Introduzione
Michel de Montaigne (1533-1592) tratta del sogno nella parte finale dell’Apologie de Raymond Sebond. Il capitolo è il risultato di un periodo particolare della vita del filosofo: nel 1568 Montaigne riceve una cospicua eredità che gli permette nel giro di pochi anni di rinunciare alla carica di sindaco a Bordeaux e di intraprendere un ritiro interiore; nel 1569 dà alle stampe la traduzione della Theologia naturalis, sive liber creaturarum (1487) del pensatore catalano Raymond Sebond [1]; tra il 1575 e il 1576 scopre lo scetticismo di Sesto Empirico e incomincia a definire il proprio pensiero. In questo periodo Montaigne scrive «una porzione importante dell’Apologie» (Popkin 2000, p. 60). L’Apologie de Raymond Sebond figura in tutte le edizioni degli Essais (1580, 1582, 1588) ed è stata più volte riveduta e ampliata.
La difesa degli argomenti di Sebond dalle accuse dei suoi avversari [2] permette a Montaigne di introdurre il problema gnoseologico: i critici della Theologia naturalis incarnano la condizione dell’uomo, creatura miserabile, le cui pretese intellettuali di essere sul gradino più alto del mondo si infrangono contro la varietà e la mutevolezza della realtà esterna [3].
La stessa natura dell’uomo, nella sua duplice dimensione mentale e corporea, è un abisso che le eterne dispute filosofiche e le ricerche degli uomini di scienza non sono riuscite a decifrare (Montaigne 2012, 979-1083). La «sinfonia del dubbio» (espressione usata in Popkin 2012, p. 69) culmina nella critica della conoscenza sensoriale: se, infatti, è vero che i sensi sono l’unico mezzo per approcciare la realtà, tuttavia, dal momento che l’esperienza sensoriale mostra solo l’apparire degli oggetti, la verità delle idee (impressioni formate dall’anima sulla base dei sensi) non è dimostrabile (Montaigne 2012, pp. 1085-1113). Quest’incertezza gnoseologica si riversa sulla capacità di distinguere sogno e realtà, problema che ha da sempre interessato la filosofia [4].
L’argomento del sogno nelle filosofie antiche
Montaigne introduce l’argomentazione con un’allusione a pensatori precedenti: «Quelli che hanno paragonato la vita a un sogno, hanno avuto ragione, forse più di quanto pensassero» (Montaigne 2012, p. 1103).
Lo studio delle fonti dell’Apologie de Raymond Sebond rinvia alle posizioni di Platone, Cicerone, Sesto Empirico ed Aristotele [5].
Platone introduce l’argomento del sogno all’interno di una discussione tra Socrate e Teeteto sull’identità conoscenza-sensazione. Socrate si rivolge all’interlocutore dicendo: «Più volte, credo, tu avrai sentito persone chiedere quale prova si potrebbe dare a dimostrazione [che si è svegli o no], quando uno, per esempio, ora stesso, così sul momento, ci venisse a domandare se dormiamo e se sia sogno tutto quello che stiamo pensando, oppure se siamo svegli e proprio da svegli ragioniamo tra noi». (Platone 2010, p. 47)
Teeteto risponde che è difficile dare una prova dimostrativa, poiché nella veglia e nel sonno tutti i ragionamenti e i racconti corrispondono perfettamente (Platone 2010, p. 47). Socrate archivia il discorso, dicendo che il tempo in cui dormiamo è uguale a quello in cui siamo svegli, e che lottiamo con pari ardore per le cose che in entrambi gli intervalli diciamo essere vere (Platone 2010, p. 47).
Negli Academica Cicerone oppone, a chi sostiene che le rappresentazioni dei dormienti siano più deboli di quelle di chi è sveglio, l’idea che in entrambi gli stati si crede con la stessa intensità nella realtà di ciò che appare [6]. Segue che, «per quanto concerne l’assenso dell’anima, non sussiste alcuna differenza tra le rappresentazioni vere e quelle false» (Cicerone 2009, p. 501).
