Cosa intendiamo quando parliamo di causa ed effetto?

È nota l’affermazione di Kant secondo la quale è stato Hume a svegliarlo dal sonno dogmatico e ad imprimere alle sue ricerche filosofiche uno sviluppo del tutto diverso da quello iniziale. Il motivo di ciò sono state le osservazioni sul principio di causalità, che Hume considera come dipendente in modo esclusivo dall’esperienza. Tuttavia, a causa di alcuni rilievi critici avanzati dallo stesso Kant, si è spesso equivocato lo scetticismo di Hume fino a farlo coincidere con la distruzione della ragione e delle sue capacità conoscitive: alcuni lo hanno addirittura identificato con lo scetticismo classico pirroniano il quale, con l’epoché, teorizzava la pura e semplice sospensione del giudizio. Le cose però non stanno in questo modo ed è importante comprendere la vera lezione del filosofo scozzese.

Hume e i vari tipi di scetticismo
Per Hume gli scetticismi sono numerosi e non tutti comportano un azzeramento della ragione. Nell’ultimo capitolo della Ricerca sull’Intelletto Umano, egli ne elenca almeno quattro:
1. uno scetticismo antecedente, del tipo di quello raccomandato da Cartesio, non fondato su un principio autoevidente ma sul dubbio universale. Tale scetticismo è utile per gli studi, osserva Hume, in quanto per procedere sulla via della ricerca sono sempre necessari ripensamenti, verifiche e cautele di vario tipo; tuttavia esso non potrà mai condurre gli uomini alla sicurezza del sapere e per questo motivo deve essere accantonato;
2. uno scetticismo conseguente, che si ha quando gli uomini scoprono la fallacia delle loro facoltà mentali o l’incapacità dei sensi nel raggiungere una qualche forma di certezza. Gli uomini sono portati da un istinto naturale a porre fede nei loro sensi tanto da ipotizzare un mondo esterno che non dipende dalla loro percezione. Tale istinto viene meno nel momento in cui essi comprendono che la mente ha a che fare con un’immagine (una rappresentazione) e che i sensi sono solo le porte di una relazione tra mente e oggetto che non è immediata. A quel punto, continua Hume, usciti da quell’istinto primario, gli uomini si trovano nella necessità di giustificare quel nuovo sistema. L’idea di ricorrere a Dio (come voleva Cartesio) per giungere alla certezza della conoscenza sensibile (l’essere verace che non può ingannare) non entusiasma però Hume, il quale la considera una strada molto più lunga e dispendiosa in cui, alla fine, per recarsi nella medesima destinazione, ci si ritrova nello stesso punto di quelli che avevano preso la strada più breve;
3. uno scetticismo eccessivo o pirroniano, il tipo più distruttivo di tutti, che si risolve in un mettere sulla bilancia i vari argomenti su ogni questione per dichiarare l’impossibilità di risolverla: l’epoché, cioè la sospensione del giudizio, è la conclusione più logica e naturale. Tale scetticismo può essere combattuto solo dalla vita di tutti i giorni perché i problemi pratici che essa ci mette davanti non consentono speculazioni di alcun genere e quindi, come per gli altri casi, deve essere messo da parte;
4. uno scetticismo moderato o accademico che è quello di cui si deve far uso. «L’esistenza di qualcosa – dice Hume – può essere provata solo con argomenti tratti dallo studio delle associazioni di causa effetto, le quali si fondano soltanto sull’esperienza. Se ragioniamo a priori, ogni cosa può risultare capace di produrre qualsiasi cosa. La caduta di un sasso potrebbe, per quel che ne sappiamo, spegnere il sole; o la volontà di un uomo potrebbe guidare i pianeti nelle loro orbite. È soltanto l’esperienza che ci fa apprendere la natura ed i limiti della relazione di causa ed effetto e che ci consente di inferire l’esistenza di un oggetto da quello di un altro». La conclusione ineccepibile di questo ragionamento è che un argomento a priori può invalidare anche il principio dell’ex nihilo nihil perché qualsiasi volontà, parto dell’immaginazione più capricciosa, può essere immaginata prima di qualsiasi esperienza. È questo moderato il vero scetticismo humiano perché, oltre a non essere distruttivo della ragione, riguarda in modo specifico ciò che stava più a cuore al filosofo scozzese, l’uso del principio di causalità.

Il duplice risveglio kantiano
Questo scetticismo ha esercitato ben presto il suo influsso su Kant come dimostra lo scritto precritico Sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica del 1766. Sebbene sia rivolto alla distruzione (anche ironica) del concetto di spirito, verso la fine Kant osserva che «in quanto qualcosa è causa, vi è qualche cosa che pone qualche cosa d’altro, ma non si stabilisce alcun rapporto di coincidenza. (…) Perciò i concetti fondamentali delle cose come cause, quelli delle forze e delle azioni, se non sono ricavati dall’esperienza, sono del tutto arbitrari e non possono essere né dimostrati né confutati».
Nella Dissertazione su Forma e principi del mondo sensibile e del mondo intelligibile, scritta nel 1770 per la sua abilitazione a docente universitario, il registro sembra cambiare, tanto da costituire una sorta di passo indietro rispetto alle audaci riflessioni di quattro anni prima. Nella Dissertazione non si fa riferimento al principio di causalità e Kant giunge addirittura a teorizzare, riferendosi a Malebranche, la necessità di vedere le cose in Dio. Evidentemente la necessità di ottenere una cattedra all’Università giustificava un certo assopimento critico.

