è la comprensione dell’interdipendenza di tutti gli esseri. Essa è quella dell’intelligenza immediata, a livello assoluto e non dualistico. In linea generale è la comprensione della realtà, ciò che sono e vivo. Si tratta di un’esperienza liberatrice. Sarei curioso di sapere, infine, se Spinoza abbia mai proposto degli esercizi spirituali.

Filippo Mignini
In Spinoza ci sono tre forme di conoscenza. Quella più comune di cui tutti partecipiamo e di cui la maggior parte degli uomini non si libera è l’immaginazione: si tratta della conoscenza che produce l’illusione, che nasce dal pregiudizio, che si manifesta in opinioni non sostenibili né dimostrabili. Il secondo livello è la ragione. Ma la vera conoscenza, e quindi la liberazione, si ha nel terzo genere che chiama intelletto, cioè la conoscenza immediata dell’essenza delle cose. In essa non c’è bisogno di dimostrazione in quanto tale conoscenza si può soltanto intendere, allo stesso modo con cui si intende l’assioma “il tutto è maggiore della parte”: se si conosce il significato dei termini “tutto” e “parte” non c’è bisogno di alcuna dimostrazione. Questo genere di conoscenza, del quale pochi partecipano, al quale bisogna essere educati ed esercitarsi per tutta la vita, ci consente di cogliere la nostra essenza non soltanto come un’esistenza nella durata e nel tempo ma anche come esistenza come sub specie aeternitatis. La cosa più difficile da capire in questa filosofia è la tesi secondo cui tutto ciò che esiste ha una duplice e simultanea dimensione: appartiene al tempo ma è anche eterna.
Per quanto riguarda la sostanza la posizione di Spinoza non coincide con nessuno dei tre punti di vista (anche se forse si può avvicinare al terzo). Spinoza considera la sostanza come costituita da tutte le essenze che esprimono perfezione. Se l’estensione, cioè la materia, costituisce una forma di realtà, essa appartiene alla sostanza. Se il pensiero, costituisce una forma di realtà, anch’esso appartiene alla sostanza. Così tutto ciò che necessariamente esprime realtà appartiene alla sostanza. Noi uomini, che partecipiamo soltanto di pensiero ed estensione, conosciamo questi attributi. Ma capite che quella sostanza, medesimo soggetto che si dice in se stesso pensante ed esteso, non può essere né pensante né esteso perché tra pensiero ed estensione non c’è nulla in comune. Dunque, la sostanza può essere l’identico soggetto di pensiero ed estensione se, in quanto sostanza, non è né pensiero, né estensione, cioè è indeterminata. In Spinoza invece non troviamo qualcosa di simile alla Trinità.
In merito all’etica, devo dire che le prime pagine della sua prima opera, il Trattato sull’emendazione dell’intelletto, vertono sul tema della disciplina. Quello che egli chiama institutum vitae: nesssuno può darsi alla filosofia se non adegua la sua vita ad essa, cioè se non si dà un adeguato tenore di vita. Non si può essere filosofi e cercare la liberazione, vivendo in qualsiasi modo. Il tema della comprensione profonda del nostro essere e della interdipendenza è molto presente in Spinoza per la ragione molto semplice che tutto ciò che esiste, esiste come una serie di cause, a cominciare dal nostro corpo che non può vivere al di fuori della relazione con altri corpi (aria, cibi ecc.). Questo vale anche per le nostre menti e per la nostra conoscenza: tutto ciò che esiste, esisten in un sistema di interdipendenza. Se non si capisce questo non si capisce nulla della filosofia di Spinoza. Questo ha a che fare con la natura modale delle cose, perché la sostanza è unica e indipendente.
Spinoza aveva degli amici ma non ha costituito una scuola, né un sistema di terapia. La terapia è costituita dalla lettura e dalla comprensione di quei testi, dalla meditazione continua grazie alla quale si può comprendere qualche cosa di più. Ma certo Spinoza non ha costruito comunità, né esercizi spirituali. L’esercizio spirituale è simile a quello che compie il lettore del Manuale di Epitteto: entrare in un processo di iniziazione, ma non quello di entrare in una comunità dove le persone sono accolte e guidate. Spinoza non ha costruito una religione o un sistema pratico di trasmissione della sua filosofia.