Diversamente dalla posizione platonico-ciceroniana, Sesto Empirico affronta il sogno da un piano puramente epistemologico: «Secondo, poi, che si è addormentati o svegli, diverse sono le rappresentazioni sensibili; poiché nel modo come ci rappresentiamo le cose nel sonno, non ce le rappresentiamo da svegli, né nel modo come ci rappresentiamo le cose da svegli, ce le rappresentiamo nel sonno» (Sesto Empirico 1988, p. 25).
Il discorso, funzionale al quarto modo di sospensione del giudizio, «che si denomina dalle circostanze» (Sesto Empirico 1988, p. 24), conduce alla seguente conclusione: ciò che vediamo nel sonno e nella veglia esiste relativamente al sognare e allo stare svegli (Sesto Empirico 1988, pp. 25-26); non importa quale dei due stati sia reale, poiché la discordanza fra le due circostanze attesta già l’impossibilità di una conoscenza assoluta.
Avversario dell’argomento del sogno è Aristotele che, nel quarto libro della Metafisica, include il «chiedersi se in questo istante noi stiamo dormendo o siamo desti» (Aristotele 2010, IV, 1011 a 6-7) tra le aporie di coloro che pretendono nello stesso tempo di non avere convinzioni e di dare una spiegazione razionale di tutte le cose (Aristotele 2010, IV, 1011 a 7-10).
Senza entrare nel merito della validità o meno della recezione montaigneana delle dottrine precedenti, è tuttavia evidente che il confronto tra queste posizioni permette al francese di dare il proprio contributo personale all’argomento del sogno.
Sogno e realtà negli Essais
Secondo Montaigne «quando sogniamo, la nostra anima vive, agisce, esercita tutte le sue facoltà, né più né meno di quando è sveglia» (Montaigne 2012, p. 1103). Se il soggetto è mentalmente attivo sia nella veglia sia nel sonno, si pone il problema della differenziazione. È qui riproposta indirettamente la diatriba degli Academica di Cicerone: all’idea che le facoltà dell’anima siano deboli e oscurate nel sonno è contrapposta la similitudine tra i due stati. Il rapporto sogno-realtà non è accostabile a quello notte-luce viva, bensì alle dicotomie notte-ombra, dormire-sonnecchiare, più-meno, tenebre-tenebre cimmerie.
Quando Montaigne scrive «noi vegliamo dormendo, e vegliando dormiamo», la distanza è recisa. Veglia e sonno sono entrambi contraddistinti da oscurità e vaneggiamenti, dunque finiscono per fondersi. Il non discernere i due ambiti innesca un’insicurezza totale su ogni dato della nostra coscienza, così da rendere il problema apparentemente privo di soluzione: «dato che la nostra ragione e la nostra anima accolgono le fantasie e le opinioni che nascono in esse dormendo, e danno autorità alle azioni dei nostri sogni allo stesso modo che a quelle del giorno, perché non dovremmo domandarci se il nostro pensare e il nostro agire non sia un altro sognare, e la nostra veglia una specie di sonno?». A questa domanda se ne aggiunge un’altra, analoga, qualche pagina dopo: «Le circostanze delle malattie, della follia o del sonno ci fanno apparire le cose diverse da come appaiono ai sani, ai saggi a quelli che sono svegli, non è verosimile che il nostro stato normale e i nostri umori naturali abbiano anche la capacità di dare alle cose un’essenza corrispondente alla loro condizione, e di adattarle a sé, come fanno gli umori sregolati?» (Montaigne 2012, p. 1109 e sgg.).
Montaigne risponde indirettamente all’interrogativo in questo passo dell’Apologie de Raymond Sebond: «gli uomini non possono avere dei principi se la divinità non li ha loro rivelati: tutto il resto, e l’inizio e il mezzo e la fine, non è che sogno e fumo» (Montaigne 2012, p. 989.).