Solo nella Critica della ragion pura del 1781, e nei Prolegomena pubblicati due anni più tardi, Kant renderà pienamente omaggio a Hume in una sorta di secondo risveglio dogmatico. Prendendo ad esempio la misurazione dello spazio, Kant indicava in Hume il geografo della ragione umana il quale, volgendo la sua attenzione al principio di causalità, ne stabilì il suo esatto valore, il quale consiste (e trattasi di un punto decisivo) nella sua enorme utilità pratica. «Nel campo della ragion pura, il primo passo, che in un certo modo ne costituisce la fanciullezza, è dogmatico. Il secondo passo è scettico il quale dimostra la cautela di un giudizio scaltrito dall’esperienza».

Per Kant bisogna tuttavia fare un passo ulteriore per condurre la ragione ad essere consapevole di fornire conoscenze pure a priori. «Lo scetticismo costituisce pertanto un luogo di sosta per la ragione umana, in cui essa può riflettere sulle sue avventure dogmatiche e schizzare il disegno della regione in cui si trova per poter scegliere in seguito un più sicuro cammino».

I rilievi critici che Kant avanzava nei confronti di Hume, sebbene enfatizzati, non scalfivano il giudizio positivo nei suoi confronti: in fondo quei suoi traviamenti scettici (così come li definiva) riguardavano la mancata distinzione tra intelletto e ragione, cioè un rilievo più formale che sostanziale. Hume, più che tra gli scettici, veniva addirittura accomunato ai dogmatici per non aver preso in considerazione i principi che permettono di anticipare l’esperienza; ma rimaneva la valutazione dello scettico come precettore che guida verso una sana critica dell’intelletto con il suo metodo che «si risolve in un esercizio preliminare, per risvegliare la cautela della ragione e segnalarle quei mezzi sicuri che la possono garantire nei suoi possessi legittimi».

Principio di proporzionalità e ricadute nel sonno dogmatico
Quell’esercizio preliminare va dunque sempre effettuato affinché l’agire pratico non ne sia paralizzato. Il suo fondamento chiave è il principio di proporzionalità. Siccome, dice Hume, noi possiamo soltanto risalire dagli effetti alle cause, quando attribuiamo una causa ad un certo effetto, non dobbiamo farlo in modo da attribuire alla causa qualità diverse o superiori rispetto a quelle rinvenibili nell’effetto. In altre parole, bisogna tenere conto della giusta proporzione tra effetto e causa, altrimenti finiamo solo per assecondare le nostre fantasie più irrazionali. Pensare di attribuire alla causa proprietà che non sono nell’effetto, significa sprofondare nella follia, perché è impossibile conoscere la causa all’infuori di quello che è stato scoperto nell’effetto. Ogni ragionamento a priori è fuori luogo e finirebbe per impedire l’azione, con danni incalcolabili e indesiderabili. Si possono fare a questo proposito gli esempi più bizzarri: io, ad esempio, non rinuncio a percorrere a piedi il sentiero vicino casa per andare a scuola solo perché esiste una remota possibilità di incontrare un elefante imbizzarrito; allo stesso modo non spero (o non temo) di sollevare la serranda del mio garage pensando di trovare un disco volante al posto della mia macchina. Il principio di proporzionalità dunque, ovvero la regolarità delle osservazioni empiriche, oltreché riabilitare la ragione (Hume non è uno scettico pirroniano) è l’unica bussola a disposizione per orientarci nel mare in tempesta.

Nel caso del vaccino Astrazeneca (lasciando da parte ogni considerazione diversa dal semplice uso della ragione) pensare di cercare una causalità all’infuori degli effetti già ampiamente osservati (e che riducono i suoi rischi ad una percentuale di gran lunga inferiore a quelli di una compressa per il mal di testa), risulta essere un esercizio utile solo per fomentare allarmismi. Eppure proprio questo è avvenuto nel linguaggio dei mass media e della politica; anzi, si è fatto anche di peggio, nel momento in cui si è invocato un principio di precauzione che ha finito per moltiplicare i danni alla salute pubblica.

La lezione che possiamo trarre da questa vicenda è almeno la confutazione dell’idea secondo cui il giudizio sui fatti sia appannaggio delle persone pratiche e lontane dalla filosofia: l’empirismo (tanto per usare le parole di Kant), è ancora una volta andato incontro alla più completa impopolarità. L’intelletto comune infatti viene sospinto verso quei concetti che sono materia delle menti più esercitate alla filosofia. «Ma è proprio questo – aggiunge il filosofo tedesco nella sua Critica – il motivo che spinge l’intelletto comune: esso viene a collocarsi in una situazione in cui neppure il più dotto dei dotti è in grado di sopravanzarlo. È vero che esso capisce poco o nulla, ma nessuno può vantarsi di saperne di più; (…) e così potrà sofisticare in misura ben maggiore, aggirandosi tra idee pure, nei cui riguardi è possibile ogni genere di eloquenza, proprio perché non ne sa nulla».

 

Foto di Paul McManus da Pixabay

Insegnante con dottorato di ricerca in Filosofia. Vive e lavora a Nocera Umbra, autore del podcast che prende il nome dal suo motto: Hic Rhodus Hic salta.

Lascia un commento

*