Al termine del dibattito ci sono state alcune domande da parte del pubblico presente.

 Il principio indeterminato non comporta rivedere le modalità logiche con le quali noi pensiamo? Se cioè l’occidente ha seguito il principio determinato, ciò non è dovuto forse al fatto che l’occidente abbia adottato il principio di non contraddizione? Aprirsi all’oriente non significa rivedere i fondamenti della logica? Come si può seguire la logica dell’indeterminato rimanendo all’interno del principio di non contraddizione?

Filippo Mignini
La risposta l’ha già data Cusano quando sostiene che il principio di non contraddizione vale per il mondo degli effetti, ma non vale per l’assoluto. Nell’assoluto è esattamente la coincidenza dei contrari. Noi possiamo adottare tutte le logiche che vogliamo, ma se manteniamo fermo il principio della non proporzione e della non comparabilità dell’assoluto e del determinato, allora possiamo dire che la logica tradizionale vale per il determinato ma non per l’assoluto che è invece l’esplosione di questa logica.

Lama Denys Rinpoche
La determinazione è sempre una determinazione: se l’assoluto fosse determinato sarebbe una contraddizione. Nella logica buddista c’è il rifiuto delle proposizioni concettuali per cui può esistere l’affermazione in base alla quale A non può essere non A, ma allo stesso tempo si dà anche l’affermazione che A è non A. Ogni affermazione concettuale è ridotta all’assurdo e quindi evacuata.

Si è parlato di processo di liberazione come conoscenza della nostra posizione nell’universo. In Occidente e in Spinoza, con le dovute specificazioni, questo processo ha un nome: quello di scienza moderna. Volevo sapere se nel buddismo la scienza moderna, così come è stata intesa in occidente, può avere lo stesso significato.

Lama Denys Rinpoche
C’è una grande convergenza tra la visione buddista e la scienza moderna. La ragione di questa convergenza è l’utilizzazione della logica e della ragione come strumenti di analisi e di conoscenza. La scienza moderna si è sviluppata adottando un modo oggettivo che non ha considerato l’immediatezza ed ha finito per eliminare il soggetto. Il soggetto è invece il vero protagonista dell’osservazione. Soltanto recentemente c’è stata la reintroduzione della modalità cognitiva con la considerazione del soggetto che sperimenta, con un approccio che tiene conto delle modalità e della posizione dell’osservatore e la sua interazione con l’oggetto osservato.

Definire Dio come natura non è come dire che Dio non esiste e che esiste solo la natura?

Lama Denys Rinpoche
Dio è onnipresente, la natura è onnipresente. Dio e la natura sono coestensivi. Non si tratta di concepire uno contro l’altro. Se si vuole trovare un modo per combinarli c’è il polo maschile dell’intelligenza riflessiva che abbraccia la natura femminile onnipresente.

Filippo Mignini
Dio è un termine comune che è stato utilizzato nella storia della cultura occidentale in contesti e significati diversi. Altro è ciò che chiamiamo Dio nell’Antico Testamento, altro è ciò che chiamiamo Dio nell’antica Grecia, altro ancora è ciò che è Dio presso i Romani, altro ancora è Dio nella tradizione patristica e forse altro ancora nella tradizione scolastica. Abbiamo cioè un termine comune con il quale indichiamo cose diverse. La storia della nostra conoscenza di Dio è di fatto parallela: da una parte una conoscenza che pretende di derivare da una rivelazione, che di fatto però ha bisogno di profeti, intermediari o interpreti finendo per dover credere a loro; l’altra via è quella della ragione. Il primo libro dell’Etica di Spinoza si intitola Di Dio: per lui come per tutti gli autori sopra citati il termine Dio significa la Natura.