Ragionamenti, idee e discorsi «hanno un certo corpo, ma è una massa informe, senza armonia e senza luce, se non vi si accompagnano la fede e la grazia di Dio» (Montaigne 2012, p. 797). La fede autentica in Dio soccorre la ragione imbrigliata nei sensi e restituisce all’uomo il vero aspetto delle cose; il lume divino permette così di distinguere la verità dall’illusione, la realtà dal sogno. A risanare giudizio e volontà dell’uomo è «una stretta divina e soprannaturale, avente una sola forma, un solo aspetto e una sola luce, che è l’autorità di Dio e la sua grazia» (Montaigne 2012, p. 795).
Alla ragione naturale, creatrice di false immagini e menzogne, è contrapposta la vera ragione divina, che si mostra solo a chi ha fede, ovvero a chi ha ricevuto il dono della liberalità di Dio. (Montaigne 2012, pp. 931, 991, 1015, 1037) [7]. L’uomo «è un foglio bianco preparato a ricevere dal dito di Dio quelle forme che gli piacerà di imprimervi» (Montaigne 2012, p. 917); solo preferendo la fede cristiana alla virtù stoica si può «aspirare a questa divina e miracolosa metamorfosi» (Montaigne 2012, p. 1119).
La risoluzione dell’argomento del sogno è confermata da altri capitoli degli Essais, in cui Montaigne separa radicalmente il sogno dalla realtà, accostando il primo alla follia e all’ignoto, il secondo al terreno decisivo per raggiungere l’equilibrio psico-fisico.
Nel capitolo De l’exercitation paragona gli stati deliranti alla «cascaggine del sonno» (Montaigne 2012, p. 665), ovvero alla percezione confusa e oscura. In De la présomption usa l’espressione comme en songe per esprime la distanza tra i due stati: «Ho sempre nell’anima un’idea e una certa immagine confusa che mi presenta come in sogno una forma migliore di quella che ho usato, ma non posso afferrarla e concretarla» (Montaigne 2012, p. 1179).
Nella dimensione onirica le idee e le immagini sono molto più oscure rispetto alla veglia, dunque la difficoltà sta nell’afferrare il contenuto del sogno, non dell’oggetto reale. In De ne contrefaire le malade è riportato invece il racconto – di pliniana memoria – di un uomo che, sognando di esser cieco, scopre il mattino seguente di esserlo diventato. Secondo Montaigne «è più verosimile che i moti che il corpo sentiva all’interno […] fossero il motivo del sogno» (Montaigne 2012, p. 1273), piuttosto che la forza dell’immaginazione fosse la causa della cecità. È dunque la realtà ad avere incidenza sul sonno, non il contrario.
Nel capitolo Sur des vers de Virgile Montaigne chiama in causa il proprio vissuto: «Mi accade come per i sogni. Sognando li raccomando alla mia memoria (poiché facilmente sogno di sognare), ma l’indomani mi ricordo, sì, com’era il loro colore, o gaio o triste o strano; ma come fossero per il resto, più mi affanno a trovarlo, più mi trovo nell’oblio» (Montaigne 2012 p. 1625).
L’oblio non è più una condizione umana costante, ma solo un momento di smarrimento in cui si cerca invano di riportare all’unità tutti i contenuti mentali, inclusi quelli onirici. Infine in De l’expérience, Montaigne scrive: «Sogno di rado, e allora sogno cose fantastiche e chimere prodotte generalmente da pensieri piacevoli: più radicali che tristi. E ritengo che sia vero che i sogni sono fedeli interpreti delle nostre inclinazioni; ma ci vuole abilità nel coordinarli e spiegarli» (Montaigne 2012, p. 2049).
Negli Essais la differenza tra sogno e realtà è riconosciuta prima e dopo L’apologie de Raymond Sebond, un effetto collaterale dell’«écriture fragmentaire» [8] di Montaigne. È possibile che l’autore sia partito dalla fede in Dio, garante del vero, e abbia introdotto il rapporto sogno-realtà esclusivamente per supportare il pirronismo dell’Apologie; oppure abbia riflettuto sull’argomento durante la stesura del capitolo su Sebond, trovando in Dio l’unica soluzione possibile. In entrambi i casi la conclusione è la subordinazione della ragione alla fede, alla grazia e alla rivelazione. Una ragione autonoma incorre in aporie e in circoli viziosi, allontanando l’uomo dall’unica verità e ingabbiandolo alla mutevolezza e alla varietà dell’esistenza; una coscienza illuminata coglie invece i segreti dell’assoluto; in questa prospettiva, la ragione può e deve ammettere il proprio limite e accettare i principi che derivano da Dio stesso. La consapevolezza del limite non è però sufficiente a raggiungere il vero: senza l’intervento divino e un credere autentico l’uomo non può comprendere né la realtà del mondo né la realtà del tutto. La soluzione all’argomento del sogno non compromette la contingenza e la libertà della condizione umana [9], bensì le fortifica. L’anima s’interroga liberamente sull’esistenza, fino a comprendere che la chiamata in causa di Dio è l’unica via per evitare la paralisi del nulla e dell’incertezza. La devozione alla Verità permette inoltre al soggetto di affrontare la complessità del vivere con saggezza e moderazione, nonché di praticare una continua autoanalisi.
Conclusioni
Il riconoscimento dell’«“insufficienza” personale» (Starobinski 1984, p. 61) e l’intervento divino risanano la miseria della condizione umana. Attraverso il dubbio l’anima si libera dalle illusioni della natura sensibile, predisponendosi ad accogliere la grazia e la rivelazione. Se il pirronismo è la via per conoscere se stessi e la complessità del mondo, Dio è il principio risolutore che garantisce all’uomo la comprensione del vero e del giusto, nonché l’uscita dal dogmatismo e dal circolo della scepsi. Per Montaigne la ragione umana deve dunque sottostare a Dio, unico garante del perfetto discernimento tra ciò che è vero e ciò che non lo è, tra vita onirica e vita reale.
L’argomento del sogno non risana solo l’epistemologia, ma anche il fideismo: se la religione è un collante sociale, valida perché da tempo parte dei costumi di un popolo, la fede è l’accesso del singolo alla verità. In tutto il percorso scettico Montaigne oppone al dogmatismo della ragione il rispetto formale della religione del proprio paese (Montaigne 2012, pp. 881, 917), mostrando però che solo interiormente la nostra anima opera l’autentico percorso verso il divino [10]. Il rapporto con Dio è dunque personale e non ha nulla a che vedere con il lato sociale delle religioni che, seppur utili alla politica, rischiano di favorire una nuova tirannia della ragione.
L’adesione di Montaigne ai costumi cristiani e il rigetto dell’ateismo [11] sono fuori discussione, ma l’immagine del Dio a lui rivelatosi e il suo intimo rapporto con il sacro risultano impenetrabili, tanto da sfuggire alla peinture du moi degli Essais.
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[1] La traduzione di quest’opera fu richiesta dal padre Pierre Eyquem de Montaigne, che morì l’anno prima della pubblicazione (cfr. Burke 1998, pp. 29-30).
[2] A Sebond sono rivolte due obiezioni: la prima «che i cristiani si fanno torto volendo sostenere con ragioni umane il loro credo, che si concepisce soltanto per fede e per una particolare ispirazione della grazia divina»; la seconda «che i suoi argomenti sono deboli e inetti a dimostrare ciò che vuole» (Montaigne 2012, pp. 783, 799).
[3] Il punto argomentativo più radicale, che anticipa l’argomento del sogno, è la citazione di Euripide (cfr. in Stobeo, IV, 52, 38), secondo cui «è in dubbio se la vita che viviamo sia vita, o se sia vita quello che chiamiamo morte» (Montaigne 2012, p. 959).
[4] Questo è confermato dall’obiezione di Thomas Hobbes (1588-1679) alla prima meditazione di René Descartes (1596-1650): «poiché Platone ha parlato di questa incertezza delle cose sensibili, e poiché è facile osservare la difficoltà che vi è di discernere la veglia dal sonno, avrei voluto che questo eccellente autore di nuove speculazioni si fosse astenuto dal pubblicare delle cose così vecchie» (Obbiezioni fatte da persone dottissime contro le precedenti meditazioni con le risposte dell’autore, trad. it. A. Tilgher, F. Adorno, in Cartesio, Mondadori, Milano 2008,p. 240). Ciò conferma un vivo interesse per l’argomento del sogno antecedente alle celeberrime Meditazioni metafisiche (1641).
[5] Stando all’apparato bibliografico dell’ultima edizione italiana dei Saggi curata da Andrè Tournon, ci sarebbero diciassette riferimenti agli Academica (Lucullus) di Cicerone, diciotto agli Schizzi Pirroniani di Sesto Empirico, cinque al Teeteto di Platone e uno alla Metafisica di Aristotele (cfr. Note, in Saggi, cit., pp. 2367-2372, 2374-2379).
[6] La prima posizione è formulata in XV, 51-55 e confutata in XXVII, 88-89 (cfr. Cicerone 2009, pp. 477, 500-501).
[7] La fede rende forti e solidi gli stessi argomenti di Sebond, che servono «d’indirizzo e di prima guida a un principiante per metterlo sulla via di questa conoscenza; lo preparano in qualche modo e lo rendono atto a ricevere la grazia di Dio, per mezzo della quale la nostra credenza poi si compie e giunge a perfezione» (Montaigne 2012, p. 797).
[8] Cfr. L. van Delf, Les spectateurs de la vie: généalogie du regard moraliste, Les Presses de l’Université Laval, 2005, p. 216.
[9] Secondo Sandro Mancini proprio per non compromettere la contingenza della condizione umana e della libertà, Montaigne «non può e non vuole dare risposta» all’argomento del sogno. «Colmando la cavità dell’esperienza, svelerebbe l’enigma dell’identità e renderebbe con ciò superfluo e retorico interpellare Dio» (Mancini 1996, p. 315). Lo studioso sembra non tener conto del valore fortemente gnoseologico dell’intervento di Dio e della sua decisività nella risoluzione dell’argomento del sogno.
[10] Ciò emerge dal seguente passo: «La nostra fede non è nostro acquisto, è puro dono della liberalità altrui. Non è per ragionamento o per mezzo del nostro intelletto che abbiamo ricevuto la nostra religione, è per autorità e per comandamento estraneo» (Montaigne 2012, p. 797). La fede è subordinata a Dio; la religione alla politica e alla cultura di un popolo.
[11] L’ateismo è definito «una proposizione quasi contro natura e mostruosa» (Montaigne 2012, p. 793).
Bibliografia:
Aristotele 2010; Aristotele, Metafisica, trad. it. A. Russo, Mondadori, Milano
Burke 1998; P. Burke, Montaigne. Un profilo, trad. it. B. Lazzaro, Donzelli, Roma 1998
Cicerone 2009; Cicerone, Academica, trad. it. Antonio Russo in Scettici antichi, Mondadori, Milano 2009
Mancini 1996; S. Mancini, Oh, un amico! In dialogo con Montaigne e i suoi interpreti, FrancoAngeli, Milano 1996
Montaigne 2012; M. de Montaigne, Saggi, L. II, cap. XII, trad. it. Fausta Garavini, Bompiani, Milano 2012
Platone 2010; Platone, Teeteto, 158 b-c, trad. it. M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari 2010
Popkin 2000; R. Popkin, Storia dello scetticismo, trad. it. R. Rini, Mondadori, Milano 2000
Sesto Empirico 1988; Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, L. I, cap. XIV, trad. it. A. Russo, Laterza, Roma-Bari 1988
Starobinski 1984; J. Starobinski, Montaigne. Il paradosso dell’apparenza, trad. it. M. Musacchio, Il Mulino, Bologna 1984
Questo articolo è già stato pubblicato su Ritiri Filosofici il 5 aprile 2015.